Lo Specifico Stilistico E Altre Riflessioni Sulla Riproposta Del Canto Popolare

Riprendiamo a parlare di “specifico stilistico”. Questo concetto animò il dibattito sulla canzone popolare tra quanti intendevano riproporla in modo consapevole nella seconda metà degli anni sessanta. La definizione fu coniata, o quanto meno proposta all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano, da Roberto Leydi verso la fine del ’65 inizi ’66. In quel momento gli sviluppi che stavano assumendo le Edizioni del Gallo, il Nuovo Canzoniere Italiano e i Dischi del Sole imponevano di promuovere una chiara riflessione su “chi siamo e dove andiamo a parare”. 
Il Nuovo Canzoniere Italiano aveva appena portato in tutti i teatri italiani la prima “opera” di musica popolare: la rappresentazione “Bella ciao” sollevando attenzione e approvazione. 
Si stavano sviluppando attività decentrate rispetto al gruppo originario milanocentrico: la straordinaria ricerca di Caterina Bueno in Toscana, le esperienze non solo musicali del Gruppo Padano di Piadena; il fermento romano che aveva già portato al Canzoniere Giovanna Marini, che avrebbe dato vita al Canzoniere dell’Armadio e successivamente alla improvvisa “epifania” di Paolo Pietrangeli; e ancora alla formazione dello straordinario Canzoniere del Lazio prima maniera, all’attività di Sandro Portelli e, successivamente, alla nascita del Circolo Gianni Bosio ancora estremamente attivo nella capitale; lo sviluppo del nostro gruppo (il Canzoniere Popolare Veneto) che dette impulso sia alla ricerca che alla scrittura di nuove canzoni. Non vorrei aver dimenticato qualcuno, ma sono stati tanti e rapidi gli eventi espansivi dell’esperienza. 
Si erano fondate le Edizioni Musicali Bella Ciao per raccogliere e depositare tutto il materiale di ricerca e di nuova composizione. 
Era nato, con i migliori auspici, e sarà un grande fatto di cultura e di organizzazione, l’Istituto Ernesto De Martino.
Nuovi autori e musicisti si avvicinavano al NCI e ai Dischi del Sole con canzoni che raccontavano la realtà di quegli anni e portavano con sé anche esperienze musicali diverse; potevamo in qualche modo essere paragonati ai “folkniks” così maltrattati da Lomax; dopo di me da Venezia arrivò Alberto D’Amico, il già citato Pietrangeli da Roma, e ancora da Roma Gianni Nebbiosi con uno straordinario disco sulla psichiatria (erano gli anni di Basaglia a Trieste e di Agostino Pirella a Gorizia), dalla Puglia cantastorie come Silvano Spadaccino e il grandissimo Matteo Salvatore e poi Paolo Ciarchi stretto collaboratore di Ivan Della Mea per molti anni, Rudy Assuntino e via via tanti altri dal ’68 in poi. 
Si stava preparando un altro nuovo grande spettacolo, “Ci ragiono e canto” con la regia di Dario Fo, la cui grandezza interpretativa poteva anche porre qualche problema sul fronte dell’esecuzione del materiale popolare. 
In questo scenario allo stesso tempo entusiasmante e complesso Roberto Leydi decise di porre il problema di come si dovesse “trattare” il materiale popolare, di quali criteri interpretativi si dovessero assumere, che rapporto stabilire con la fonte orale. Non è che ricercatori come Gianni Bosio, Franco Coggiola, Cesare Bermani, Dante Bellamio e altri che spendevano le loro energie nell’impresa non avvertissero il problema. Tutt’altro! La gestione, ad esempio, della vicenda “Ci ragiono e canto” fu un banco di prova tremendo per i curatori dell’Istituto, provocò la rottura definitiva con Leydi, che abbandonò l’impresa, e creò non pochi momenti di frizione con Fo fino a rischiare l’abbandono del progetto. C’era in Bosio e negli altri una certa disponibilità a dare più credito anche alle nuove esperienze musicali ed una acuta preoccupazione di chiusura accademica. Leydi, per esempio, aveva un’attenzione decisamente selettiva verso la nuova canzone politica, prendendo in considerazione soprattutto quella che esplicitamente si inseriva nel filone della musica popolare, ricalcandone perfino stile e modi. In ogni caso il vero e proprio aspro confronto verteva attorno alla domanda “Che rapporto ci dev’essere tra il canto dell’informatore e la riproposta?” 
Ogni informatore, si diceva, rappresenta una comunità, ne ripercorre la storia e i sentimenti e il modo con cui ci porge le se canzoni, siano esse d’amore o sociali, non è indifferente: bisogna cercare di capire qual è lo specifico messaggio che ci manda e con quali modalità canore lo fa. Insomma nelle campagne o nelle città non si canta a caso, esiste un modo, appunto uno specifico stilistico, con cui ciascuna comunità si esprime per bocca dei suoi rappresentanti spontanei. Questo specifico poteva essere rappresentato in notazione musicale; ci provò a lungo Giovanna Marini, decisamente la più titolata a farlo, andando a segnalare forme musicali che rivelavano persistenze modali, andamenti melismatici tipici, cadenze e ritmi particolari. Ci accorgemmo che la notazione “colta” non bastava, bisognava costruire degli appositi segni e le conseguenti legende. Poteva essere descritto attraverso l’osservazione degli atteggiamenti: quasi mai i singoli o i gruppi motteggiavano o indugiavano in espressioni corporali men che controllate. Era il momento di Brecht e del suo teatro dello straniamento. Dalla drammaturgia popolare, ma anche da quel modo visibilmente neutro, apparentemente distaccato, di porgere il dire e il cantare, le teorie di drammaturgo tedesco ricevevano una limpida conferma. 
Infine poteva essere espresso dal modo di cantare, di emettere la voce, di calcare, o meglio non calcare le parole, di entrare e uscire con le diverse voci e con quali voci; insomma il magnetofono, come allora veniva prevalentemente chiamato, ci poteva restituire vere e proprie lezioni di canto a cui attingere. Bisognava dedicarsi ad un vero e proprio “ricalco filologico”. Su questo punto si consumò la rottura. Le critiche andavano da “E’ limitativo e statico” a “Non siamo degli imitatori”, e avevano certamente una parte di ragione, anche se lo scempio che s’é successivamente fatto del patrimonio popolare (ricordo le esecuzioni delle celebri mondine Orietta Berti e Gigliola Cinquetti, tanto per far due nomi) consigliava almeno di confrontarsi serenamente su temi di questa portata. Non ci fu il tempo, Dario Fo incalzava con le sue audaci interpretazioni, non ci furono forse neanche le energie e le occasioni: la rassegna l’Altra Italia tenuta a maggio del 1966 all’Istituzione Umanitaria di Milano rese espliciti i percorsi che Leydi, Sandra Mantovani, Hana Roth, Enrico Sassoon, Bruno Pianta da una parte, tutto il NCI dall’altra avevano preso. 
Accanto a rappresentazioni di grande contenuto politico come “Gorizia, una guerra” a cura di Tullio Savi e Gianni Bosio con la regia di Virgilio Puecher, o “La opposizione” a cura di Michel L. Straniero, Leydi propose “Il cavaliere crudele” una straordinaria esecuzione di ballate prevalentemente dell’area Lombardo-Piemontese in cui incominciò a delineare la sua ipotesi di ricerca. 
Nacque così “l’Almanacco Popolare” che ebbe una vita di alcuni anni e produzioni decisamente di qualità. L’anno successivo, 1967, dell’Almanacco Popolare entrò a far parte un giovanissimo, e già bravo, Moni Ovadia. Alle rappresentazione di quell’edizione de “L’Altra Italia” partecipammo anche come Canzoniere Popolare Veneto; eravamo il gruppo di riferimento, assieme ad altri, nella realizzazione di “Gorizia” uno spettacolo davvero faticosissimo che ci mise a dura prova nel senso che provammo e apportammo modifiche teatrali e musicali fino a pochi minuti dalla messa in scena. Per il gruppo fu il successo che creò le condizioni per una ripresa piena dei rapporti con il NCI. E i nostri amici e maestri milanesi ascoltarono una Luisa Ronchini che non avevano ancora sentito e forse nemmeno immaginato. Un paio d’anni fa l’Accademia teatrale di Udine organizzò un incontro sul tema dell’esecuzione dei canti popolari. A questo dibattito fummo invitati anche Giovanna Marini ed io. Sono sempre stato considerato, specialmente da Leydi, un buon esecutore dei canti veneti, ma di alcuni non ho mai sentito la registrazione originale. Li ho appresi di seconda mano, eppure Roberto ha sempre sostenuto che “sembravano veri”. Io spiegavo: ”Ma ho sempre sentito cantare così, mi viene naturale” e in particolare mi venivano naturali alcuni melismi tipici dell’area lagunare, talmente bene che ero spontaneamente portato ad esagerarli, mi pareva che così sottolineavo il senso di quel cantare. All’incontro di Udine ad un certo punto Giovanna più o meno disse:”Se io sento una prefica (le donne che nel sud cantano e piangono ai funerali) che fa un certo “svolo” e mi pare che sia la parte più significativa, specifica del suo canto, ma io prendo quello e lo estendo, lo sviluppo, lo “esagero” perché è proprio quella la diversità che mi colpisce e comunica”. Che sia questo il ragionamento da cui eventualmente ripartire? 

Gualtiero Bertelli

Foto tratte dall'Archivio de L'Unità
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