Yo Yo Mundi – Munfrâ (Felmay/Egea)

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Non ha avuto una gestazione breve il nuovo lavoro della band di Acqui Terme per l’etichetta diretta da Beppe Breppi, che ne ha curato la direzione artistica. Non poteva essere altrimenti, perché pensare di raccontare in poesia e musica la propria terra – il Monferrato, Munfrâ nel dialetto locale – non è impresa agevole, soprattutto dovendo misurarsi con decenni di folk revival piemontese che ha scritto pagine magnifiche, raccogliendo suoni e storie di quell’area e ridando vita e dignità a strumenti desueti. Ma dopo quattro anni di lavoro di studio e composizione la sfida è vinta, perché Munfrâ riesce a raccontare con ispirata vena poetica e fine gusto melodico quel territorio collinare del Piemonte, incastonato tra Langhe, Roero, rilevi appenninici e costa ligure. Sulla scia di altri colleghi, il vostro recensore non si sottrarrà alla citazione di Paolo Conte, gran cerimoniere dell’album, che nella sua bella prefazione, definisce “selvatica” la musica di Yo Yo Mundi, felice nel mettere in comunicazione “antico e futuro”. Il folk degli arquatesi è lontano dall’approccio filologico, il canto nell’idioma locale, utilizzato in sei dei sedici brani del disco, volutamente viene levigato, perde le asperità, segnato com’è dal passare millenario delle genti. Paolo Archetti Maestri e i suoi compagni, complici i numerosissimi ospiti italiani ed internazionali, hanno seguito le suggestioni di feste, rituali, storie contadine, leggende e luoghi, per ridare vitalità ad una memoria sopita e costruire un Monferrato immaginifico. Il serrato respiro ritmico che principia l’album è soffio fatato che alimenta un suono di matrice folk-rock, fatto di chitarre elettriche, ghironde dell’occitano Sergio Berardo, musette bourbonnaise e whistle suonati da Fabio Rinaudo. Trascinano con la loro amabile atmosfera festiva “Sstéila”, impreziosita dal tocco di mantice di Filippo Gambetta, e il valzer “Dùma ch’andùma”, costruito sulla fisarmonica di Fabio Martino e il mandolino di Steve Wickham. Gli umori sudamericani di “Carvé 1928” rievocano a passo di danza un Carnevale di fine anni ’20. Tra ritmo di marcia e impennate del violino di Wickham che tesse fraseggi di sapore irlandese, "Na bèla còrba ed nìule" è un omaggio al monferrino Luigi Tenco. Il fascino “celtico” domina anche nello splendido strumentale “Arcanssél”, dove si incrociano i fiati di Mario Arcari, le uilleann pipes di Rinaudo e l’arpa di Vincenzo Zitello. Il profilo popolare trionfa ancora in "Léngua ed ssu", mentre il timbro caldo dell’oud di Franco Minelli (Orchestra Bailam) dà forma a "Tè chi t'éi?", storia di incontri e reciproci riconoscimenti: ieri come oggi, cantata a voci alterne, italiano ed arabo, da Archetti Maestri e Nabil Salameh (Radiodervish). “Rabdomantiko”, partecipe il canto di Betti Zambruno, apre una doverosa riflessione sulla questione del bene comune acqua. Segue “Léngua Ed Ssu: El Bâl”, strumentale per la müsa di Andrea Masotti e il piffero di Stefano Valla che ci fa respirare aria delle Quattro Province . La nascita del Monferrato è evocata in “La ballata del tempo del sogno”, protagoniste le voci vellutate di Eugenio Finardi ed Elisabetta Gagliardi. Festa di chiusura affidata alla felliniana “Orsanti”, che fa rivivere i tempi degli artisti girovaghi, e alla bonus track, che è la reprise di “Carvè 1928”, nell’interpretazione traboccante della Bandarotta Fraudolenta.

Ciro De Rosa

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