Fleet Foxes - Helplessness Blues (Sub Pop/ Bella Union)

Generalmente ogni primo disco è intriso di racconti plasmati dai sogni e dalle speranze di una intera vita, genuino e travolgente come solo i primi lavori sanno essere. Difficile, se non impossibile, ripetere la magia una seconda volta, non per mancanza di talento quanto perché le aspettative che nascono in conseguenza ad un successo inaspettato finiscono - indipendentemente dalla propria volontà - con il contaminare la purezza degli inizi. In parole povere, ogni secondo disco segna l'addio all' "età che non ha pensieri". Adesso si è "adulti" e ci sono responsabilità alle quali bisogna rispondere; la macchina del music business si è messa in moto, il "fare musica" diventa quasi di secondaria importanza. Ascoltando "Helplessness Blues" dei Fleet Foxes, non è difficile pensare che anche le giovani volpi di Seattle siano caduti nella trappola. Perfettamente calati nella parte di "indie-folk musicians" con barba e capelli lunghi e camicie della migliore tradizione boscaiola, confezionano un album che sembra essere il risultato di alchimie appositamente create (e ritoccate) in studio. Non bastano i cori caldi di Montezuma, la svolta free (ma non jazz) del finale di "The Shrine/An Argument", o l'intimismo di "Blue Spotted Tail" a rendere il disco meno freddo, ma soprattutto formale fino al midollo. La lista degli strumenti utilizzati (harmonium, dulcimer, moog, marxophone e altri ancora) è lunga quasi quanto quella degli autori che li hanno ispirati (dai classici Byrds, Dylan, Pete Seeger, Brian Wilson, Neil Young, CSN&Y, Peter Paul & Mary ai misconosciuti ai più, Judee Sill e Robbie Basho) e, trattandosi di folk revival prima ancora che di indie-folk, non poteva di certo mancare quel sound dal retrogusto di folk fine anni settanta inizi settanta tipico di gruppi quali Pentangle o Steeleye Span. Insomma, tanti i nomi tirati in ballo e citati volontariamente o meno nel disco (come la camaleontica "Sim Sala Bim" che nasce Pentangle e termina Led Zeppelin; per essere più precisi nella "Going To California" dei Led). In questo intreccio di rimandi è facile perdersi e dimenticarsi degli episodi felici del disco, come l'avvolgente "The Cascades", la già citata "The Shrine/An Argument", fotografia in musica del passato che si fonde con il presente: dal folk degli anni d'oro, all'attuale scena folk che, anche se con non poca fatica, cerca di tracciare una nuova strada che possa permettergli di trovare la propria identità e sganciarsi - definitivamente - da un passato che pesa come un macigno sulle spalle di questi "nipoti del folk". La speranza è che il terzo disco possa essere la fusione perfetta tra la genuinità del primo lavoro e la maturità compositiva di "Helplessness Blues"; aspettativa che non è da intendersi come pretenziosa visto che i Fleet Foxes hanno tutte le carte in regola per poter fare il meritato salto di qualità, ma per farlo hanno bisogno di sganciarsi dalla monotonia imposta dalle case discografiche (anche quelle che si definiscono indipendenti ma che invece, alla fine, tendono a plasmare a loro piacimento il sound dei propri artisti).

Chiara Felice

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