Fabrizio Coppola – Heartland (Musica Distesa, 2023)

Voglio essere netto fin da subito, ogni tanto sapete che mi prende così: era da un bel po’ di tempo che aspettavo di sentire un disco puro e genuino come quello di Fabrizio Coppola, un qualcosa che avesse i nervi a fior di pelle, ma filtrati da una penna lirica e delicata. Ecco, sono molto contento di averlo trovato, questo qualcosa. Anche perché “Heartland” (per cui si è avvalso della batteria di Diego Galeri, del violino di Sara Spadini e delle percussioni di Zeno Dottori, oltre che delle invenzioni del fantasista Giuliano Dottori, con cui si è alternato a chitarre, synth, organi e pianoforti, lasciandogli l’esclusiva su basso, programmazioni e produzione) arriva a dodici anni di distanza dal precedente, “Waterloo”, ed è un dato, questo, che, soprattutto se calato nelle vertigini frettolose (discografiche e non) dei nostri tempi, diventa ancora più significativo: definisce totalmente l’habitat resistente di canzoni che scorrono incessanti, a tratti torrenziali, a raccontare di miserie umane, solitudini e slanci quasi titanisti. Album aperto da “Tutto questo blu” (“E quando anche l’ultimo missile avrà fatto il suo dovere, sentirai la mia voce silenziosa cantare per te”), sorretta dallo strumming in delay di una chitarra brumosa, sommersa in uno splendido crescendo umido di synth. “Lettera a C” (“Colpimmo la notte sparando nel mucchio dei sogni già rotti, quelli che non portano più a niente adesso dove sei? Dove sei finito adesso?”) marcia sulla ritmica dritta della batteria, scortata da un basso che lavora sottopelle, ed accesa dalle tensioni della chitarra elettrica e dalle incursioni dei sintetizzatori. A seguire, una “Roma Raccordo Anulare” (“Tre del mattino il silenzio che pulsa è un tamburo il cuore è un giocattolo a molla che sbatte sul muro c’è una luce che fa male, vorrei precipitare fino a te”) che poggia su un nebbioso riff di chitarra, doppiato da una vorticosa linea di basso e squarciato da synth di cristallo. “Io che vado a fondo” (“Scompaiono le strade, le case ed i palazzi resti tu da sola nuda nel tuo letto ti alzi e ti rivesti, la faccia nello specchio non ti può più credere”) ci accoglie con gli accordi dilatati di un pianoforte, sotto cui si agitano le trame elettriche della chitarra, che finiscono per esplodere nelle ordalie sintetiche che squarciano il brano, prima di tornare al piano nudo finale. Giro di boa dell’album è “Più forte di me” (“Puoi vedermi dondolare nella notte sentirai la mia voce di ossa rotte con le mani o senza mani si cade tu resta in piedi, sui tuoi piedi, non mollare”), obliquo valzer sorretto dall’incastro fra synth e chitarre riverberate, con un pianoforte acquoso a contrappuntare malinconie. Di tutt’altro tenore è “Dove sei tu” (“E adesso che ho nuove rughe sul viso e questo mezzo sorriso che devo farmi bastare e adesso che ho nuovi giorni da contare guardo le mie mani, prego venga in fretta il domani”), con un riff elettrico a cavalcare il pattern teso della batteria, scarnificato da un basso al fulmicotone e mitigato dalle aperture dei sintetizzatori. “Meno di pochissimo” (“Io accarezzo i lividi, li tengo qui con me a volte poi mi capita, ancora di splendere, so splendere”) si snoda lungo un denso strumming acustico, allargato da un organo e frastagliato dai fraseggi della chitarra elettrica. “Dove va l’amore?” (“Dove va l’amore quando se ne va? L’han visto galleggiare poco fuori città l’han visto illuminare la fine di settembre l’han visto rifiorire sulle labbra e poi sparire”) segue timbri simili, con una chitarra acustica a trascinare- insieme alla batteria- ritmicamente il pezzo, la chitarra elettrica ad affrescare svisate e un organo a muoversi, vellutato, nelle retrovie. “Elegia per la Strada del Tuono” (“Questo anello sulla mano 22 non è oro e non è latta né sconfitta o perdono sono io e sono solo un uomo”) scorre lungo le pennate morbide della chitarra acustica, che affondano in lagune di synth, da cui riemergono i contrappunti umbratili del pianoforte ed una intensa linea di basso essenziale ma atmosfericamente necessaria. A chiudere l’album tocca alla delicata “La versione migliore di me” (“e ridi ancora, ridi ancora e che il sole sia per sempre nel tuo cuore com’è bello andare a scuola in bici senza pedalare giro giro girotondo, l’amore è un gioco vecchio quanto il mondo”, costruita attorno al tenero arpeggiare della chitarra acustica, col pianoforte a distillare note ed i synth a riempire in crescendo. Per tirare – più di quanto sia già stato detto – le somme, ci troviamo di fronte a canzoni a rilascio lento, di quelle che partono piano e che ti si piazzano sotto il mento come un uppercut che va a segno. Squarcia con la semplicità disarmante di chi ha la necessità di raccontarsi e raccontare: ecco, la purezza e la genuinità di cui sopra, ritornano esattamente in questo punto. È, oltre a tutto questo, anche un piccolo breviario sull’importanza di calibrare le parole, lavorarle di cesello, con cura e con calma. Un lavoro d’artigianato. Ché i cantautori, quelli veri, fanno esattamente così. 


Giuseppe Provenzano

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