Germano Bonaveri – Il Bardo e il Re dei gatti (Visage Music, 2021)

Ci sono delle espressioni artistiche - cinema a parte - che riescono a trascendere la loro arte di partenza per abbracciare nuovi linguaggi, e ci riescono per un motivo molto semplice: nascono talmente incisive e talmente potenti da trasformarsi in vere e proprie opere audiovisive, con un legame inscindibile fra i suoni e le immagini che da quei suoni scaturiscono. Parlo di una capacità quasi letteraria di dar corpo, nella mente dell’ascoltatore (o del lettore), a qualcosa che corpo non ha, che nasce nota su pentagramma o parola su pagina. Chiaramente ogni ascoltatore o lettore ci vede dentro un mondo diverso, un’atmosfera diversa, quella lì è la magia dell’immaginazione di ciascuno di noi, ma insomma, il punto è che c’è comunque una certa capacità di alcune espressioni artistiche in grado di rimandare ad altri mondi, a quel “senso dell’utopia” di cui parlava Rodari, a mettere nella condizione di vedere nitidamente un racconto o una canzone, affidandone la direzione al regista più bravo di tutti: la nostra fantasia. “Il Bardo e il Re dei gatti”, sesto lavoro in studio del bolognese Germano Bonaveri (che in carriera ha collaborato con gente come Beppe Quirici, tanto per dire) è uno di quegli album che rispondono esattamente ai requisiti di cui sopra. Ed è l’ennesima conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che la canzone d’autore è viva e lotta insieme a noi. Sesta prova in studio, dicevamo, che arriva dopo altri eccellenti esempi di musica alta, due su tutti “L’ora dell’Ombra Rossa” e “La Staffetta”, e che riesce a trattare un argomento come l’amore non banalizzandolo ed anzi, sollevandolo verso nuovi orizzonti poetici. In più, in questo concept album composto da tredici tracce che sono un enorme poutpourrì di stili e richiami musicali, trovano spazio anche una interessante narrazione del mondo contemporaneo ed un racconto della natura quasi leopardiano, del Leopardi pre-pessimismo cosmico. Insomma, tantissima carna al fuoco, per cui vediamo bene di cosa si tratta. Lavoro aperto da “Infanzia (“Ho realizzato che tutto è transiente/ nel magma confuso del nostro sentire/ che sfugge testardo, poi muore senziente/ nel quieto persistere del divenire/ in cui ogni ente scivolerà”), pezzo che ha nella ciclicità della vicenda raccontata- la coesistenza fra passato, presente e futuro- il suo nucleo letterario, e che è sostenuto da un pianoforte, con la sezione ritmica che sposa perfettamente la linea di basso con i fill di batteria, costituendo di fatto il principale elemento di alternanza del pezzo. I contrappunti degli archi danno maggior colore, mentre l’ingresso della chitarra elettrica dal bridge costituisce un vero e proprio strappo, che sfocia nel solo finale e che dà al pezzo il sapore di una cavalcata con la brezza in faccia. “Iniziazione” è un brano che a cercare di decodificarne tutti i piani di lettura ci si impiegherebbe almeno una settimana, scandito dall’allegoria dantesca delle tre fiere dal punto di vista letterario e da un clavicembalo medievaleggiante che fa da tappeto dal punto di vista musicale. Interessante anche la sezione di fiati, che, insieme alle modulazioni presenti, costituisce l’elemento di alternanza nella dinamica del pezzo. Terza traccia è “Moloch” (“Sono il demone che spinge alla disobbedienza/ perché io, a modo mio,/ sono l’artefice segreto di ogni resistenza”), altro bel lavoro di restituzione di un immaginario attraverso una canzone. Qui il protagonista è il dio/ demone omonimo, accostato, in un volo pindarico letterario sfavillante, al ben più noto Lucifero. Qui le atmosfere virano sul jazz, e giocano sulla teoria del contrapporre ad un personaggio negativo (quantomeno per la maggioranza) una musica fresca, ficcante e, per certi versi, ironica: abbiamo un Rhodes che fa da sostegno ritmico al pezzo, e si fonde alla perfezione con una linea di basso ammaliante e con con una chitarra elettrica a metà fra ritmica jazzata e venature blues, costantemente squarciato da un sax impazzito che imperversa. “Fior d’amaranto” (“Io non giurai alla patria/ ma sul cuore di una fanciulla/ quindi non me ne voglia/ ma all’impero non debbo nulla”) è una canzone dai toni epico- cavallereschi, che affronta, in modo quasi antigoniano, il concetto di giustizia, scandita da un tappeto di Rhodes, aiutato dalla complementarità fra pianoforte e chitarra e da un leggero sottofondo di archi, con un solo di chitarra slide che fa da nota di colore. Altra traccia è “L’amante”, pezzo che canta l’amore libero ed universale, intriso da un afflato fiatistico quasi fossatiano (segnatamente “Lindbergh- Lettere da sopra la pioggia”, e non a caso fra i musicisti di questo album c’è Mario Arcari, già con Fossati nel disco di cui sopra), sostenuto da un pianoforte d’accompagnamento. Segue “Le cose che contano” (“E attraversiamo il mondo/ col passo sicuro/ di chi ha conosciuto l’amore/ e cantando e ballando/ e sfidando il futuro/ che un giorno vedremo arrivare”), tango sghembo introdotto da un bel connubio fra clarinetto e piano, su cui si muove, sinuoso, un basso avvolgente, con il solo di violino, unito ai colori mediterranei della chitarra elettrica, a colorare ulteriormente il pezzo. Su “L’esorcista”, pezzo intriso di esistenzialismo, spiccano i toni noir d’apertura, scandite dal timbro vocale all’ottava bassa di Bonaveri, che si trasformano, col crescendo del pezzo, in un jazzato dalle venature blues, sorretto da chitarra elettrica e piano, con le zampate di un sax graffiante che lacera il pezzo. Ottava traccia è “Il sole”, il cui nucleo narrativo racconta di un viscerale amore per la Natura e per il suo operato, in un pezzo dal respiro larghissimo, quasi pacificante, scandito dai contrappunti di un violino sul tappeto di pianoforte, con un solo di fiati che allarga ulteriormente l’atmosfera del brano. Una chitarra elettrica in palm- muting, seguita da una linea di basso profonda ed asfissiante scandisce l’inizio di “Anthropocene”, nona traccia del disco, che nel crescendo si trasforma in una cavalcata rock dilaniata dalla sezione di fiati e dalla splendida alternanza fra chitarra elettrica ed archi sui soli. Pezzo che è in netta antitesi con il precedente, che mi piacerebbe definire distopico ma che, in realtà, è tristemente lucido ed attuale, una narrazione spietata di un nuovo antropocentrismo, ma dalla parte sbagliata, quella del “Tenteremo la sorte/ con fantastiche tecnologie/ tra matracci e beute/ ispirati da antiche alchimie” o, come avrebbe detto qualcun altro, delle “magnifiche sorti e progressive”. “Stella” (“E se avessi un solo istante/ per tentare la fortuna/ punterei sull’esaltante/ rosseggiare della luna/ con le Pleiadi danzanti/ in attesa del mattino/ e Lucifero che spunta/ perché il giorno è più vicino”) è invece il miracolo dell’Universo e dei suoi prodigi, che avvengono nonstante noi. Un pezzo trainato dal pianoforte, con un leggero sottofondo di fraseggi di chitarra. I contrappunti di un tappeto d’archi ed il solo della sezione fiati colorano ed allargano una canzone libera e piena di vento. Il ticchettio di una sveglia, richiamo all’incedere del tempo, riempito da una elegante intro di archi, apre “Isole”, pezzo che anche in questo caso fa della molteplicità dei piani di lettura la sua peculiarità letteraria, scandito da un pianoforte a sostenere tutto, con in sottofondo un delicato arpeggio di chitarra che dinamizza l’andamento. L’entrata della batteria segna il crescendo del brano, aprendolo ad uno slancio quasi liberatorio. Penultima traccia del disco è “Il giardino dei melograni” (“La terra ti sorreggerà/ nel peregrinare/ l’acqua sgorgherà/ e tu potrai bere/ Aria ti donerà/ profumi d’amore/ il fuoco infonderà/ coraggio al tuo cuore”), brano aperto dagli archi e da un piano arpeggiato, che trova nei suoi frequenti crescendo, fra schitarrate elettriche e contrappunti di violino, una dimensione ampia ed un afflato rock, che rendono l’atmosfera del pezzo libera ed ariosa. A chiudere il lavoro è la title track, pezzo dai sapori swing, con un piano in levare, modulazioni ed una linea di basso piena di groove, in perfetta assonanza con i fill di batteria. La chitarra elettrica, equamente divisa fra fraseggi e strumming, contribuisce ad aprire il pezzo, mentre il solo di sax lo innalza verso vette altissime, in un testo che racconta dell’imprevedibile bellezza dell’arte dell’incontro. Un disco puro, di vero artigianato musicale e con un intero universo da raccontare, questo di Germano Bonaveri, che riesce a racchiudere, come si diceva all’inizio, interi mondi nella potenza della parola, che qui viene utilizzata con enorme maestria, smussandola e calibrandola al millimetro, alternando alla perfezione un registro alto ad un registro più comune, in un incontro riuscitissimo fra letteratura e canzone d’autore. 


Giuseppe Provenzano

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