The Gloaming, Teatro Ristori, Verona, 2 marzo 2019

C’è una bella intervista (“Hayes Cahill on KUNM”) pubblicata da Youtube nel 2015 con Martin Hayes (violino) e Dennis Cahill (chitarra) in cui, ad un terzo della registrazione, Hayes racconta che a suo modo di sentire «se si va davvero alle radici e ai sentimenti viscerali della musica irlandese ritroviamo qualcosa che, musicalmente, è davvero universale, forse un po’ diverso da ciò che ci si aspetterebbe […] e queste forme musicali dovrebbero riuscire a comunicare con tutti, tanto con chi ha familiarità, come con chi non ne ha con questo tipo di musica: è un linguaggio che può funzionare bene e quindi facciamo del nostro meglio per riuscire ad interpretare il linguaggio musicale delle emozioni e la nostra esperienza è che riusciamo a stabilire questa connessione con il pubblico». Con questo spirito e dall’incontro con Iarla Ó Lionáird (voce), Caoimhín Ó Raghallaigh (“viola” hardanger d’amore) e Thomas “Doveman” Bartlett (pianoforte) è nato il quintetto stellare The Gloaming che suona insieme dal 2011. Dopo due dischi in studio ed uno dal vivo (di cui questa rivista ha puntualmente dato conto), hanno dedicato il 2018 ad un terzo disco in studio per la Real World, registrato in autunno nei Reservoir Studios di New York e pubblicato il 22 febbraio scorso dopo averlo annunciato facendo circolare i brani “Áthas (Joy)” e “Sheenan’s Jigs”. Ora si tratta di farlo ascoltare dal vivo. I biglietti per i sette concerti previsti alla National Concert Hall di Dublino fra il 4 e l’11 marzo sono andati subito esauriti portando a trentuno il numero di concerti consecutivi andati esauriti, un record nei quarant’anni di storia della NCH. Proprio fra le due tappe del loro tour internazionale di Londra e Dublino, The Gloaming hanno trovato il tempo per un concerto nell’ottima acustica del Teatro Ristori di Verona, con il design del suono curato da Matt Purcell. Ricalcando l’ultimo disco, “Meáchan Rudaí (The Weight of Things)” è stato il brano di apertura e, come nella registrazione in studio, è il solo pianoforte a farsi avanti, con una nota ribattuta. Al piano si unisce la voce di Iarla Ó Lionáird che intona in modo impeccabile il testo di Liam Ó Muirthile, in cui un figlio ricorda la madre: «Il peso di noi due insieme. Il peso del tuo cappello che fa ombra al tuo sorriso […] Il peso della musica della tua voce di campagna nella città»
Ma, a differenza del disco, dal vivo l’arrangiamento viene decostruito e prima che il piano sviluppi la sua parte armonica intervengono prima, delicatamente, la chitarra di Dennis Cahill in funzione ritmica e quindi, quasi un controcanto, l’hardanger di Caoimhín Ó Raghallaigh. Quando è il turno di Martin Hayes di raggiungere i compagni è già ora di scivolare verso un ritmo più danzante e Hayes se ne incarica volentieri, come farà anche in seguito , per arrivare poi, senza soluzione di continuità a “The Lobster”, dove è di nuovo Caoimhín Ó Raghallaigh a tenere in tensione la danza e gli arrangiamenti essenziali e malinconici che attraversano l’ultimo disco e il concerto. Dietro di loro solo uno sfondo blu che poco a poco virerà rosso e ocra, incorniciandoli, sempre composti, in un quadro scuro. L’unico a distinguersi è Thomas Bartlett, ingobbito sul piano a coda: più che percorrere la tastiera sembra farci le flessioni o accompagnare colpi di ping pong ad effetto; ma il suo ampio gesticolare rimane al servizio di un perfetto controllo dei pochi e misurati suoni che porge agli altri musicisti, facendo sempre attenzione a lasciare molto spazio ai colleghi. Dopo la prima suite di brani, è la volta di “My Lady who has Found the Tomb Unattended”, poema del 1609, introdotto da Iarla Ó Lionáird che racconta delle difficoltà, ma anche del fascino dell’arrangiare in musica strofe antiche: «Non ne conosciamo la musica, ma sappiamo come ‘suonano’ nel registro linguistico». Il risultato è ipnotico, con un arrangiamento che lascia in primo piano la voce, quasi recitata, ancorata ad un tempo medio-lento. È un po’ la cifra del concerto: l’esplorazione melodica di registri malinconici e tempi lenti alternata a danze più vivaci, introdotte in modo evocativo da Hayes o Ó Raghallaigh, che sanno essere magistralmente complementari: “Doctor O'Neill” ne è il prototipo. Il brano più luminoso è “Áthas (Joy)”, testo che Liam Ó Muirthile aveva spedito alla madre di Iarla Ó Lionáird poche settimane prima di morire, a maggio 2018. Anche qui si fa i conti con dolore e morte, ma cercando di celebrare la vita: «E anche il dolore / Mostro senza vergogna / Se è questo che sento». Iarla Ó Lionáird lascia che sia Caoimhín Ó Raghallaigh ad introdurre la canzone al pubblico e a svelarne un risvolto familiare: «La gioia è nel cammino, come nel Cammino di Santiago che ho già percorso e intendo percorrere nuovamente dopo questo tour insieme a mia madre, oggi settantenne. Per me camminare è trovare nei passi un metronomo che mi ispira nuove melodie; in Liam Ó Muirthile trovo la stessa attenzione per l’alternarsi dei piedi nel cammino, solo che lui traduce il loro ritmo in parole». Il finale è affidato a “Reo” arrangiamento di Iarla Ó Lionáird di versi di Seán Ó Ríordáin e un magistrale Caoimhín Ó Raghallaigh a rivelare le doti espressive del suo strumento, volentieri vicino e in dialogo con la voce di Ó Lionáird. E qui finisce, dopo tre quarti d’ora di musica, un concerto impeccabile, apprezzato dal pubblico che resta, però, perplesso dalla brevità del tutto. Applausi e bis con Hayes e Ó Raghallaigh che conducono le danze per altre cinque minuti. Sipario. Rimane da dire dello splendido set di apertura che alle 19.45 ha visto gli Alban Fùam impegnati in alcuni brani tradizionali irlandesi e nella nuova composizione “Il vento del nord”, con la voce di Alessandro Antonello ed il violino di Cecilia Zanchetta in evidenza. 


Alessio Surian

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