C'è una parte della storia dell'Europa dentro i brani di questo splendido “Chaplin's Secret”, immaginato e suonato come un compendio delle parole e delle musiche “marginali”, in alcuni casi prodotte da minoranze e lanciate dentro l'immaginario collettivo internazionale con grande fortuna. Non per niente il brano che apre l'album, intitolato “Django's Tiger”, è un pezzo del grande Reinhardt, di cui l'autrice, Dotschy Reinhardt, sembra essere una discendente. Dotschy è di origini sinti, ha un talento naturale per il canto e la musica, che coltiva da quando ha appena quattro anni, e si batte da sempre per arginare la discriminazione nei confronti dei sinti e dei rom. In questo delizioso lavoro, in cui oltre a molti brani scritti da lei, compaiono riferimenti anche al songbook americano, oltre che al gypsy swing, elabora una traiettoria narrativa piacevole, comprensibile e mai retorica. Innanzitutto perchè, come accennato, i suoi riferimenti sono chiari e ben ancorati nelle musiche popolari più conosciute. Poi perchè l'album nasce da uno spunto interessante, che richiama, come ci suggerisce il titolo, una delle figure più importanti del Novecento, ovvero Charlie Chaplin. Come si legge nelle note introduttive dell'album, Chaplin è un punto di partenza, nella misura in cui crea indirettamente la scintilla che genera le quindici tracce della scaletta. Ma è anche un punto di riferimento. Per la sua grandezza visionaria, il suo sguardo lucido e avenieristico. E perchè la sua storia - come emerge da una lettera che la figlia Victoria trova tra le sue carte nel 1991, che ha generato notevole interesse nel mondo della critica cinematografica e non solo – sembra legarsi indisolubilmente a quella della comunità gypsy. Alla quale Chaplin sembrerebbe appartenere per nascita. Un certo Jack Hill – l'autore della missiva – sostiene infatti che Chaplin sia nato non a Londra, ma a Smethwichk, e in particolare a Black Patch, un'area abitata da etnie rom e sinti, e gente di spettacolo accampata con le sue carovane. Insomma la storia è lunga e non posso addentrarmi oltre, ma credo che quanto detto fin qui chiarisca l'idea dell'autrice dell'album: Chaplin visto sotto questa prospettiva genera la confluenza degli elementi più cari alla Reinhardt, come il multiculturalismo, la visione di un mondo equo e soprattutto permeabile alle diversità, la ricerca di un linguaggio comprensibile a tutti, l'articolazione di un messaggio di inclusione, in cui le diversità sono la vera forza. Bene, al di là della retorica, “Chaplin's Secret” evoca proprio questo insieme di immagini, mettendo in un unico racconto una scrittura diretta, un suono pieno e preciso, un novero di rimandi poetici alla narrativa novecentesca e, non da ultimo, una produzione delicata ma articolata. Gli stessi musicisti rientrano in questo quadro multiforme. Ne diventano, anzi, gli elementi più rappresentativi, perchè riflettono il multiculturalismo su cui si impernia l'album e da cui prende forma la sua narrativa musicale (il suo nervo più resistente, direi). Suonano strumenti acustici (chitarra, piano, batteria, violino, contrabbasso) e mettono insieme (data la loro stessa provenienza) influenze italiane, ucraine, svedesi, siberiane, australiane e israeliane. Per questo l'album è perfetto dall'inizio alla fine e dalla fine all'inizio. Cioè si fa comprendere sia nelle esecuzioni (indipendentemente che si tratti di “Swing Little Girl” dello stesso Chaplin, di “Da Vinci's Eyes” di John Pizzarelli o di “Here Goes” di Otto Cesana cantata da Sinatra), sia nei procedimenti, imponendo una circolarità di riferimenti che reputo straordinaria. Il vecchio manuche Reinhardt viene richiamato anche in “Where's Django”, uno dei brani più belli dell'album. La dimensione che il brano descrive è a dir poco sognante: le parole sembrano appena pronunciate, così come le poche note, suonate con piano e violino, sono appena udibili. In quest spazio rarefatto e fascinoso, Django assume un profilo inafferabile, divenendo una pura idea musicale, prima ancora che una stella da ammirare.
Daniele Cestellini
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