Bâton Bleu – Weired and wonderful tales (Dixiefrog Records, 2018)

L’album “Weired and wonderful tales”, uscito alla fine dell’anno scorso per Dixiefrog Records (che ha in catalogo, tra gli altri, alcuni interessanti rappresentanti del folk americano, come Carolina Chocolate Drops e Leyla MacCalla), ha avuto un’ottima risonanza attraverso i media internazionali. Gli autori sono due polistrumentisti francesi, Maria Laurent e Gautier Degandt, ovvero Bâton Bleu. Entrambi gli artisti cantano, sebbene con inclinazioni differenti: lei con voce suadente, molto lavorata in armonie variamente orientaleggianti, sensuali e languide, lui con voce waitsiana (a volte un po’ forzatamente) rancida e gutturale. Non ci sono vie di mezzo tra i due. Per questo l’impianto vocale, oltre ad essere preminente, risulta piacevolmente divergente, sempre teso, irregolare, asimmetrico, sia sul piano ritmico che armonico. Entrambi suonano, in modo più o meno intercambiabile, tutti gli strumenti che compaiono nei brani: banjo, kalimba, glokenspiel (xilofono portatile), percussioni, bass harmonica. Una strumentazione “secca”, vale a dire con poche risonanze, che diviene fin dal primo ascolto il riferimento più importante della produzione del duo. Il quale, mantenendo l’impianto generale e anzi rafforzandone la struttura, aggiunge in alcuni brani un paio di strumenti più esotici: il morin khuur e il tovshuur, entrambi cordofoni della tradizione mongola. Il primo suonato con arco e il secondo pizzicato. Insomma, sul piano musicale non ci sono dubbi: non solo ci si muove in un solco tracciato e ben definito, soprattutto da alcuni sperimentatori americani, fra i quali spicca il Tom Waits rumorista e destrutturato dei capolavori dei primi anni Ottanta, ma lo si ripercorre togliendo le schegge più visionare. Togliendo cioè i riferimenti fascinosi che, nel caso della scrittura di Waits, e di alcuni esponenti di quel cantautorato americano, traevano spunto non solo dal blues ma anche dal jazz. Riferimenti che venivano riutilizzati attraverso un procedimento di deformazione, che risultava tanto più riconoscibile quanto più il risultato che generava, la forma della nuova narrazione, si distaccava dalla matrice. In “Weired and wonderful tales” si procede più per esclusione, e si tende a comprimere (per poi estromettere del tutto) quei riferimenti. Propendendo quindi a rimarcare il “weired” piuttosto che il “wonderful” di queste “tales”. In questo modo ci si concentra su pochi fondamentali, che diventano dei fari imprescindibili per muoversi e orientarsi in uno spazio inevitabilmente livellato (“Sick ship”). Tra questi fondamentali riconosciamo con facilità soprattutto il suono “breve” delle corde, con melodie che appaiono quasi soltanto accennate (“Yourgo”), la cadenza ossessiva di ritmi ipnotici e allo stesso tempo destrutturati (“Harry Smith”), le linee melodiche brevi e reiterate (“Sarakiniko”), anche se elaborate sul piano armonico attraverso variazioni che si sommano gradualmente in uno schema abbastanza preciso. Il risultato è affascinante, non lo si può negare. Soprattutto perché – nonostante qualche disagio iniziale, dovuto appunto al fatto di essere costretti a contemplare un orizzonte liquido, rarefatto – è originale. E la sua originalità sta proprio in quella caparbietà nel togliere, nel comprimere, nel segmentare e ricomporre soltanto i pochi frammenti scampati allo scarto. Inoltre, sebbene (come detto) si riconoscano le fonti in modo inconfutabile, si percepisce un estremismo stimolante proprio nella narrativa lacerata del duo. Un estremismo che deriva dall’univocità della scrittura, che drena una tradizione espressiva ricca di spunti contenutistici e musicali, spremendone il succo dentro una manciata di idee buone ed eccentriche. Tra i brani più interessanti possiamo citare senza dubbio “Robert”, una ballata densa di suspense, in cui confluiscono in modo organico, integrato, gli elementi più cari al duo: il processo di elaborazione delle voci – che qui, alternando parti polivocali e monodiche, sembrano moltiplicarsi in una conversazione “da ballata” – e pochi strumenti (percussioni, banjo e flauto) che accennano una cornice musicale, a cui è affidato il solo compito di drammatizzare il messaggio: “Who’s shouting?/ The man who lost love”. 


Daniele Cestellini

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