Subsonic Trio – Sonic Migration (Bafe’s Factory, 2017)

Non poteva avere titolo più rappresentativo il primo album del Subsonic Trio, piccolo ensemble di musicisti molto attenti a incastrare suoni e atmosfere al di sopra di ogni confine formale. “Sonic Migration”, infatti, ci proietta uno scenario variegato oltre le strutture (che pure ci sono) cui fanno riferimento Adriano Adewale (dal Brasile), Kristiina Ilmonen (Finlandia) e Nathan Riki Thomson (Australia). Tutto si mischia e tutto si ricrea. E, in casi come questo in cui i musicisti puntano a indagare e includere nelle loro produzioni grandi aree sonore e timbriche, esce fuori qualcosa di evidentemente contemporaneo. Qualcosa che al contempo è volutamente (spesso marcatamente) etnico e sperimentale, che racchiude una delle possibili formule per andare oltre la world music, con efficacia strutturale e risultati estetici convincenti. È di tutta evidenza la padronanza che i tre hanno prima di tutto degli strumenti che suonano (e sono tanti): percussioni, flauti (Maori flute, Wagogo flute), fiati come il liru (strumento ad ancia originariamente diffuso in Carelia, un’area a est della Finlandia oggi appartenente alla Russia), malimba, contrabbasso e voci. Così come è evidente la loro conoscenza di un ampio spettro musicale, in riferimento al quale si rigenera un profilo sonoro sempre in divenire, del quale si riescono a riconoscere alcune sfumature, legate soprattutto alle sonorità degli strumenti più caratterizzanti sul piano timbrico, ma che ogni volta spingono un po’ più in là anche i riferimenti più condivisi. Ogni brano può essere tirato in ballo a rappresentare questo rapporto tra gli orizzonti sonori popolari e la scrittura del trio. E questo è un ottimo punto di forza, perché ci suggerisce alcune informazioni sul livello raggiunto dai musicisti nella riflessione sui loro riferimenti e sulla loro creatività. D’altronde, se si escludono tre brani – che sono stati selezionati nel solco di una ricerca che è andata molto indietro nel tempo, come vedremo a breve – i restanti degli undici in scaletta sono originali. Vi è cioè una evidente predilezione nei confronti della scrittura, corroborata anche dal modo in cui i pezzi tradizionali sono stati trattati nell’album. Ad esempio “Impilahti Hop” (posto in apertura dell’album) è in parte tratto da “Laulu”, una melodia suonata con lo Jouhikko (la lira ad arco diffusa in Finlandia e altre aree a confine con la Russia) da Feodor Pratsu e registrata nel 1916 da A. O. Väisänen, etnomusicologo ed etnografo finlandese della prima ora. Qui il trio esegue una linea melodica molto sinuosa in contrappunto con l’andamento delle percussioni e del contrabbasso, definendo un quadro sonoro apparentemente straniante, sorretto anche da alcuni interventi vocali appena accennati, che si incastrano tra gli strumenti e amalgamano gli elementi più divergenti. L’ascolto del brano è molto piacevole, perché, soprattutto nella seconda parte, tutti gli strumenti assumono un ritmo più serrato, prima di asciugarsi e chiudersi in unisono. La sensazione generale richiama l’estemporaneità e, per essere più precisi, l’esecuzione improvvisata ma orientata dallo sviluppo di un tema dato. Con “Älä sinä flikka”, l’altro brano preso dalla tradizione (siamo nella Finlandia occidentale), il trio ritorna all’inizio del Novecento, e precisamente a una folk song della città di Kauhava, cantata da Jussi Erkkilä e raccolta dal compositore finlandese Toivo Kuula nel 1907. L’orizzonte di questo brano è più lucente, grazie anche alla presenza della kalimba, che fin dall’incipit si inserisce dentro il pattern delle percussioni. Anche qui la linea melodica è affidata al flauto, ma in generale l’andamento è più lineare e meno teso (sebbene si possano ravvisare interventi vocali simili a quelli descritti poco fa). I riverberi della kalimba determinano un’atmosfera distesa e sognante, che richiama alcuni elementi che in altri brani emergono con più evidenza e che, nel loro insieme, contribuiscono a rarefare l’intero album dentro una scena armonica distesa e “naturalistica”, vagamente mistica pur dentro la concretezza delle strutture ritmiche e dell’organizzazione degli arrangiamenti. 


Daniele Cestellini

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