Caracas – Ghost Tracks (Materiali Sonori, 2017)

“Una nazionale così scarsa non l’ho mai vista, eppure seguo il calcio da quando avevo due anni. Non è possibile. Riflettevo sul declino di questo paese che aveva alcuni punti fermi e uno di questi era certamente la nazionale di calcio e adesso ahimè non ha neppure quello. Siamo veramente ridotti male”. Così Stefano Saletti commenta con Valerio Corzani la mancata qualificazione della nazionale di calcio italiana. Li incontriamo a Roma, nel quartiere Prati, per un caffè da Fabbrica, locale da lungo tempo eletto a nostra base operativa e luogo perfetto per farci raccontare “Ghost Tracks”, secondo album del progetto Caracas. Lo scoramento per gli insuccessi calcistici di Buffon e compagni, lascia ben presto posto ai solari ritmi in levare declinati in chiave world di questo nuovo lavoro, concepito con la complicità di diversi ospiti che con i loro testi e le loro voci hanno impreziosito le tracce strumentali in origine realizzate per l’album di debutto. Prima, però, non ci lasciamo sfuggire l’occasione per ripercorrere la genesi dell’incontro in musica tra le corde di Stefano Saletti, polistrumentista dal lungo percorso artistico e ben noto per la sua produzione con Novalia e Piccola Banda Ikona, e il basso di Valerio Corzani, voce di RadioRai e già protagonista di belle avventure sonore con Mau Mau, Mazapegul, Ex e Interiors.

Partiamo dall’inizio. Com’è nato il progetto Caracas?
Stefano Saletti - Quando abbiamo cominciato a parlare di questo progetto, ci siamo detti semplicemente: suoniamo e vediamo cosa viene fuori. Gli unici punti di riferimento sono stati la leggerezza e il ritmo in levare che è la peculiarità principale della musica reggae. Da questa sospensione è venuto tutto il resto. Avevamo un appuntamento fisso ogni lunedì ed ogni volta portavamo idee nuove, il tutto però senza pianificare mai nulla. Il sound dei Caracas è nato lavorando insieme prima sui campioni, poi aggiungendovi i vari strumenti come l'oud e il bouzuki, il cavaquinho e le chitarre che hanno incontrato il basso potente di Valerio.
Valerio Corzani - Volevamo che il suono fosse quello gommoso, tipico del dub e per questo ho utilizzato, per lo più, il basso elettrico e in qualche caso quello acustico Il sound si è sviluppato mettendo insieme una buona dose di elettronica, con un lavoro preliminare di taglia e cuci sui loop, le basi e gli altri effetti come le app dell’iPhone e successivamente abbiamo fatto tesoro di tutte le possibilità strumentali che ha Stefano con i suoi cordofoni e non solo, perché suoniamo anche la melodica. A completare il tutto c’è Erica Scherl che suona il violino e le tastiere. Questo filo rosso del levare però non ci ha precluso di andare a finire in India o in Sudamerica. E’ per questo che non possiamo definirci un gruppo reggae mainstream. Del resto il nostro background è molto world. 
Saletti - Di gruppi reggae ce ne sono stanti in giro, invece sono pochi quelli che hanno fatto un lavoro simile al nostro. Ci piaceva trovare strade nuove partendo dall’interazione tra musica elettronica con l’uso dei loop per creare il groove, i ritmi del reggae e gli strumenti world.

Inizialmente l’idea era quella di dare vita ad un duo.
Saletti - Proprio così. L’idea era quella di proporre il duo anche dal vivo, ma nel primo disco aveva suonato anche Erica e il suo violino era naturalmente entrato nel nostro sound. Successivamente abbiamo deciso di inserire nell’organico anche mio figlio Eugenio che ha una bella voce e suona la chitarra per suonare le parti che io avevo sovrainciso. Pur essendo in larga parte strumentale, il nostro album di debutto presentava anche delle parti vocali e, così pian piano abbiamo cominciato ad inserire anche le voci, perché ci piaceva anche questa cosa. Da ultimo è arrivata anche la batteria di Filippo Schirinnà che ci accompagna, ma non sempre, perché dipende dal luogo in cui andiamo a suonare. Se abbiamo un palco grande per ospitarla, ma se siamo in un piccolo club dove fanno musica elettronica non è semplice.
Corzani - In studio, tuttavia, siamo sempre io e lui che stropicciamo le cose. Questo è avvenuto anche per il nuovo album “Ghost Tracks” che è stato una avvenuta bella strana e più ci penso e più lo considero in questo modo.

Dal primo disco a “Ghost Track”, come si è evoluto il vostro approccio sonoro?
Corzani - Quello che abbiamo impostato all'inizio è ovviamente rimasto, ma era il risultato di un vaglio esagerato. Quando abbiamo scelto i loop di batteria lo abbiamo fatto sulla base di una libreria possibile esagerata che includeva latitudini e continenti differenti, perché si può creare un ritmo funk anche con i suoni degli Aborigeni australiani. Da questo punto di vista c'è stato un imbuto e in qualche modo abbiamo trovato una cifra che ci sembrava unificante tra i vari brani, anche se si aprivano squarci in modi diversi. Il ritmo in levare ha un andamento ballonzolante che in qualche modo ti costringe ad una grammatica musicale precisa. Un esempio su tutti è proprio il basso che si deve muovere in maniera disciplinata, perché il reggae non è un genere in cui si può svisare. 
Saletti - Il basso deve dare quell’appoggio alla batteria affinché vada tutto sul boom dell’uno a cui segue il levare.
Corzani - Quello che ci siamo tenuti sempre per il live è non fermare troppo le strutture, infatti dal vivo i brani sono sempre un po' laschi e ogni sera non ci siamo limiti. Non c'è un brano che dura sempre gli stessi minuti a volte dura di più a volte di meno. 

Nel vostro approccio c’è anche una apertura all’improvvisazione…
Saletti - Direi che è continua. Per riprodurre tutta questa musica elettronica che abbiamo montato sul beat usiamo un campionatore o gli iPad in modo da far partire la base e continuare noi a suonarci sopra. Ci sono concerti insopportabili con tutto strutturato in cui basta premere un pulsante e il gruppo si aggancia all’elettronica e tutto va in sync persino con le luci. Non c'è una nota che si possa cambiare e pensa che non possono fare assoli perché gli salta la base. Tutto ha un filo che ti trascina. Noi l'elettronica la utilizziamo anche dal vivo ma in maniera del tutto creativa, quanto dura l'uso dei campioni lo decidiamo noi e giochiamo con la macchina in tempo reale. Se Erica fa un assolo ed è bello andiamo avanti, così come se lo faccio io o se c'è una sospensione di basso. 
Corzani - Anche la batteria elettronica è suonata come una batteria normale perché di ogni groove ci sono quattro o cinque suoni diversi azionati di volta in volta, sorvrapposti.

Quanto è stato importante suonare dal vivo nello sviluppo del suono?
Saletti - Nel passaggio dal primo al secondo disco, proprio dal vivo ha preso forma il sound del gruppo. Agli inizi eravamo un duo, ma ora abbiamo un sound più articolato da band vera e propria, anche se la concezione, l’idea e la gestione del tutto è la nostra.  Quando siamo stati a Pertosa al Negro Festival abbiamo suonato prima di Levante e davanti a noi c’era molta gente che era lì per lei. 
Non era facile perché dovevamo fare quasi un’ora ma abbiamo tenuto botta e abbiamo avuto un bell’impatto. Eravamo con la formazione al completo con la batteria e gli ospiti Badara Seck, Luca Morino e Canio Loguercio. E’ stata l’occasione che ci ha lasciato intravedere le potenzialità live del progetto in una chiave più ampia. 

“Ghost Tracks” ha avuto una gestazione particolare…
Corzani -  Abbiamo fatto il contrario di quello che facevano in Giamaica dove asciugavano i brani facendoli diventare strumentali e li mixavano in chiave dub. Il nostro primo disco era già sostanzialmente dub e i brani li abbiamo trasformati in canzoni. Abbiamo, però, deciso di non farlo da soli, cosa che avrebbe facilito la cosa, ma al contrario abbiamo affidato il tutto ad una serie di ospiti. C'è stato un periodo intermedio in cui i brani li avevamo letteralmente affittati a queste voci e non sapevamo cosa ci avrebbero rimandato indietro. Ed è stato così per tutti e dieci i brani.

Avete scelto come titolo "Ghost Tracks" perché pensavate fossero tutte potenziali tracce fantasma?
Corzani - E' come se fossero lì nel primo disco e non le avessimo esplicitate. In realtà il percorso è stato lungo ed articolato e non ce le siamo certo ritrovate lì. La prima idea era addirittura di fare qualcosa come Caracas Goes To Rap o viceversa, cioè di affidare i brani solo a dei rapper, metterci su delle strofe flow. Poi quelli a cui abbiamo mandato le tracce che erano anche rapper come Fido Guido e Daniele Sanzone ce le hanno mandate con delle melodie oltre al rappato e così il progetto si è modificato. 
Quando le tracce ci sono tornate indietro con un apparato melodico così ben definito ci siamo limitati a riarrangiarle non a risuonarle.

In questo senso il disco ha una sua particolare unitarietà a livello stilistico...
Saletti - Ogni ospite ci ha inviato la parte vocale separata dalla traccia strumentale sulla quale siamo intervenuti nuovamente per amalgamarla con il resto. Abbiamo aggiunto qualche ritmica, qualche tamburo come nel caso di “Habibi” di Barara Seck. Luca Morino ha aggiunto una tastiera alla fine di “Chila”. 
Corzani - C’è stato un trattamento sui brani di vera e propria asciugatura. Abbiamo lavorato in sottrazione come in “Dub Sunset” di Mistilla che cantava sulla melodica, sicché l’abbiamo eliminata nei punti in cui si sovrapponeva e lasciata nelle frasi strumentali. Insomma abbiamo alleggerito i brani in alcuni punti in modo che la voce avesse un ruolo centrale, le abbiamo creato spazio. Quello che a volte è successo è che i bridge sono diventati ritornelli con le varie voci che hanno preso come ipotesi di ritornello quelli che noi erano semplici passaggi. L’unico brano che abbiamo inciso ex novo è “E la luna bussò”.

Come mai avete scelto di rileggere “E la luna bussò”?
Saletti - Cercavamo un brano da suonare dal vivo perché agli inizi avevamo tutti brani strumentali e suonicchiando con il cavaquinho è venuto fuori quel riff e poi il tema di voce. E’ uno dei brani che amo di più del disco. Può essere una direzione che prenderà Caracas in futuro perché ci sono tutti gli elementi dentro, paradossalmente anche il pop. E' una canzone molto mainstream che funziona molto.
Corzani - E' venuta fuori una versione caraibica quasi capoverdiana. Quel brano è bellissimo anche nella versione della Bertè, ed è stato uno dei primi reggae italiani insieme a “Voglio Andare al Mare” di Vasco. 
Saletti - Addirittura c'era la favola metropolitana che voleva che il brano fosse stato scritto da Bob Marley. Ricordo che ero a Rieti ed era la fine degli anni settanta e io suonavo la batteria e c'era questa voce che girava tra i gruppi.

“Ghost Tracks” è un disco con la direzione a sud…
Corzani - E’ tutto molto orientato verso sud. Ci sono due brani in napoletano “Senza Rumore” di Daniele Sanzone e “Fiele” di Canio Loguercio, “1861” di Fido Guido che è in dialetto tarantino e poi c’è tanta Africa ma anche “Chila” con testo in dialetto piemontese di Luca Morino, 
Saletti - C'è “Senza Ventu” in dialetto reatino con una citazione di “Animalanima” dal primo disco dei Novalia che è cantata da Eugenio. Dal vivo avevamo cominciato a mischiare "Take the money and run" con questo brano visto che la tonalità era la stessa. 
Corzani - “Dub Sunset” invece è cantata in inglese ma declinato secondo il patois giamaicano da Mistilla dei Earth Beat Moviment EBM. Dal punto di vista degli idiomi è c’è una bella varietà. C'è l’indi di Tritha Sinha che chiude il disco.

Tante lingue, tanti suoni diversi...
Saletti - Nel primo disco si sentiva già questo approccio cosmopolita a livello sonoro perché spaziavamo dalla Giamaica al Nord Africa alle influenze più varie che mettiamo nella nostra musica utilizzando strumenti come il cavaquinho con tutta la tradizione da Capo Verde al Brasile. Nell’incontro con le voci questo percorso si è amplificato perché poi ci siamo accorti di come una voce e un testo condizionino la composizione. Un brano ha la sua struttura codificata e chiara in versione strumentale, poi improvvisamente ci metti la voce e cambia tutto. Il che ti porta a dire che questo disco è qualcosa di completamente differente dal primo. Nella stragrande maggioranza dei casi i brani hanno assunto una connotazione completamente differente, quasi non si riconoscono. Pensa a “Fiele” cantata da Canio Loguercio che nel primo disco era un brano spigoloso mentre in “Ghost Tracks” ha un tratto ironico e leggero…

Insomma le voci sono state un po’ la rivoluzione copernicana di questo disco?
Corzani - La forza della voce è importante ed effettivamente alcuni pezzi sono decollati. A me piacciono anche quelli del primo. Addirittura noi avevamo deciso che questo fosse una Versione B del primo disco, ma poi ci siamo resi conto che aggiungendo una voce e un idioma la ricrea completamente. Abbiamo avuto la fortuna che quelli a cui avevamo affidato i brani li hanno poi effettivamente abitati quei pezzi in maniera naturale.
Saletti - Nel primo l'idea era quella di utilizzare le voci in modo strumentale come un tappeto sonoro, e nel secondo abbiamo lasciato tutto questo così come le spooken word di Valerio. Quando ci abbiamo messo le voci principali queste ultime sono diventate parte di un arrangiamento. 

L'inserimento della voce ha aperto un orizzonte nuovo ai Caracas, proseguirete in questo senso?
Corzani - E' anche difficile continuare il progetto in questi termini, nel senso che non possiamo replicare questo disco coinvolgendo dieci ospiti vocali. Dovremmo farne uno con la nostra voce e a quel punto bisognerebbe decidere se cantare in inglese o in italiano, probabilmente. Forse potrebbe anche essere pericoloso. Può essere che il prossimo disco sia qualcosa di ancora più diverso. C'è in ballo una collaborazione che non possiamo ancora dire, ma quello taglierebbe la testa al toro.

Concludendo. Caracas è diventato anche un incubatore per un talento come Eugenio?
Saletti - Lui è bravo e lo dico non perché è mio figlio. Sta su un palco da quando aveva sedici anni e ora ne ha diciannove. Si è anche strutturato, per quanto abbia ancora quell'esuberanza tipica dei ragazzi. Dal vivo poi regge le parti vocali di gran parte dei brani che su disco sono cantati da altre voci. Canta “Chila” Luca Morino, “Senza Rumore” di Daniele Sanzone, e “Raiss” di Momo Said che viene molto bene perché la mescoliamo con “Must Must” di Nusrat Fateh Ali Khan che facevamo già con i Novalia citandola all'interno di altre cose.


Caracas – Ghost Tracks  (Materiali Sonori, 2017)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

A due anni di distanza dall’album debutto e dopo aver rodato dal vivo con non poco successo il progetto Caracas, nelle sue diverse formazioni a geometrie variabili, Stefano Saletti e Valerio Corzani tornano con “Ghost Tracks”, secondo disco in studio che li vede rivisitare i brani del precedente con la complicità di alcuni ospiti d’eccezione che hanno aggiunto testi, storie e voci alle tracce in origine proposte in versione strumentale. Partiti inizialmente dall’idea di affidare il tutto al flow di rapper italiani, l’album si è man mano indirizzato verso un côté stilistico che amplia ancor di più il raggio delle loro mirabolanti ed originali esplorazioni sonore. I ritmi in levare del reggae, declinanati attraverso i suoni dell’elettronica e della world music si accompagnano adesso a dialetti ed idiomi differenti dando vita a sorprendenti incroci ed attraversamenti culturali. Così, quello che doveva essere semplicemente una curiosa versione b della loro opera prima è diventato un disco del tutto nuovo, con una propria struttura e un mood differente ma non meno fascinoso. Tappa di partenza obbligata è la Giamaica con il testo in patois di “Dub Sunset” in cui spiccano l’approccio non convenzionale ai ritmi in levare del reggae e la voce della fiorentina Mistilla, componente dell’Earth Beat Movement. Se i suoni desertici dei Tuareg evocati in “Rais” con la voce di Momo Said ci conducono in Nord Africa mescolando inglese ed arabo, la successiva “E La Luna Bussò”, dal repertorio di Loredana Bertè, è una sorpresa inattesa e brillante allo stesso tempo con protagonista il giovane figlio d’arte Eugenio Saletti. Si approda poi al Newpolitan Sound con “Senza Rumore” il cui testo è firmato e interpretato da Daniele Sanzone degli ‘A67, mentre la potente “Habibi”, cantata dal senegalese Badara Seck ci riporta in Africa; ma è solo un momento, perché subito dopo arriva la storia noir di “Chila”, tutta giocata sulla trama melodica latin della chitarra acustica su cui si inserisce il testo in piemontese scritto e cantato da Luca Morino dei Mau Mau. Percorrendo la penisola non poteva mancare una tappa nel reatino con il ragamuffin “Senza Ventu” in cui ritroviamo la voce di Eugenio Saletti, nonché il featuring di Nando Citarella al marranzano. Ecco arrivare, poi, i due vertici del disco ovvero “Ahmaric Fever” in cui brillano la voce di Saba Anglana e l’originale costruzione musicale con l’interplay tra le corde di Saletti e il violino di Erica Scherl, e la gustosa “Fiele” il testo e la voce dell’istrionico Canio Loguercio. Verso il finale non poteva mancare una tappa nel tacco d’Italia con Fido Guido che canta la controstoria dell’Unità d’Italia, prima di approdare in India con la voce Trinha Sinha che interpreta “Spicy Elephant”, il cui arrangiamento è tutto giocato tra le dissonanza in levare, attraversate dagli interventi di piano e tromba nella trama ritmica. Insomma “Ghost Tracks” è un disco musicalmente ricchissimo che non mancherà di travolgere l’ascoltatore con le sue suggestioni. 



Salvatore Esposito

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