Sharon Shannon – Sacred Earth (Celtic Collections, 2017)


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Sharon Shannon è da sempre l’organettista ‘cool’ e dalle larghe vedute: è stata tra i primi a mettere in repertorio, fin dal suo esordio discografico avvenuto nel 1991, brani di tradizione franco-canadese, cajun e musica contemporanea oltre ai tradizionali con cui è cresciuta nella contea di Clare, costa occidentale d’Irlanda, una delle regioni più musicali dell’isola, Quarantanove anni a novembre, Shannon è una leggenda. È sulla scena da oltre quarant’anni: a otto suonava musica da danza a Ruan, in prossimità di quella magnifica area naturalistica che è il Burren, a quattordici era già in tour negli States. Poi arrivarono collaborazioni ancora più ad ampio raggio folk e pop, fino ai recital ufficiali davanti ai capi di stato. Dall’incredibile incontro con i Waterboys, che la vollero sul palco di Glastonbury, a quello con l’artista e produttore reggae Denis Bovell per “Out the Gap”, dall’amore per il tango fino alle nuove direzioni in buone compagnie vocali di “Diamond Mountain Sessions” alle soglie del nuovo millennio, l’artista ha sempre avuto un approccio ‘free-wheeling’. È anche il segno di questa sua ultima produzione, la decima in studio, intitolata “Sacred Earth”, in cui Sharon abbraccia nuove sensazioni sonore. Il titolo del disco è riconducibile alla attrazione dell’organettista per i temi ecologisti e spirituali.
Ma è stato soprattutto un viaggio in USA, nel New Mexico, con un concerto nella riserva indiana di Acoma che ha portato anche al confronto con musicisti e attivisti locali, a gettare i semi di “Sacred Earth”. Sulla scorta di “Graceland” di Paul Simon, Sharon ha dichiarato di essersi posta l’obiettivo – non di poco conto, va da sé – di comporre un album irlandese con le medesime vibrazioni di quello che, nel bene e nel male (aggiungiamo noi), è considerato un capo d’opera della world music. Cosicché si è rivolta a Justin Adams, chitarrista di ambiente world già nella band di Robert Plant e produttore dei Tinariwen, tra i più ispirati artisti in termini di stili africani e mediorientali, che aveva già suonato con lei nell’album “Renegade”: «la persona ovvia a cui pensare per aiutarci ad ottenere quel suono [… ] è un musicista così generoso. Mi piace molto il suo approccio impavido nel cercare idee diverse», commenta Sharon. Il crossover di “Sacred Earth” non ha portato a consensi unanimi nella stampa specializzata: se “fRoots” ha messo Shannon in copertina e ha approfondito i motivi dell’album con una lunga intervista (un evento, considerata la ritrosia del personaggio, che preferisce suonare più che parlare), “Songlines”, altra testata britannica di riferimento per la world, ha dato giudizi per niente lusinghieri, così come con pareri contrastanti si è espressa la stampa nazionale irlandese, in merito a un disco suonato da circa venticinque musicisti che sembra mancare di continuità di spirito e tirarti di qui e di là con i suoi tanti rivoli stilistici, proprio per la versatilità e la concezione aperta della musicista irlandese. Il fatto è che il risultato talvolta funziona molto bene, qualche volta meno, forse per le troppe pietanze sonore.
È indubbio che la verve di Sharon, i suoi virtuosismi stilistici – l’accento irlandese non va perduto nella varietà di stili degli undici brani in scaletta – e il suo senso melodico sono il tratto dominante del lavoro, che non si disperde. Prendete l’attacco di “Rusheen Bay”, biglietto da visita dell’opera, che riporta alla mente proprio “Graceland”, prima di percorrere altre strade danzerecce, sospese tra Irlanda e Caraibi. Echi di Africa sahariana nell’avviluppante title track, dall’incedere ipnotico. Sorprende la successiva “The Machine”, dove troviamo la cantante californiana Alyra Rose (impegnata nella campagna di Standing Rock contro l’impianto dell’oleodotto nella terra dei Dakota) rappare su un tema impegnato poggiato su ritmi pop & reel. “Bas Pelles” ci riporta al piacere della melodia guidata dal mantice, ma con influenze classicheggianti, con il bel contributo del violoncello di Rushed Eggleston. Segue il delizioso strumentale “Pull Out All the Stops”, che solo avremmo voluto ancora più aggressivo. Si cambia registro con il ritmo di valzer con cui Finbar Furey interpreta la popolare (da Jim Reeves a Elvis) quanto spiazzante “He’ll Have to Go”. La presenza dei sei Shetland Fiddlers conferisce un tocco orchestrale a “Frenchie’s Reel”, firmata dal violinista canadese Mel Lavigne. Invece, “The Merry Widow”, tratta dall’operetta di Franz Lehar, arrangiata con organetto, chitarra e violoncello, assume ha un profilo musette. Tocca al rock-bluesaccio “Let’s go”, featuring la chitarra di Greg Guy, figlio di del chicagoano Buddy Guy, l’armonica di Majiec Zawarone e il duo australiano Hat Fitz and Cara. Ancora uno strumentale dall’umore africano: “Sea Shepherd”, in cui la la kora di Seckou Keita e le percussioni dialogano con chitarra e organetto. Infine, in pieno stile Shannon “The Bull Fiddle” porta a conclusione un lavoro dalle tante direzioni sonore, tenute insieme dal mantice fatato e dalla schiettezza della virtuosa di Clare. www.sharonshannon.com 


Ciro De Rosa

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