Gang – Calibro 77 (Rumble Beat Records, 2017)

Nell’arco di oltre trent’anni di onorata carriera, i Gang hanno attraversato generi musicali differenti spaziando dalla lezione dei Clash dei primi tre album in inglese al folk rock di gemme come “Le Radici e Le Ali”, “Storie d’Italia” e “Una volta per sempre” fino a giungere al progressivo avvicinamento ai territori della canzone d’autore che ha trovato il suo vertice nel pregevole “Sangue e Cenere” del 2015, album che per intensità e lirismo occupa di diritto un posto di rilievo tra le migliori opere ascoltate negli ultimi dieci anni. A distanza di due anni da quest’ultimo, la banda dei Fratelli Severini torna con “Calibro 77”, concept album a lungo meditato, nel quale hanno raccolto undici riletture di brani del repertorio della canzone d’autore italiana degli anni Settanta, per rendere omaggio al 1977, anno controverso ed allo stesso tempo cruciale per la storia della musica e più in generale del mondo occidentale. Finanziato attraverso un’altra fortunata campagna di crowdfunding e prodotto da Jono Manson, il disco dal punto di vista sonoro prosegue il percorso tracciato con il precedente, ma nel contempo ha il pregio di donare nuova vita a brani, anche minori, che però hanno segnato indelebilmente il songwriting in Italia. Ne abbiamo parlato ampiamente con Marino Severini che, a ruota libera, non ha mancato di regalarci la consueta dose di riflessioni a trecentosessanta gradi.

Il progetto “Calibro 77” ha radici lontane nel tempo, non solo per la sua lunga meditazione, ma anche per la sua finalizzazione, concretizzatasi solo di recente. Ci puoi raccontare le articolate vicende sulla genesi di questo disco?
“Calibro 77” è stato, per più di quindici anni, uno dei tanti progetti dell'Officina dei Gang. Ne abbiamo e ne abbiamo avuto molti altri. Solo alcuni poi, col tempo, le occasioni e le circostanze favorevoli, riusciamo a portarli a termine e a realizzarli. Durante la lavorazione di “Sangue e Cenere” si è creata un'ottima intesa con Jono Manson e così, ci siamo detti: “facciamolo ora con la stessa squadra di Jono: fra due dischi di inediti, facciamo uscire questo che in sostanza è un disco di cover”.  Quindi non appena si è creato “l'attimo” lo abbiamo afferrato. Se avessimo aspettato qualche mese in più ci saremmo messi al lavoro per un disco di inediti e anche stavolta “Calibro 77” sarebbe rimasto in Officina. Era Ora!

Come il disco precedente, anche questo nuovo album è nato attraverso una fortunata campagna di crowdfunding. Insomma, ormai è una formula collaudata anche per i Gang…
Si pronuncia crowdfunding ma di fatto è la cassa comune della Gang Vittoria Nation. Per noi è stata una sorta di benedizione! E per ben due volte il risultato ottenuto dal punto di vista delle risorse che ci sono state messe a disposizione è stato addirittura il doppio di qualsiasi altro crowdfunding fatto in Italia per la realizzazione di un progetto di musica “popolare”. L’unica eccezione mi sembra sia quella di un disco di rap italiano. Una grande vittoria, non dei Gang ma di una Comunità che sta diventando sempre più Nazione e che sbaraglia tutti i luoghi comuni, l'indifferenza e i piagnistei, a proposito della produzione della musica indipendente italiana. 
Questo non lo valuto positivamente solo per un fatto di risorse economiche che ci vengono messe a disposizione per realizzare un disco, ma per me significa che posso affrontare un nuovo lavoro con una dose enorme di stima e di fiducia che mi rende libero, sereno, fiducioso, tutto ciò che è indispensabile per fare Bene per il Bene! Al nostro crowdfunding ho cercato di dare una valenza, una caratteristica tutta politica. Del resto qual è l'essenza della politica? Creare comunità, dare ad essa slancio ed ispirazione affinché si possano realizzare insieme gli obiettivi prefissi: vincere in sostanza e da ultimo creare economie. Con l'uso di questo strumento siamo riusciti a realizzare tutti e tre questi punti che costituiscono l'essenza della politica. Questa grande vittoria non è dei Gang ma di una comunità reale che da tanto tempo si ritrova, si riconosce, si abbraccia e canta attorno al “fuoco” le canzoni dei Gang. Quando questa comunità va in rete attraverso questo strumento diventa visibile a coloro che in questi tempi guardano la realtà solo attraverso le lenti della rete, ma essa esiste a prescindere dal crowdfunding che è solo strumento di “servizio”. 

Prima parlavi di squadra, e mi è venuto in mente quello che diceva Vujuadin Boskov: squadra che vince non si cambia. Anche in questo senso la scelta di Jono Manson ancora come produttore è indicativa. Quanto è stato importante per i Gang questo incontro?
Jono Manson è “'amico americano”, è l'uomo chiave dei nostri due ultimi due capitoli. Senza di lui non sarebbe stato possibile realizzare né “Sangue e cenere” né “Calibro 77”. 
Jono ha rivestito molti ruoli per noi: è stato innanzitutto il produttore ed arrangiatore, ma anche una sorta di ambasciatore perché ha molte relazioni e gode di stima e fiducia da parte di molti musicisti con i quali a noi interessava molto lavorare per arrivare a quel sound, a quel mood che avevamo in mente per trasformare le canzoni in emozioni. Ebbene Jono come un vero ammiraglio ha diretto la navigazione sempre e comunque nel migliore dei modi e ha diretto tutto l'equipaggio con grande maestria.  Ma la cosa che per quel che mi riguarda conta di più è che lui mi ha fatto tornare una gran voglia di fare i dischi. Lui ha capito già in partenza che il nostro lavoro sarebbe stato guidato in tutte le sue fasi da una grande passione e dalla voglia di fare bene per il bene comune!

Ci puoi raccontare delle sessions di registrazione e presentare i musicisti che vi hanno affiancato?
In “Calibro 77” hanno suonato diversi musicisti che già avevano avuto modo di collaborare a “Sangue e Cenere”, e dei quali conoscevamo bene il tipo di contributo che avrebbero portato. Partiamo da Michael Judee e John Michel che avevo già incontrato nell’estate del 2015 quando erano in tour con i Brothers Keeper e in quell’occasione mi erano stati presentati da Jono.  Sono dei grandi groovers, molto affiatati fra loro e in grado di passare da un sound ad un altro con destrezza. Perfetti per questo tipo di lavoro. C’è, poi, Craig Dreyer che era già presente in “Sangue e Cenere” e su di lui contavo molto. 
Infatti anche qui si è superato. Ha arrangiato con Jono le parti di fiati e ha fatto degli interventi col sax micidiali, oltre a sfoderare anche il flauto. Ha il suono di New York come l'ho sempre immaginato, quello del CBGB, un mito. Insieme a lui, dalla E-Street Band arriva, Clark Gayton, uno dei musicisti con maggior numero di collaborazioni maestose tra quelli coinvolti nelle registrazioni. A completare la sezione di fiati c’è la tromba di Jeff Kievit. Non poteva mancare John Popper dei Blues Traveler, amico di vecchia data di Jono, che con la sua armonica impreziosisce “Sebastiano”.  Era in tour ma non ha detto di no e ci ha inviato un pezzo in cui se la vede con la chitarra di Rob Heaton jr e il tutto sembra un vero e proprio combattimento fra galli. Uno dei principi del disco è Jason Crosby che si destreggia tra piano, violino, organo Hammond, piano elettrico Wurlitzer. Lo considero uno dei migliori musicisti che oggi camminano sul pianeta Terra, ed averlo con noi anche in questo disco è stato un onore, oltre che un grandissimo piacere. Imprevista è stata la partecipazione di Wally Ingram, il quale si trovava a Santa Fè per altri progetti e mentre stavamo registrando, Jono gli ha proposto di entrare a far parte della Carovana e lui ha accettato per la gioia di noi tutti. Che dire poi del battaglione di chitarre composto da Scott Rednor, Rob Eaton Jr, Ben Wright e Jay Boy Adams. Hanno personalità e stili differenti ma era necessario alternarli al fianco di Sandro a seconda dei brani, anche perché questo è un disco dove c’è molto lavoro sulle sei corde. A cesellare il tutto ci sono le corde di John Egenes (mandolino, pedal steel, dobro), anche lui reclutato nella banda per la seconda volta, mentre  Jeremy Bleich ha suonato l’oud in “Sebastiano”. A completare il cast ci sono i fratelli Robby e Char Rothschild dei Roundmontain, Jerry Weimer al clarinetto che ha impresso a “Non è una malattia” un’atmosfera da parade di New Orleans e il “nostro” Stefano Barotti, cantautore italiano e già da tempo della famiglia. 

Come avete selezionato i brani da rileggere? 
Abbiamo scelto fra quelle canzoni che effettivamente cantavamo e suonavamo in quel periodo, quando sia io che Sandro avevamo vent’anni. Sono quelle che in un modo e nell'altro cantano di noi, di come eravamo, esprimono il nostro sentimento di quel tempo. Canzoni che cantavamo e suonavamo ovunque con le compagnie di allora, al muretto e ai giardinetti del paese, al circolo giovanile, alle manifestazioni. Quelle che alla fine ci legano più di altre, ancora oggi, al nostro 1977. 

Ci sono stati brani che avete poi lasciato fuori?
Abbiamo scelto queste undici canzoni e queste abbiamo inciso, senza lasciare scarti.

Come si è indirizzato il lavoro in fase di riarrangiamento dei brani? 
Il lavoro con Jono si svolge in larga parte a distanza. Ci scambiamo gli mp3 e ascoltiamo i brani di altri artisti per cercare di mettere sempre meglio a fuoco l’anima di ogni canzone, quella che si cerca e si vuole svelare. Solitamente io faccio una base per voce e chitarra e su quella si comincia a lavorare partendo dalla ritmica.
 In questa fase Jono propone i musicisti che secondo lui sono quelli giusti per creare il sound che stiamo cercando. Da questo punto di vista Jono è un gran produttore poiché una volta decisa l’unicità e il carattere di ogni canzone e quindi le sonorità utili a formarla, non fa mai un passo indietro e va avanti inesorabile fino alla fine. Tutto questo mi fa sentire sempre in buone mani, perché so che non ci saranno deviazioni o ripartenze o marce indietro. Qualunque imprevisto possa accadere si arriverà sempre al porto di destinazione.  Stabilita la linea Jono è il primo dei fedeli, e nel corso della lavorazione c'è sempre uno scambio continuo e quotidiano sui risultati ottenuti, il tutto caratterizzato da una grande volontà e determinazione da parte di tutti ad ottenere il massimo, la versione giusta. 
Questo vale non solo per Jono e la sua Magnifica carovana, ma anche per il lavoro di grafica fatto con Luca Guerri, con Erica Spadaccini per le foto, con Roberto Carlini al timone del crowdfunding e così via. Se alla fine si ottiene un ottimo risultato questo è merito di una squadra di un gruppo di persone che lavorano bene insieme. Tutto questo genera un entusiasmo costante, un motore sempre acceso che rende il viaggio una bella avventura!

Quale brano si avverte di maggiormente la cifra stilistica dei Gang?
Non credo che i Gang nel corso di più di trent’anni abbiano dimostrato di avere uno stile in particolare se non quello della contaminazione, dell'incontro e della condivisione. Di acqua ne è passata sotto i ponti e ogni volta è stata sempre rigenerante ma mai la stessa acqua. Pensa soltanto alla differenza di  stile fra un disco come “Barricada” e “Una Volta per Sempre”. Per fare in modo che la canzone resti sempre la stessa è necessario cambiare sempre stile.

Che senso ha nel 2017, realizzare un disco che racconta un anno formidabile ed allo stesso tempo durissimo come il 1977, ben evocato anche nel titolo del disco?
Con questo album torniamo, cantando, sul nostro 1977 che non è solamente un anno ma una stagione, un periodo storico che va dal golpe in Cile al rapimento di Aldo Moro. I motivi  di questo ritorno sono diversi. Del ‘77 si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto ma alla fine resta la definizione di “Anni di Piombo” a me non piace affatto perché la trovo estremamente riduttiva. 
Ci sarà stato il piombo ma ci sono state anche molte altre storie, altri immaginari, linguaggi, stili che nel grande caos convenivano ed affluivano nel grande fiume del Movimento. Questa è la caratteristica e lo spirito di quel Movimento o meglio di quel soggetto che proprio in quella stagione sfonda il portone della storia di questo paese: il proletariato giovanile! Liberata dopo quarant’anni dalla versione dei vincitori ecco che questa stagione appare per quello che è stata realmente: l’inizio di un Nuovo Umanesimo, dove un’infinità di culture giovanili diventavano una cultura, uno stile di vita, un sogno e un progetto, una nuova prospettiva. Ho ritenuto che per mostrare questo aspetto del ‘77  le canzoni fossero lo strumento più adatto. Prese ad una ad una non riescono a dare questa visione umanista di quel periodo e del proletariato giovanile che ne era attore protagonista, ma messe insieme ecco che compare quel grande affresco fatto di unicità e differenze indispensabili per fare uno. Pensa soltanto alla distanza di linguaggio e di immaginario fra una canzone di Claudio Lolli e una di Gianfranco Manfredi o fra “Sulla strada” di Eugenio Finardi e “Uguaglianza” di Pietrangeli... ma tutte erano indispensabili e riuscivano a formare, cantare e a dare voce a quel proletariato. 

Come si inserisce questo disco nella vostra produzione discografica?
Pur essendo un disco di riletture di canzoni non scritte da noi, nello stesso tempo è quello più privato perché cantano di noi a vent’anni. 
Sia io che Sandro, allora, eravamo giovani e proletari, cantavamo e suonavamo questa canzoni non in una e con una band o con un gruppo, ma ovunque ci si ritrovasse con dei Compagni, al circolo giovanile, alle manifestazioni, sul muretto o ai giardinetti del paese. Rivitalizzarle oggi, ricantarle e dare ad essere un sentimento quasi sepolto, provoca in me una sorta di resurrezione di quello spirito del ’77 e con esso uno strano senso della vittoria! Perché se allora abbiamo perso è stato solo per diventare invincibili per sempre. Non siamo nuovi a questo tipo di progetti ed operazioni, e credo che tutto il nostro canzoniere sia utile per celebrare il rito della danza della pioggia. Cantando anche queste canzoni non facciamo altro che evocare, chiamare a noi la stagione di un altro e nuovo umanesimo. In questo contesto per così dire rituale, ha la funzione di liberarci dall’angoscia della storia.

In questo senso è significativa la scelta del titolo…
La parola “Calibro” in un contesto è l’unità di misura delle armi da fuoco, ma in un'altra accezione diventa sinonimo di qualità, valore, importanza di cose o persone. Quindi con questo disco abbiamo inteso cambiare il solito contesto. Liberandoci dall’angoscia della Storia riusciamo a passare dal tempo dell’esistere a quello dell’essere, dal mito all’eternità.

A quale canzone siete maggiormente e più intimamente legati?
Senza dubbio “Uguaglianza” di Paolo Pietrangeli, è un brano minore e certamente tra le sue composizioni meno conosciute e ricordate. Personalmente mi piace per come siamo riusciti a renderla e a farla rinascere, e questo perché ci ha richiesto più fatica, ricerca e prove, prima di poter dire: eccola qua è lei! Quando l’abbiamo registrata con voce e chitarra non sapevo bene dove saremmo potuti andare a finire, poi con Jono abbiamo tentato strade diverse perché cercavo un’atmosfere che evocasse una sorta di religiosità, una promessa piuttosto che vendetta o rancore. A Jono dissi che mi sarebbe piaciuto ispirarmi alle sonorità di Ben Harper con i Blind Boys Of Alabama o a Nusrat Fateh Ali Khan con Eddie Vedder, ma tutto doveva essere più scarno, quasi vuoto. La canzone si è materializzata grazie all’oud di Jeremy Bleich, il suo suono orientale è un modo per ricordare i tanti immigrati che perdono la vita ogni giorno nei cantieri, durante il lavoro.

Quanto è stato importante per i Gang il contatto e l’osmosi con la canzone d’autore?
Partiamo dall’inizio, anzi da lontano con un campo lungo, un'inquadratura alla Tarantino di “The Hateful Eight” nella sequenza iniziale, passiamo ad un “piano americano” che ci conduce al primo piano della protagonista. C’ un ponte ideato da Antonio Gramsci, edificato magistralmente da Alan Lomax e Diego Carpitella ed in seguito ristrutturato da altri pontefici come Gianni Bosio, John Boyd e Peter Jenner fino ad arrivare a Sandro Portelli dei “Giorni Cantati”. Ebbene su questo ponte non siamo passati continuamente, avanti ed indietro con la carovana dei Gang per trent’anni, senza sosta. Io mi considero da questo punto di vista un americanista nel senso che ho sempre letto le cose che riguardano la musica rock con gli occhiali di Antonio Gramsci, quello del “Quaderno 22” e del capitolo “Americanismo e Fordismo”. In questo senso noi siamo stati da sempre non l'America fuori ma l'America dentro il Rock italiano. Mio fratello Sandro che difficilmente si concede alle interviste ha sempre ribadito che: “noi siamo comunisti più grazie ad Allen Ginsberg che a Che Guevara”, tanto per comprendere meglio chi siamo e quali strade abbiamo percorso per arrivare anche a questa nuova stazione che è “Calibro 77”. 

Questa visione si rifletteva già nei solchi di “Le Radici e Le Ali”…
“Le Radici e Le Ali” è la mia traduzione di “Americana”. E’ una sorta di missione che abbiamo compiuto nei primi anni Novanta, quindi qualcosa che ci è molto familiare, ma siccome le definizioni servono a catturare, a limitare, a storicizzare i fenomeni in genere ecco che “Americana” per me è un fenomeno  che dal punto di vista musicale ha trovato il suo momento più alto nel lavoro compiuto da Wilco e Billy Bragg sulle canzoni inedite di Woody Guthrie. 

E qui entra in gioco la canzone d’autore…
Direi la canzone popolare moderna, quella di Woody Guthrie, quella da cui ha inizio tutto ciò che a noi interessa, e con la quale continuiamo da sempre a confrontarci, a trarre ispirazione e metodo. Lui è il “mystic river” dove convergono i tanti affluenti della canzone popolare, e da questo ecco che la canzone per la prima volta prende il posto del romanzo epico, della letteratura, del teatro, del cinema per narrare il Mito! L'Umanità! Robert Plant diceva che il rock è fatto di tante e tante canzoni ma alla fine è sempre una canzone, sempre la stessa canzone…. quella lì. quella che si incarna nella storia attraverso Woody Guthrie. Noi lavoriamo da sempre affinché quella canzone continui a vivere, ad essere utile, a volare ogni volta radicandosi, trovando così appartenenza e organicità. Non lo so se questa è una scelta radicale, credo sia solo consapevolezza del cammino, delle Strade infinite che si intende percorrere, da cui veniamo per continuare ad andare... ed essere sempre disponibili all'incontro su queste strade per scambiare, conoscere, condividere… 

Quale ruolo gioca, nel 2017, quella che definisci come canzone popolare moderna?
Quello che mi interessa oggi non è tanto la funzione della musica ma il ruolo nuovo che assume la canzone popolare moderna, in grado di contenere altri linguaggi come la poesia epica, il teatro, il romanzo, il cinema e la musica stessa. Perché la canzone in sé non è la musica, ma contiene anche la musica. Riuscirà la canzone a sopravvivere ai cambiamenti, ad accettare le sfide dei tempi, farà i conti con la comunicazione oggi al tempo della rivoluzione satellitare? Dylan in questo ha colto nel segno. 
Nella rivoluzione industriale, la canzone, quella di Woody Guthrie ci è riuscita, ma per farlo dovette fare i conti con la scolarizzazione di massa, l’avvento della radio e del cinema e delle nuove forme di comunicazione di massa. Ho la sensazione che ci siano una infinità di tentativi volti a mantenere in vita la canzone, per farla sopravvivere ai tempi e la partita è ancora tutta aperta. Il rap agli inizi fu dirompente da questo punto di vista, la cultura afroamericana aveva in sé i grandi tesori della cultura della strada per compiere il passaggio da James Brown a John Coltrane. Dopo i Public Enemy ho però trovato delle difficoltà nel riconoscere questa canzone nuova.?

Quali sono le prospettive future della canzone?
Credo che quindi la canzone debba ancora compiere un lungo cammino prima di ritrovare nuovamente la strada di casa, la parola profetica. Dovrà liberarsi dei suoi peccati, dei suoi errori, della spettacolarizzazione e del profitto. Solo così tornerà nuovamente messianica, ma dovrà viaggiare per lungo tempo lontano dalla città, dovrà ritrovare la sua lingua nei luoghi scomodi e difficili da raggiungere prima di arrivare a Gerusalemme una domenica mattina di primavera. Il rinviare questo confronto a proposito del futuro della canzone, come per altre questioni, è la conferma che ormai siamo vittime di una sorta di brutto vizio ovvero di entusiasmarci troppo spesso per i mezzi, perdendo di vista il fine. 
Ci accontentiamo di guardare il dito rinunciando alla visione della luna. Solo una visione grande, alta, potrà liberare la canzone. Oggi è indispensabile separare nettamente ciò che è bene da ciò che è merce. La produzione del bene ha come riferimento la politica e la produzione della merce ha come riferimento il mercato. Siamo arrivati a questa confusione di riferimenti da quando la sinistra istituzionale ha abbandonato al mercato i produttori di beni culturali. Pasolini fu il primo a denunciare tutto questo e le sue conseguenze. Quindi è necessario e vitale per la Canzone popolare moderna rientrare nei territori del bene e non in quelli claustrofobici della merce e del mercato ostaggi della divinità del Profitto. Quindi se la canzone intraprendesse questo nuovo cammino alla ricerca della comunicazione, sono certo che alla fine di questa grande avventura potrà nuovamente sedersi al tavolo della politica in quanto bene e non più merce e riprendere le trattative. Detto questo credo che sia estremamente riduttivo confrontare il nostro lavoro ossia la nostra canzone, quella dei Gang, con quella dei cosiddetti cantautori italiani, poiché è altra la nostra storia, le strade che abbiamo percorso, e altra è la missione.

Concludendo, come saranno i concerti di presentazione di “Calibro 77”….
Per quel che riguarda il live, stiamo cominciando in questi giorni a suonare dal vivo e per ora le proponiamo, in duo io e Sandro. Vedremo con un po’ di concerti come indirizzare il nostro lavoro sul palco. 



Gang – Calibro 77 (Rumble Beat Records, 2017)
Dici 1977 e la memoria, anche per chi non era ancora nato all’epoca, va alla sinistra extraparlamentare, all’attivismo dei Radicali, alle manifestazioni oceaniche dei sindacati e alla dura contestazione degli autonomi contro Lama, alla scia di sangue lasciata dalle Brigate Rosse e alla morte di militanti di Lotta Continua come Giorgiana Masi, uccisa da un agente di Polizia in borghese. Il 1977 in ogni caso ha rappresentato un anno cruciale anche per la music con l’ascesa del punk e i fermenti creativi che ne derivarono, ed al contempo uno dei momenti più alti per la canzone d’autore in Italia. A distanza di quarant’anni, i Gang hanno voluto rendere omaggio a quell’epoca con “Calibro 77”, concept album a lungo in cantiere, nel quale hanno raccolto undici riletture dal songbook italiano degli anni Settanta, andando a pescare tra quelli meno noti al grande pubblico, ma non per questo meno importanti. Prodotto da Jono Manson e registrato a Santa Fè in New Mexico con un ricchissimo cast di strumentisti americani, il disco nel suo insieme propone una viaggio tra passato, presente e futuro della canzone in Italia, facendo emergere la portata sociale, militante, impegnata, e allo stesso tempo il lirismo e la poesia. Ad aprire il disco è “Sulla strada” tratta da “Sugo” di Eugenio Finardi proposta con un arrangiamento folk-rock tutto giocato sul dialogo tra le tre chitarre di Sandro Severini, Ben Wright e Jono Manson e il sontuoso Hammond di Jason Crosby. Si prosegue con la struggente “Io ti racconto” da “Un uomo in crisi” di Claudio Lolli e interpretata magistralmente da Marino Severini, con il pianoforte ad incorniciare la linea melodica. Se “Cercando un altro Egitto” di Francesco De Gregori si caratterizza per la brillante sezione di fiati, la successiva “Questa casa non la mollerò” di Ricky Gianco brilla nel suo andamento country-rock con chitarre e pianoforte a tessere la trama sonora spinte dalla trascinante sezione ritmica. Il vertice del disco arriva con “Canzone del Maggio” di Fabrizio De André da quel capolavoro che era “Storia di un impiegato” e qui riletta in chiave soul blues con il sax e l’Hammond ad impreziosire il tessuto sonoro. Dal repertorio di Ivan Della Mea arriva poi “Sebastiano” che i fratelli Severini trasformano in un gustoso brano folk-rock dai tratti blue-collar con l’armonica di John Popper ad impreziosire il tutto. Altro momento di rara intensità e bellezza dell’album è “Uguaglianza” di Paolo Pietrangeli, un brano sulle vittime del lavoro, proposta in una scarna versione folkie in cui spicca l’inteprlay tra l’oud di Jeremy Bleich e la chitarra tenore di Jono Manson.  La riscrittura in chiave bluegrass di “Venderò” di Edoardo Bennato ci conduce verso il finale in cui spiccano “Un altro giorno è andato” di Francesco Guccini e la bellissima “Ma non è una malattia” di Gianfranco Manfredi con la sezione di fiati ad evocare le marchin’ band di New Orleans. La disillusa riflessione de “I reduci” di Giorgio Gaber chiude un disco in cui i Gang superano gli steccati della reinterpretazione per fare proprio questo repertorio di brani, calandolo nel loro immaginario sonoro e poetico, il tutto proiettando verso il futuro la forma canzone nella sua essenza più profonda.



Salvatore Esposito

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