Camilla Battaglia – Tomorrow-2more Rows of Tomorrows (Dodicilune/I.R.D., 2016)
Musicista, cantante e compositrice cresciuta nell’ambiente jazz, Camilla Battaglia propone una album ricco di spunti e suoni profondi. Un album che racchiude probabilmente le vocazioni trasversali di una giovane musicista, talentuosa e sicura, con ottime competenze tecniche e una visione molto ampia. Le dieci tracce che compongono “Tomorrow-2more Rows of Tomorrows” definiscono un quadro così organizzato, nel quale la componente più estemporanea si lega alla riflessione su un suono e una forma di rappresentazione più sperimentali e informali. Non è un caso che convivano nell’album elementi tradizionalmente jazzistici - ravvisabili nella struttura di parte dell’ensemble così come in parte degli sviluppi esecutivi - ed elementi meno riconoscibili. O meglio più aderenti a una prospettiva di scrittura e di esecuzione più informale, come nel brano che dà il titolo all’album, ricco di sfumature melodiche, che si sviluppano in modo lineare, senza mai tornare indietro. In questo quadro ogni strumento assume un peso rilevante: dai fiati (alto sax, tenor sax, trombone) alla batteria, alle percussioni e al basso, fino alla chitarra elettrica, al piano e all’elettronica. Uno dei brani più interessanti (brani nella maggior parte composti da Camilla, ad eccezione di “The Blower’s Daughter” di Damien Rice), è senza dubbio “My Tree”, posto a chiusura della scaletta. È adagiato su una narrativa più fluida, in cui la voce è sorretta da brevi interventi cadenzati di fiati che si innestano su un ritmo di batteria lineare. Appena dopo questo lungo incipit l’andamento diviene più complesso, a causa di una sovrapposizione di voci molto piacevole, che si risolvono in un andamento più sincopato. Da qui si arriva a uno spazio più ampio, in cui la voce distende tutti gli elementi del brano, per lasciare spazio a un sax pieno e sinuoso, che si intreccia alla reiterazione di poche parole fino alla fine del brano.
Mara De Mutiis – The man I love (Dodicilune/Koinè/I.R.D., 2016)
Entriamo in uno scenario più tradizionale con “The man I love”, il primo album solista della cantante Mara De Mutiis, accompagnata dal quintetto del pianista e compositore Antonio Ciacca (Jerry Weldon al sax tenore, Lucio Ferrara alla chitarra, Mike Kan al contrabbasso e Aaron Kimmel alla batteria). Uno scenario imperniato sui classici per antonomasia, su brani ai quali non si deve chiedere altro se non di riproporsi nella loro bellezza e coerenza. Pensiamo a “The man I love” di George e Ira Gershwin, o a “Come Sunday” di Duke Ellington e “Blue Monk” di Telenius Monk e Abbey Lincoln: vogliamo solo riascoltarli, impastarli di nuovo nel semplice e consueto movimento della testa che ne segue l’andamento, riconsiderarli sì in un nuovo riflesso e in una nuova esecuzione, riconoscendone però l’aura irriducibile che stringe l’immaginario collettivo internazionale. Se una pur piccola complicazione ci deve essere è quella data dal classicismo, cioè da un nuovo incontro con una visione musicale fuori dal tempo, epica, che porta con sé qualche (seppur secondaria) perplessità. Non di carattere formale, ma sopratutto sostanziale. Una perplessità quasi aprioristica, che costringe chi ascolta a fruire con totale attenzione (analitica e quasi performativa) il fluire di brani come questi. Ad ogni modo - e questo è uno degli aspetti più interessanti dell’album - Mara De Mutiis scongiura con maestria e senza artificio questo seppur piccolo cruccio, proponendo una serie di interpretazioni non solo partecipate, ma sviluppate nel quadro di una forte ed evidente comprensione. Una comprensione del processo compositivo, dell’esecuzione, del contesto in cui i brani sono stati prodotti, dell’ispirazione o della visione degli artisti. Una comprensione che si sviluppa in un flusso naturale, sempre diretto, e che per questo prepara chi ascolta a recepirne gli elementi fondamentali, che rimangono appunto naturali anche dentro un ambito esecutivo differente. Non è forse inutile dire, a chiusura di questa breve nota, che la voce di Mara è straordinaria: sempre compl eta, piena, ricca di sfumature ed eleganza. Così come la narrazione e l’esecuzione strumentale sono straordinariamente coerenti e mai ridondanti.
Elisabetta Guido – Sea waves (Dodicilune/Koinè/I.R.D., 2016)
Album raffinatissimo da cui traspare tutta la passione e l’esperienza di Elisabetta Guido, cantante, compositrice, musicista impegnata da molto anche nella didattica. La scaletta di “Sea waves” è ricca di riferimenti non solo al jazz, ma a un’interpretazione libera e personale di diversi scenari, e si configura, nel suo insieme, come una raccolta di impressioni coerenti, riflesse e assorbite nel canto, nella scrittura, nell’esecuzione. Sul piano più strettamente timbrico siamo in presenza di una formazione acustica, composta da fiati, percussioni, piano, contrabbasso, violino. Una formazione di matrice jazz, a cui però si aggiunge in alcuni casi il live elettronics (“Sea waves”), oppure alcuni strumenti tradizionali. Quest’ultimo è il caso delle “Salento Rhapsody”, una suite in tre movimenti divisa in pizzica, afro-pizzica e balena music. Qui intervengono ovviamente i tamburelli, oltre all’accordion e al violino. La prima parte “La mia fortuna” è un testo tradizionale cantato da Simone Longo degli Zimbaria e si configura come un brano “salentino” a tutti gli effetti, con poche variazioni e molta energia ritmica, oltre che melodica. La scena cambia radicalmente con “Mare Mare”, la seconda parte, sorretta da un flusso di tamburelli più ondivago e imperniata sulla sovrapposizione di voci e gli interventi di violino e sax soprano. Il movimento dedicato alla balkan music, intitolato “19 aprile 2015”, assorbe l’irruenza dell’andamento precedente dentro una melodia di voce, violino, sax e chitarra, molto allungata e melismatica. L’atmosfera qui è più rarefatta, i suoni si dilatano l’uno sopra l’altro fino a far emergere un violino stridulo e suadente, ch eintroduce un canto breve ma estremamente evocativo. Tra i brani che vale la pena segnalare vi è certamente “Funk you”, una densa interpretazione di pianoforte, sax soprano e voce, che racchiude una buona parte dello sperimentalismo, ma anche dell’attenzione ai dettagli egli avvicendamenti strumentali, di “The good storyteller”. Qui sembra quasi di essere in un piccolo angolo ad ascoltare un’improvvisazione: il sax sorregge la melodia, il piano rimane in sottofondo e la voce si insinua spesso in unisono al sax sillabando. A ben vedere ogni elemento ha un suo spazio anche solista, dentro un ciclo di rimandi che si compie perfettamente nella compresenza dei tre strumenti.
Elga Paoli – Il lato vulnerabile (Dodicilune/Koinè/I.R.D., 2016)
“Il lato vulnerabile” è un album molto intenso e sopratutto riflessivo. Dentro vi si trovano una serie di riflessioni, di suggestioni, di immagini direi sopratutto personali, che ne definiscono il profilo in divenire, ma anche compiuto di uno spostamento, di una specie di migrazione, di un affanno che ha portato a raggiungere qualcosa partendo da qualcos’altro. D’altronde ogni singola parola nelle dieci tracce che compongono la scaletta ha un peso determinante, si configura anzi come elemento significante di per sé e poi in relazione a tutto il resto. Le parole forse sono in questo caso la marcia in più - non me ne voglia troppo l’autrice, che scrive anche le musiche - sopratutto perché riconducono questa narrazione articolata alla voce, intesa come canto e come mezzo per condividere un sentimento, una visione. Ecco, una volta appurato che siamo musicalmente in un ambito molto raffinato, nel quale ogni strumento è evidentemente scelto con cura, per costruire l’immaginario necessario entro cui inquadrare gli elementi principali, la voce torna a essere preponderante. E questo pone l’album su un piano diverso, perché può godere allo stesso modo della coerenza musicale, elaborata dentro un suono e degli interventi strumentali molto coerenti (fiati, accordion, contrabbasso, percussioni, batteria, piano), e della capacità descrittiva delle parole. Già scorrendo i titoli ci si rende conto di quanto di essere difronte a una capacità evocativa straordinaria (“Le mani sanno”, “Professionisti del sogno”, “Saggezza e vanità”). Entrando poi nei brani si è pienamente invasi dalle immagini che la Paoli riesce a organizzare. In questo senso “Quando non ci sono parole” può essere paradigmatico: “forse è meglio non cercarle/ finiresti per trovarle/ snocciolandole a una a una”. L’andamento è inizialmente sincopato, legato a una ritmica di chitarra e percussioni, per poi addolcirsi con una melodia melliflua di accordion, che nella parte finale del brano si lancia in un fraseggio musicale straniante. Insomma “quando non ci son parole/forse è meglio non cercarle”.
Letizia Onorati – Black Shop (Dodicilune/Koinè/I.R.D., 2016)
“Black Shop” è il primo album solista di Letizia Onorati, giovane cantante leccese che ci propone un viaggio tra tredici brani che percorrono buona parte dell’ultimo secolo. Tra questi vi sono brani di Miles Davis (“Four”), Duke Ellington (“In a sentimental mood”, “Sofisticated lady” e “Prelude to a kiss”), Thelenius Monk (“Ruby my dear”) e altri. In questo modo l’album si configura anche come una riflessione sulla canzone e la sua storia, a partire “Softly as in a Morning Sunrise”, un tema di operetta della fine degli anni venti del Novecento, passando per Tin Pan Alley e arrivando a “Black shop”, il brano che Paolo Di Sabatino (che qui suona il piano e cura gli arrangiamenti) ha scritto qualche anno fa per Mario Biondi. La voce di Letizia è sempre compiuta, non lascia nulla al caso e interpreta con maturità e partecipazione ogni passaggio di questi grandi brani. È sicuramente il caso di “These foolish things” (cantata da Billie Holiday nel 1936), ma anche di brani strutturati in maniera meno classica, come “Four” e “Joy spring”, nei quali la compostezza della voce aderisce perfettamente alla forza del ritmo, sorretta in modo sempre deciso dal pianoforte. Sul piano musicale incontriamo una coerenza straordinaria, determinata da pochi ma necessari fattori. Innanzitutto gli strumenti sono tre, uno di questi è la voce e l’altro, il violoncello (suonato da Giovanna Famulari), interviene solo in alcuni brani. Ne consegue che la scaletta è imperniata sopratutto sulla performance si Letizia, che raccorda ogni “mood” in modo non solo aggraziato ma anche coerente con le istanze principali dei brani. Quando interviene il violoncello tutto si addensa e, allo stesso tempo, si distende: in questo senso “In a sentimental mood” è un esempio straordinario di rilettura e partecipazione.
Musicheria – Aleph (Dodicilune/I.R.D., 2016)
Mascheria sono un ensemble formato da Carlo Bonamico (contrabbasso e basso), Claudio Giovagnoli (sassofoni e flauto), Franco Santarnecchi (pianoforte, tastiere e fisarmonica) e Bernardo Guerra (batteria). “Aleph” è un album complesso, a tratti nervoso, spesso addensato in una ritmica decisa, nel quadro della quale la batteria è puntellata dagli interventi del pianoforte (“7-10-2013”), ma anche voluttuoso (“Joro Gotan”), grazie alla capacità di questi bravi musicisti di ampliare l’ambito sonoro fin dove è necessario, aderendo così al punto di partenza, alla mistica del programma. Che in questo caso vuole anche dire (non per intero, ma comunque per una buona parte) all’aura di Borges, lo scrittore e poeta argentino che è riuscito a condensare nella sua scrittura e nella sua biografia la mistica individualistica e l’opposizione antiretorica. Ora non è certo cosa semplice, ma i Mascheria portano su un piano musicale alcune suggestioni di questo gigante del Novecento, calibrando attraverso dieci brani complessi e ricchi di variazioni le direttrici del pensiero di Borges: la fantasia, la deformazione, l’immanenza e il senso individuale del sacro, ma anche l’amore per la musica (Borges si è dedicato in particolare al tango) e tanta letteratura italiana, da Dante a Machiavelli passando per Ariosto. Come ci dice lo stesso ensemble in una nota a margine dell’album, “L’Aleph” di Borges è un’ispirazione. In particolare lo è il passo citato nella nota, in cui converge la pura fantasia e la riflessione filosofica: “è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”. Allora se ci si lascia trascinare dai brani e si tengono a riferimento queste poche cose - dalle quali ho omesso gli aspetti più tecnici e direttamente legati all’interpretazione musicale - l’esperienza dell’ascolto è totale: “Libera-Mente”, “Cielo d’opale” e “Il libro di sabbia”. Poi si arriva alla fine, si incontra una rielaborazione straordinaria di “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla e il cerchio si chiude perfettamente: mistica e ritmo. Il sax tenore ci trattiene sospesi su un flusso melodico che fa solo cenno all’originale, la base è solida ma si lascia asciugare nei fraseggi di pianoforte, per poi reintrodurre il tema circolare del basso elettrico, che spinge fino alla fine in una chiusura quasi all’unisono.
Emanuele Tondo – Sguardo a sud-est (Dodicilune/I.R.D., 2016)
Chiudiamo questa panoramica sulle produzioni di Dodicilune con “Sguardo a sud-est” di Emanuele Tondo, un album intimo e biografico in cui il pianista e compositore salentino propone nove brani legati a una serie di persone e luoghi a lui cari. L’impianto generale dell’album è molto dinamico e pieno di tutti gli strumenti che vi partecipano: piano, sax tenore, contrabbasso, batteria. Già con “One less”, il primo brano in scaletta, si percepisce la ricerca di movimento, di brillantezza. La volontà di assemblare in un corpo organico gli elementi primari di un jazz aperto, multiforme e contemporaneo, capace di raccontare, dentro una narrazione tradizionalmente multiforme, gli aspetti anche più intimi di un vissuto personale. “Alfonsina” è un brano lento, disteso e cantato da Beatrice Milanese. Credo si possa dire che è uno dei punti di svolta dell’album, posto tra la fine e la posizione centrale, perché raggiunge punte di melodia e di interpretazione straordinarie. I musicisti accompagnano la voce con maestria, puntellando l’andamento del testo con tocchi delicati e puntuali, la voce si prende tutto, in estensione e in profondità. E infine il piano è perfetto: si ricava uno spazio di intermezzo, in cui accorpa poche note a raccordare e a sospendere l’atmosfera malinconica del brano. Insomma Tondo è molto ispirato e riesce a coordinare tutti gli elementi in campo, con poche note ma calibrate, con poco volume ma con decisione. Gli ultimi due brani ci consegnano due ottimi esempi di fraseggi al pianoforte: “New joy” si apre come una finestra da cui entra il sole quando il tema del piano diviene un assolo, sorretto da una batteria piana e cadenzata. “Sguardo a sud-est” è invece l’epilogo in solo del viaggio: elegante, brillante, dinamico, aperto.
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