I corsi di Etnomusicologia e musiche popolari contemporanee dell’Università di Cagliari ospitano sovente interventi di musicisti e studiosi di diversa provenienza e formazione. Dare spazio alle voci di chi fa musica è uno dei punti base del magistero di Ignazio Macchiarella. L’ultima delle voci ospitate proveniva da molto lontano: Kristina Jacobsen, insegnante di antropologia linguistica ed etnomusicologia alla University of New Mexico – Albuquerque, ed al tempo stesso cantautrice e artista country-honky tonk. In un’aula gremita, lo scorso 27 ottobre, la professoressa ha tenuto una lezione su “Indians and Cowboys: The Politics of Place in Navajo Country Music”. Nata in Massachusetts, grazie agli studi con uno dei padri dell’etnomusicologia americana del secondo novecento, David McAllester, ha iniziato ad occuparsi di musica navajo trasferendosi nella riserva del New Mexico dove vive da circa venti anni, padroneggiando perfettamente la lingua (diné). PhD in Cultural Anthropology alla Duke University, MPhil in Ethnomusicology alla Colombia University, è stata a lungo allieva anche di Steven Feld – che ha favorito il suo incontro con l’Università di Cagliari e la Sardegna. In parallelo con il lavoro di docente e ricercatrice Kristina Jacobsen è anche un’artista affermata, cantante e songwriter, suona la chitarra e la lap-steel guitar, e ha fatto parte di diverse country band Navajo. Il suo ultimo disco, “Three Roses”, ha avuto tre nomination in altrettanti New Mexico Music Award. Fare musica, per lei, è parte del suo lavoro di studiosa: «Nel momento in cui unisco i miei studi alla opera di cantautrice divento una docente migliore».
Dopo una breve presentazione in lingua navajo, la Jacobsen ha articolato la propria lezione in due parti. Nella prima ha trattato del tema generale del concetto di autenticità in musica per i Navajo della riserva, su cui ha scritto un libro (“The sound of Navajo Country: Music, Language and Diné Belonging”) in corso di stampa. I Navajo della riserva vivono una realtà difficile, condizionata ad esempio dai problemi causati dalla carenza d’acqua. I rapporti politici con il governo federale non sono facili e del tutto felici: i Navajo godono di uno status speciale indiano che tutela il diritto di proprietà della riserva e di auto-governo nonché la fornitura di servizi necessari per la sopravvivenza e il progresso. Gli indiani sono liberi di vivere ovunque, tanto che circa il 30% della popolazione indiana negli Stati Uniti ora vive nelle grandi città. Ciò comporta, ha sottolineato la Jacobsen, una progressiva perdita di identità che si manifesta anche nel fatto che pochi giovani oggi parlano la lingua nativa, un problema che si cerca di contrastare attraverso la creazione di apposite scuole, stazioni radio e canali TV tutti in lingua navajo e americana. Altro punto cruciale della lezione ha riguardato l’acquisizione e l’utilizzo di elementi estranei alla propria tradizione del passato per la costruzione identitaria, e in particolare la country music e il rodeo che oggi fanno parte a tutti gli effetti dell’identità navajo. Tale processo è stato illustrato attraverso alcuni brani di country music Navajo, mettendo in evidenza i processi di trasposizione dagli antichi canti tradizionali monodici.
La seconda parte è stato un lungo, appassionato e partecipato dialogo con gli studenti sia sulla musica Navajo, sia sulla sua attività di ricercatrice ‘su campo’. Nonostante viva da molto tempo nella riserva la Jacobsen si ritiene comunque un’outsider poiché come lei stessa dice: «Non sono nativa e devo tenere ben presenti le mie origini, sono danese e americana e a me va bene così. Sono stata incredibilmente fortunata perché le famiglie che ho conosciuto all'interno della riserva sono molto aperte e il mio rapporto con loro è fantastico: loro hanno un forte senso dell’umorismo e questa è una cosa bellissima. Sono cresciuta in un paese piccolo e rurale e presso la riserva ritrovo tutto ciò che avevo nel mio paese come il rodeo e il bestiame.» Varie domande hanno riguardato la storia del popolo navajo, l’organizzazione della riserva, il tema della protezione della lingua minoritaria – una questione molto avvertita in Sardegna, anche fra i giovani – e il rapporto musica-politica, a proposito del quale la Jacobsen ha parlato della recente diffusione del rap fra i Navajo che si unisce alle più consolidate esperienze dei gruppi rock, come ad esempio gli XIT, presenti sul panorama musicale dal 1970 e tuttora attivi nella riserva e fuori da essa. Nel corso del suo intervento Jacobsen, incantando letteralmente gli studenti, ha proposto anche alcune performance dal vivo proponendo brani tratti dal suo ultimo disco. Noi, incuriositi dal suo lavoro, l’abbiamo intervistata dopo la lezione:
Sei cantautrice,antropologa e ti occupi della comunità Navajo: come riesci a far coincidere questi interessi nella figura della musicista?
Faccio musica da ormai tanti anni, mio padre era musicista e abbiamo sempre cantato assieme. Ho deciso di prendere la Laurea Magistrale in etnomusicologia e, successivamente, un dottorato in Antropologia e allo stesso tempo suonavo, ma non lo facevo troppo frequentemente. Dopo la laurea ho avuto il tempo necessario da dedicare alla scrittura delle mie canzoni e sono riuscita a formare una band e incidere un disco. Ho aspettato un po’ di tempo alternando studio e canto Per me l’antropologia, l’etnografia e la musica country hanno una connessione molto forte poiché tutte hanno per base il ‘racconto’, cioè tutte parlano delle persone, della condizione umana e fanno sì che giunga alle orecchie dell’ascoltatore una realtà che non si potrebbe mai conoscere diversamente. Se da un lato esse sono accomunate, dall’altro presentano degli aspetti che le rendono diverse tra loro: l’etnografia studia un fatto che obbligatoriamente deve avere valenza di verità; nelle canzoni hai più libertà: all’università dico ai miei studenti che una canzone è ben fatta quando emozionalmente ha autenticità, quando assume una forte valenza nel cantautore. I fatti (veri o meno) hanno minore importanza. Secondo me la cosa bellissima che possono fare l’etnografia e una canzone è quella di farti comprendere che tra te e un’altra persona che reputi a torto ‘diversa da te’ non ci sono differenze. Nel momento in cui unisco i miei studi alla opera di cantautrice divento una docente migliore per me stessa ed anche per i miei studenti.
Ti sei fatta influenzare in qualche modo dai Navajo? C’è qualcosa di Navajo nelle tue canzoni?
Sì, in italiano ‘place’ sta a indicare ‘luogo’ ed è una componente fondamentale per me. È importante il posto in cui suoni. La canzone “Ines” (suonata durante la lezione), l’ho scritta in un periodo in cui abitavo fuori dalla riserva e quando l’ho eseguita per la prima volta l’ho sentita come qualcosa di molto importante: il mio pubblico era composto dalla comunità navajo che capiva e soprattutto sentiva il significato della canzone. Ciò è successo anche per un’altra canzone scritta e cantata in danese. Quando la eseguo negli Stati Uniti gli spettatori la sentono soltanto come una canzone esotica, ma quando la eseguo in Danimarca il significato della canzone e il rapporto con il pubblico cambia. Per questo il luogo è molto importante. È anche interessante provare a scrivere una canzone nel luogo di cui vorrai parlare in essa: ci si rende conto che la musica ha un potere, può essere qualcosa di molto, molto forte.
Quale significato dai al fare musica?
Quando ascolto una canzone e sento che questa giunge da un luogo emozionale forte essa assume una valenza incredibile per me. Io credo (e questa è una cosa che dico ai miei studenti quando decidono di scrivere delle canzoni) che in questo momento ci si sente vulnerabili, ma occorre dare peso alla canzone, crederci fermamente mentre la si sta componendo. Per me suonare e comunicare con la gente è un qualcosa di spirituale.
Perché il country è così popolare presso i Navajo?
Ora il genere country ha assunto le sfumature di una tradizione. Il perché non è ancora ben chiaro, forse perché i navajo si identificano nei temi trattati dalle canzoni country: il mondo rurale, la nostalgia del passato, l’amore, la tristezza, la cultura che si è persa e ciò che permane. Ad esempio, ho lavorato in una stazione radio bilingue navajo e inglese in cui vengono trasmesse musiche tradizionali, ma anche musica hip hop, altro genere molto popolare soprattutto presso i giovani. Per i giovani la cultura degli afroamericani è molto importante: le tematiche si accomunano, non sono uguali, ovviamente, ma simili e un modo per esprimere il proprio disagio dato da emarginazione e disuguaglianza può essere rappresentato da questo genere musicale.
L’esperienza di Kristine Jacobsen risulta certamente singolare e di grande fascino. La pratica esecutiva può essere per lo studioso un valido strumento di comunicazione, sia nella fase della ricerca sul campo, sia nell’attività di divulgazione dei saperi acquisiti: il tutto, ovviamente, a patto che i protagonisti della pratica musicale studiata siano d’accordo! Alla base, comunque sia, vi sono i rapporti personali che lo studioso costruisce giorno per giorno con i propri interlocutori musicali, rapporti intensi, profondi, sinceri come quelli fra la Jacobsen e i ‘suoi Navajo’: una eccellente dimostrazione, ha concluso Ignazio Macchiarella, di come un lavoro etnomusicologico sia, in fin dei conti, una questione di relazioni umane.
Per approfondimenti: http://kristinajacobsenmusic.com/; http://music.unm.edu/faculty/kristina-m-jacobsen/; https://www.facebook.com/profile.php?id=100008047935158; http://blues.gr/profiles/blogs/ethnomusicologist-and-active-musician-kristina-jacobsen-talks
Irene Coni e Federica Siddi
La redazione di Blogfoolk ringrazia il Prof. Ignazio Macchiarella per la gentile concessione
Tags:
Nord America