Neri Pollastri, Riccardo Tesi. Una vita a bottoni, Squilibri, 2016, pp. 308, Euro 22,00

In un libro che si configura come conversazione a più voci e analisi ragionata critica della discografia, è raccontata la carriera di un musicista che assurge a paradigma di una nuova musica contemporanea frutto di incroci tra tradizione orale e linguaggi popular. Se è vero che esistono autobiografie di gruppi folk, che si trovano libri su vita e opere delle ‘stelle’ del primo folk revival, occore riconoscere che un libro concepito intorno a un musicista nel pieno della sua attività artistica, ma non appartenente al mainstream, che non è né un cantautore né un jazzista, è cosa nuova nel panorama editoriale italiano. Pioniere della rinascita dell’organetto in Italia, Riccardo Tesi ha coniugato senza dogmatismi la tradizione toscana (in cui non era presente l’organetto), sarda e centro-italiana della piccola fisarmonica bitonica con altri linguaggi, dal Rinascimento ai Balcani, dal jazz alla canzone d’autore, dal liscio primigenio agli stilemi world. In un’intervista, raccolta nel 1995 da Patrizio Visco per “World Music”, Riccardo Tesi dichiarava: «Mi sento un musicista di popular music ma credo di assolvere bene la funzione di musicista etnico, anche se ho capito subito che non avrei mai potuto suonare come gli organettisti sardi. […] La mia musica raccoglie una grande influenza proveniente dalla musica etnica, è stimolante per me creare forme musicali nuove». Più di recente, in un saggio contenuto nel ‘librone’ “La musica folk” (Il Saggiatore, 2016), il curatore dell’opera Goffredo Plastino, proprio in conversazione con il musicista toscano (“Ufficialmente organettista. Una conversazione con Riccardo Tesi”, pp.995-1009) finalmente, ha provato a fare luce su quella fase di mutazione estetica, di ‘cambio di pelle’ e di atteggiamento nei confronti del folk che si verifica negli anni Ottanta, quando in un nuovo contesto storico e sociale, avanzano tra i musicisti nuovi stimoli creativi, nuove influenze musicali e coreutiche (il bal folk, la centralità di nuovi strumenti tradizionali, il portato di gruppi folk francesi). 
Quello è stato un periodo assai fertile, spesso trascurato da chi insiste nel dedicarsi solo all’analisi del folk revival anni Sessanta-Settanta o pensa che tutto il nuovo si sviluppi con la cosiddetta ‘taranta’ (perché pochi sono interessati a scavare e ad interpretare), un decennio, ma anche qualcosa in più, che porta la musica di ispirazione tradizionale italiana sui palcoscenici del circuito dei festival mondiali. Basti considerare che Tesi tra 1988 e 1995 inciderà per le etichette francesi Silex e Auvidis. Il pistoiese ha dato al suono dell‘organetto italiano un respiro internazionale attraverso tante collaborazioni. Tesi ha ben chiara la consapevolezza del suo ruolo autoriale e dell’essere un personaggio musicale di confine. Il volume di Neri Pollastri: filosofo, critico musicale, attore e registra teatrale, è accompagnato da ottanta minuti di musica, raccolti in un’antologia di sedici brani del repertorio di Riccardo. Con lo stesso protagonista, riviviamo le fasi principali della sua vita tra il respiro dei mantici.

Come nasce questo libro?
Ho compiuto sessant’anni e invece di andare da uno psicanalista sono andato da Neri Pollastri, che mi ha fatto allungare sul suo divano e mi ha detto raccontami cosa hai fatto nella vita. Questo perché volevo farlo sapere a mia figlia, che mi ha sempre visto partire. In realtà, c’era anche la voglia di raccontare un percorso musicale, far vedere da dove ero partito per arrivare a quello che sto facendo oggi, raccontare la mia esperienza musicale che coincide con l’evoluzione che c’è stata nel folk revival da quando ho iniziato fino ad oggi. 
Sono partito dalla musica tradizionale con Caterina Bueno che cantava in “Balla Ciao”, sono diventato musicista un po’ per caso perché lei ci ha chiesto di accompagnarla. Avevo scelto di fare lo psicologo nella vita, ma questa occasione di suonare con lei mi ha dato la possibilità di diventare musicista professionista da un giorno all’altro. Ho cominciato a suonare l’organetto in quel momento, a ventidue anni, molto tardi, ma la passione era così forte che ho mollato tutto, studi compresi e mi sono concentrato su questo. Sono salito sul treno e non sono mai più sceso. Dal folk revival puro alla musica tradizionale toscana: suonando l’organetto ho aperto la mia musica prima a una fase in cui ho iniziato con un gruppo che si chiamava Ritmia, facevamo musica nostra però molto influenzata dalla musica tradizionale, poi via via ho allargato sempre di più il mio panorama fino anche a recuperare una certa anima rock, la mia passione per il jazz che avevo prima di immergermi nella musica tradizionale. È stato un percorso non progettato, fatto di incontri casuali in alcuni casi, in altri invece fortemente desiderati. Ogni incontro ha arricchito il mio percorso musicale e lo ha deviato, è stato un divenire più che un progetto di percorso.

Hai cominciato da autodidatta, quando alla fine degli anni Settanta era difficile imparare uno strumento come l’organetto…
Non esisteva niente. Mi sono innamorato di questo strumento perché ho visto un gruppo, il Canzoniere del Lazio, in cui c’era Francesco Giannattasio che suonava questo strumento in tre quattro brani. Quando cominciai a suonare con Caterina Bueno, mi ritrovai anche a prendere il suo posto. Suonavo la chitarra male e in un gruppo di tre chitarristi ero il più scarso. Così mi hanno consigliato di fare il polistrumentista. 
Uno degli altri due chitarristi aveva un organetto, quando ci ho messo le mani per la prima volta, ho sentito la scintilla. Mi sono ritrovato però a dover fare tutto da solo, nel senso che all’epoca non c’erano i corsi. I miei maestri sono stati i musicisti tradizionali che ho incontrato nel sud della Toscana, nelle Marche e nel Lazio e poi i dischi, anzi dalle musicassette, che si compravano al mercato. Di dischi sull’organetto non ce n’erano quasi per niente e con alcuni musicisti della mia generazione appassionati di organetto abbiamo cominciato a studiarlo, a diffonderlo, a fare scuola, workshop, e corsi regolare nelle scuole di musica come la Scuola di Musica Popolare di Forlimpopoli, che esiste ancora: ho partecipato alla sua fondazione. Abbiamo lavorato moltissimo sulla didattica e adesso ci sono moltissime scuole con suonatori di organetto di altissimo livello. Faccio parte di una generazione che si è interessata ai suoni e agli strumenti della tradizione e questa è stata un’onda musicale non solo in Italia ma un po’ in tutti i Paesi, in Francia come in Inghilterra. Questo si chiama folk revival, che da noi è iniziato con “Bella Ciao” nel 1964. Io faccio parte della generazione seguente, che dalla canzone politica ha recuperato altre fette della tradizione. Poi abbiamo cominciato a fare – diciamo – musica  tradizionale di oggi, quindi composizione e contaminazioni varie.

Vorrei ora soffermarmi sul contributo che hai dato all’ampliare le capacità espressive dell’organetto.
L’evoluzione del linguaggio dall’organetto tradizionale all’organetto contemporaneo mi ha obbligato un po’ a cambiare anche il mio strumento, perché questo strumento normalmente ha solo due tonalità. 
Mi sono trovato a suonare con  un grande jazzista come Gianluigi Trovesi in un periodo in cui cercavo di collaborare con musicisti di altri stili e mi serviva un modello che avesse tutte le note. A quell’epoca chiesi un prototipo particolare che ha costruito per me la ditta Castagnari. È una cosa che poi hanno fatto più o meno tutti. Si è passati, così, da una musica fortemente diatonica a una musica cromatica con tutte le note. In tal modo, davo la possibilità a strumenti ‘strani’ come i nostri di dialogare con musicisti di altri stili. Era ciò che mi interessava in quel momento: parlo di fine anni Ottanta inizio anni Novanta. Era un periodo in cui c’era molto fermento musicale, perché i musicisti jazz erano stufi di suonare bebop o jazz americano e cercavano ispirazione nella tradizione. Noi del folk eravamo stufi di suonare per il ballo in maniera tradizionale e cercavamo dei nuovi stimoli incrociandoci con altri, così De André ha fatto “Creuza de Ma”. C’era un incontro tra stili prima lontani, che permettevano questi incroci stilistici che hanno dato vita a grande musica.

Hai citato Fabrizio De André, io aggiungo Fossati, Gianmaria Testa, cantautori con i quali hai intersecato il percorso musicale…
Diciamo che ho sempre amato la canzone d’autore e da ragazzo suonavo le canzoni di Fabrizio De André alla chitarra. Essendo un chitarrista scarso, riuscivo, però, ad accompagnare qualche canzone da Bob Dylan arrivando agli italiani Guccini, De Gregori. Ero appassionato di canzone d’autore, l’interesse per la musica popolare mi ha allontanato un po’ da questo genere. Però nel 1996, quando ho collaborato sia in “Macramè” di Ivano Fossati sia in “Anime Salve” di Fabrizio De Andrè, queste esperienze mi hanno messo in contatto con un mondo musicale che per un periodo avevo un po’ snobbato, ritenendolo troppo commerciale o troppo semplice. 
In realtà, è stata una lezione di musica fondamentale perché mi ha completamente trasformato; ho scoperto di avere a che fare con grandissimi artisti così come tutto l’entourage fatto di musicisti di grandissimo livello con cui ho cominciato a lavorare. Per esempio Stefano Melone che era il tastierista di Ivano Fossati è diventato il mio produttore, e in ogni disco che ho realizzato dopo c’è sempre la sua direzione tecnico-artistica. La canzone d’autore, dunque, mi ha insegnato moltissimo soprattutto sul linguaggio, quello di andare all’essenziale. Ho scoperto una cosa molto importante nella canzone d’autore, ovvero l’equilibrio fra il testo e le parti musicali. Molto spesso la cosa difficile non è far vedere quanto sei bravo con lo strumento, ma fare le note giuste che servono alla canzone. Ho visto che la scrittura di una canzone che sembra una cosa semplice di pochi minuti, è un lavoro profondissimo, di grandissima riflessione, in cui ogni dettaglio è curato al massimo. Questo devo dire ha influenzato molto il modo di pensare la musica.

Dai mostri sacri della canzone d’autore alle nuove generazioni: ti sei trovato a collaborare di recente con Massimo Donno e Massimiliano Larocca.
Sono due occasioni in cui mi è capitato di svolgere un lavoro diverso da quello che ho sempre fatto. Ho sempre arrangiato la mia musica, a realizzarla a produrla e a metterla su disco. Con Massimo è nato tutto da una collaborazione per un concerto, al quale mi aveva invitato qui in Puglia. Abbiamo lavorato su due, tre canzoni sue, abbiamo cominciato a mettere a condividere con lui certe mie idee. L’esperienza ha funzionato, tant’è che mi ha chiesto di occuparmi dell’album e quindi ho indossato i panni del produttore artistico che prima avevo fatto solo e per me stesso e devo dire che sono estremamente felice di questo lavoro, che ho fatto con grande passione. 
Sono felice del risultato sia con Massimo sia con Massimiliano Larocca. E’ un lavoro che mi piace perché metto la mia esperienza, lo studio e gli arrangiamenti a disposizione di un altro artista. 

Abbiamo parlato di Riccardo Tesi agli esordi, dell’esplorazioni sonore e dell’incontro con la canzone d’autore. Parliamo di Riccardo Tesi bandleader di Banditaliana…
Banditalia è la mia creatura forse più riuscita, perché suoniamo insieme da ventiquattro anni, che è un tempo lunghissimo per un gruppo. Credo ci battano i Rolling Stones e qualche altro. È stata un po’ l’esperienza calcistica del Chievo, perché veniamo da una provincia come Pistoia, che basta uscire dall’Italia perché nessuno sappia dove si trova, siamo un po’ succubi culturalmente di Firenze. Siamo quattro pistoiesi partiti credendo in un progetto e piano piano, anno dopo anno, siamo arrivati a suonare in tutto il mondo, a creare uno stile nostro, una nostra idea di musica che si è imposta in tutti i festival del mondo fino in Australia. È stata la prima esperienza in cui ho fortemente creduto nelle mie idee musicali. Questo è quello che dico ai giovani, di crederci sempre, anche se non siamo conviti, di difendere le proprie idee. Questo mi è costato tanto, perché non avevo fiducia nei miei mezzi e Banditaliana è l’esperienza che mi ha convinto del contrario, ovvero a seguire le mie idee.

Nel libro si toccano anche esperienze più recenti come “Sopra i tetti di Firenze”…
È un omaggio a Caterina Bueno che, come dicevo prima, è stata lei a farmi diventare un musicista professionista, come è accaduto anche a Maurizio Geri, chitarrista e cantante di Banditaliana. Quando lei è scomparsa, nel 2007, abbiamo subito pensato di doverle rendere omaggio. Abbiamo realizzato questo album doppio, riunendo intorno a noi tanti artisti toscani da Piero Pelù a Gianna Nannini a Nada, altri musicisti e abbiamo fatto una rilettura del repertorio di Caterina a nostro modo. 
La mia carriera musicale si muove su due linee: quella della mia musica con Banditaliane e altri progetti, mentre l’altra mi vede lavorare su progetti tematici come nel caso del ballo liscio con “Un Ballo Liscio”; “Acqua Foco e Vento” sulla musica tradizionale pistoiese. Alcuni lavori sono commissionati. Mi fa piacere accogliere queste sfide, come “Un Ballo Liscio” e farli diventare miei progetti personali. In retrospettiva, posso dire che è stato uno dei dischi più riusciti, anche se ora è fuori mercato. Ci sono queste due direzioni, la mia musica e fare lavori su due direzioni.

Tra i progetti su commissione c’è Flatus Calami”, prodotto per il Festival della zampogna di Scapoli, uno dei massimi esempi di sinergia tra musicisti, studiosi e realtà culturali locali, avvenuta in una piccolo paese molisano. 
Ho avuto fortuna perché dovevo fare questi quattro giorni al festival della zampogna, con un gruppo con diverse zampogne. Non fu facile gestire quattro o cinque zampogne. Fu un’esperieza bella e ricca di energia; portai delle composizioni, e in quattro giorni preparai il concerto, suonammo e registrammo dal vivo. Non è forse la mia esperienza fondamentale, ma è stata una bella esperienza, di cui resta un disco a testimonianza. 

Tra i recenti progetti c’è il più recente “Bella Ciao”.
È stato un po’ un ritorno all’origine. In concerto racconto sempre che mio padre ha comprato un solo disco in vita sua ed era “Bella Ciao” e io, da piccolo, lo ascoltavo sempre. Mi svegliavo la domenica mattina, quando lui non lavorava e c’era sempre questo disco che suonava. Era un segnale del destino, che all’epoca non sapevo cogliere. Però in quel disco c’era Caterina Bueno, che è la persona che mi ha portato alla musica. 
Quindi due anni fa, quando Franco Fabbri mi ha chiamato chiedendomi di occuparmi del riallestimento di “Bella Ciao” per i cinquant’anni, pensando che mio padre era morto da due mesi, ho pensato che era un segno del destino, che avrei dovuto fare quello spettacolo e che avremmo dovuto fare una sola replica. Accettai, chiamai a raccolta gli amici più cari prima di tutti Lucilla Galeazzi, che è veramente l’anima di “Bella Ciao”,  poi Elena Ledda, che è la cantante sarda per eccellenza, a cui sono legato da un amicizia di quasi quarant’anni e da tante esperienze condivise. Inoltre, volevo una voce che parlasse più al pubblico di oggi e Ginevra Di Marco era la persona più indicata. Alessio Lega era legato alla parte politica. A livello strumentale ho chiamato Andrea Salvadori, anche se inizialmente doveva esserci Maurizio Geri, ma lui era impegnato in un altro progetto, e Gigi Biolcati alle percussioni. Facemmo questo concerto a Milano, che fu un trionfo e ci siamo emozionati a tal punto che abbiamo pensato di rifarlo, poi ci hanno cominciato a chiamare tutti, siamo a trentacinque concerti, sempre con un sacco di gente, abbiamo suonato a Vienna alla Concert Hall, in Francia con milleduecento paganti, Siamo di ritorno dallo showcase al Womex di Santiago de Compostela. 

Tra i prossimi impegni la nuova incarnazione dei Samurai…
Samurai è un quintetto, che riunisce alcuni dei più importanti organettisti europei. Ideato nel 2010 da Frédérique “Fritchou” Dawans, manager del gruppo, la line up originale comprendeva Didier Laloy (Belgio), Bruno Le Tron (Francia), David Munnelly (Irlanda), Markku Lepisto (Finlandia) e il sottoscritto. 
Insieme abbiamo registrato l’album “Accordon Samurai”, che nel 2011 ha vinto Grand Prix International du Disque de l’Academie Charles Cros di Parigi e l’Octave del la Musique belga. Dopo una sessantina di concerti in tutti i maggiori festival europei, il gruppo si ferma. Adesso, rinasce con una nuova formazione, che vede l’italiano Simone Bottasso e il basco Kepa Junkera al posto di Le Tron e Laloy. Kepa è l'energia pura, Dave Munnelly ha uno swing da paura, Simone è la contemporaneità e l'improvvisazione, Markku l'intelligenza e la solidità! Devo dire che questa nuova formazione mi convince anche di più della precedente, che mi già mi piaceva. L’apporto di Simone Bottasso – che ho molto caldeggiato - riprende il ruolo di Laloy nell’offrire uno spaccato creativo sull’organetto moderno. Poi c’è Kepa Junkera che è una forza della natura. Con lui avevo già lavorato in Trans Europe Diatonique. Markku è un altro grandissimo musicista, meno appariscente, meno focoso, ma è importantissimo e musicista completo, sa comporre, legge bene, suona anche la fisarmonica cromatica. Il clima di lavoro non è cambiato, è un lavoro collettivo con molta energia. Abbiamo elaborato materiale per un disco, faremo delle session di prove per rifinire tutto. Usciremo con la Homerecords, la stessa etichetta del primo disco, entro il settembre del 2017. 

Salvatore Esposito e Ciro De Rosa




Neri Pollastri, Riccardo Tesi. Una vita a bottoni, Squilibri, 2016, pp. 308, Euro 22,00
La biografia del compositore e strumentista toscano che ha dato al suono dell‘organetto italiano un respiro internazionale è una bella novità editoriale, se pensiamo che nel nostro Paese scrivere un libro intorno ad un musicista all’apice della sua vita artistica è roba riservata a jazzisti, a rocker o a cantautori. Neri Pollastri – filosofo, critico musicale, attore e registra teatrale – racconta la vicenda artistica di Riccardo Tersi dai suoi esordi al presente. Dalla ricerca di un suono nuovo per l’organetto, che porta al magnifico esordio de “Il ballo della lepre” – disco dedicato alle musiche da ballo, ma che già lascia intravedere inusitate aperture timbriche e armoniche – all’incontro con Marc Perrone e Patrick Vaillant, dal progetto italo-nizzardo Anita Anita all’indagare le pagine più antiche e nitide, per fascino melodico, del liscio romagnolo e della tradizione popolare dell’Appennino. In seguito, c’è la creazione di Banditaliana, altro passaggio cruciale che conduce a un suono acustico, capace di conservare lo spirito popolare pur alimentandosi di orditi timbrici, armonici, ritmici e melodici che attingono al jazz e ad altri linguaggi folk e world fino alla canzone d’autore. Ancora, i tanti progetti commissionati, le collaborazioni con i maestri della canzone d’autore italiana, la sua intimità di organettista, che restituisce l’emozione del suono ‘puro’ dei mantici nel suo lavoro solista per arrivare ai più recenti progetti live e discografici. Il volume si legge piacevolmente, anche per l’impronta dialogica e si avvale di interventi di critici, musicisti, studiosi e operatori culturali che hanno incrociato il cammino artistico di Tesi. Dopo la rassegna della discografia tesiana, Pollastri presenta un’intervista con una griglia di domande che disvelano ancor di più l’anima artistica di Tesi (“Riccardo secondo Riccardo”). Ne risulta una trattazione agile che, pur conservando un vivace taglio critico (puntuale l’analisi della discografia), mostra qua e là un profilo agiografico, finendo per assumere, talvolta, i contorni di un’autobiografia più che di una biografia analitica. Per contro, però, il volume appare troppo curvato sul Tesi musicista, compositore, ricercatore di suoni, di cui è tenuto da parte il lato umano, eccettuato il racconto del suo rapporto giovanile con la musica e la fase degli esordi con Caterina Bueno. A dirla tutta, ci sarebbe piaciuto un maggiore disvelamento degli snodi tra le diverse fasi artistiche di Tesi e lo scenario musicale internazionale (che corrisponde anche a un passaggio nell’uso di certe categorie interpretative: dalla ‘musica popolare’ alla ‘musica etnica’ e alla ‘world music’). Che dire, poi, della seconda metà degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta del Novecento che avrebbero meritato un maggiore approfondimento, perché si è trattato di una nuova, vitale fase di revival folk in Italia tra ricerca e creazione, che porta Tesi, i Ritmia (una band da scrittura collettiva fantastica, che trionfa al Vancouver Folk Festival) – ma ricordiamolo – anche Ciapa Rusa, Tre Martelli, Baraban ed altre band ancora, dal nord-ovest al nord-est, dalla Sardegna alla Calabria, ad essere presenti nei maggiori festival trad/folk europei. Ma ciò è forse riconducibile agli interessi specifici dell’autore, non proprio interno al mondo folk (il che a volte può essere anche un bene in termini di prospettiva). Anche sotto il profilo bibliografico, avremmo gradito che fosse data testimonianza di tutto l’ampio repertorio di interviste e recensioni che tanti specialisti delle musiche tradizionali in Italia e all’estero (un vero e proprio movimento di opinione) hanno pubblicato in riviste specializzate e non in un arco temporale di oltre trent’anni. L’intervento di Ezio Guaitamacchi (“Vita. Opere e miracoli di un folkettaro per caso”), tra l’ironico e il surreale, è gustoso, ma proviene da un critico più di impronta rock (anche se agli inizi della sua carriera di giornalista è stato il direttore di “Hi, Folks”). Il volume propone anche gli spartiti di “Fulmine” e “Pomodhoro” e un corredo di cinquantanove foto a colori. Un piacevole disco antologico di ottanta minuti, ci accompagna nella lettura della notevole traiettoria artistica di uno dei musicisti più autorevoli della musica italiana tout-court e della scena world europea. 



Ciro De Rosa

Posta un commento

Nuova Vecchia