Vito Ottolino – Distanze (Digressione Music, 2015)

“Distanze” è un album al quale non servirebbero tante parole. Nè per promuoverlo né per decifrarlo. Perché, come implicitamente ci suggerisce l’autore Vito Ottolino - che suona la chitarra e compone i brani che suona - si esprime in un linguaggio che difficilmente si potrebbe fraintendere. Attenzione non perché si riconosce in un genere dato e più o meno convenzionale (non diciamo né jazz né classico né nient’altro), ma perché è evidentemente sbocciato nelle mani di un chitarrista che sa il fatto suo. E che riesce a esprimere e a proiettare con nitidezza tutte le visioni che scorrono nel suo orizzonte musicale, sovrapponendo una tecnica esecutiva esemplare a una serie molto articolata di idee originali. Il brano “Distanze” è, tra gli altri, un buon paradigma di questo assetto, di questa organizzazione, di questo flusso programmatico che confluisce nella voce delle chitarre suonate da Ottolino (classica, acustica e dodici corde). È morbido e teso allo stesso tempo, profondo e fluido, sviluppato nel quadro di un andamento che è accennato nelle prime battute e che si configura con coerenza nel corso del brano, con Cesare Pastanella alle percussioni e Francesco Angiuli al contrabbasso. La chitarra (acustica) di Ottolino qui è limpida e decisa, va dritta verso l’orizzonte arcuato che ci accoglie, sul sostegno di un armonia e una ritmica leggere e levigate con cura. Nella parte finale il brano si asciuga di nuovo, richiamando le rarefazioni dell’incipit, addensate da alcuni passaggi unisoni tra chitarra e contrabbasso, che portano in discesa alla chiusura. Nonostante la formazione in trio di base - a cui si aggiunge Beppe Fortunato alle tastiere in “Movie’s song” e Felice Di Turi alle percussioni sulla chitarra in “Misunderstanding” - l’album si scopre, traccia dopo traccia, attraverso innumerevoli variazioni. C’è un esempio interessante anche di “scherzo” tradizionale. È “Brincadeira”, un breve brano (della durata di poco più di un minuto) che, oltre ad assumere i tratti di un intermezzo, sposta momentaneamente la scaletta dentro un’atmosfera più etnica, elaborata su un ronzio di contrabbasso molto piacevole e straniante, sul quale la chitarra classica veleggia attraverso una linea melodica pronunciata e corposa. Tra le dieci tracce della scaletta – che, come detto, partecipano tutte a differenziare il flusso musicale – ce ne sono almeno un paio su cui vale la pena soffermarsi. Sono due brani tra loro diversi, ma che definiscono più degli altri i riferimenti dell’autore. “Last train home” di Pat Metheny si porta dietro la grande evocazione della distanza e di uno spazio vuoto, che ognuno può riempire con le proprie riflessioni. Il timbro del brano è limpido e deciso, il contrabbasso rimane sotto il tema della chitarra dall’inizio alla fine, aderendo con più presenza ai passaggi più significativi. La linea melodica si sposta tra due poli coerentemente connessi: quello più evocativo (come detto prima) e descrittivo, da un lato, e quello più interpretativo dall’altro, lanciato con fraseggi più pieni e ritmati nella parte centrale del brano. Il finale riprende il prologo e ci riporta al trasporto di una melodia perfetta ed equilibrata. Il brano che lo segue è “Lungo la strada”, una sorta di sospensione più distesa e morbida. Sembra seguire il flusso lasciato da “Last train home”, ma appena dopo il prologo l’arpeggio si addensa, si appoggia sull’arco del contrabbasso e lascia saltellare una melodia più accentuata e acuta. L’ascolto di questa coda dell’album richiede più silenzio del resto dei brani: Ottolino si muove, senza quasi strisciare sui tasti, lungo tutta la tastiera e, nella seconda parte, lascia fiorire un fascio di note che si reiterano con brillantezza, per poi chiudere rallentando e risuonando. 


Daniele Cestellini

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