Guidati dall’eclettico trombettista e compositore Cesare Dell’Anna, gli Opa Cupa vantano percorso musicale ormai ventennale costellato da tanti concerti in Italia come all’estero, e una serie di dischi superbi, nei quali hanno cristallizzato il loro originale sound che li vede incrociare il repertorio musicale dei Balcani e le sperimentazioni sonore del jazz, il tutto condito da echi della tradizione del Sud Italia. A distanza di cinque anni da “Centro di permanenza temporanea”, ritorno in con nuovo album “Baluardo” nel quale hanno raccolto diciassette brani tra originali, riletture di brani tradizionali come “La Rosa Enflorece” e “Moja mala nema mane” e due dediche a Amy Winehouse e a Adnan Hozic. Abbiamo intervistato Cesare Dell’Anna per farci raccontare la genesi e le ispirazioni di questo disco.
Baluardo arriva a cinque anni di distanza da “Centro di permanenza temporanea”. Come nasce questo nuovo progetto?
“Baluardo” è un omaggio alle meravigliose intuizioni dei nostri fantastici politici pugliesi, e lo dico ironicamente, perché questa classe politica sembra nata più per distruggere che per costruire.
Io, come anche molti altri artisti, qui in Puglia siamo stati vittime di certe scelte, ed è per questo che con Opa Cupa abbiamo deciso di dedicargli addirittura un album a questi personaggi, e lo abbiamo fatto nell’unico modo che conosciamo, attraverso la musica, le belle canzoni che facciano ballare e divertire il nostro pubblico. E’ questa la nostra unica arma per difenderci e rispondere alle porcherie della politica, evitando di scendere allo scontro come loro tentano sempre di fare, diventando spesso volgari.
La copertina del disco che ritrae una tromba con le manette, rimanda alla chiusura della Casa della Musica Livello 11/8, dove il disco è stato registrato. Un esperienza terminata straordinaria, caratterizzata da tante difficoltà, e da un epilogo infelice…
Livello 11/8 è stata una realtà molto interessante, abbiamo resistito per cinque anni facendo cose straordinarie, anche perché c’è stato un grande investimento da parte della Regione Puglia con diversi progetti, creati dalla giunta Vendola, come Bollenti Spiriti, e questo nonostante le guerriglie nate parallelamente e legate a questioni politiche. Il problema nasceva dal fatto che furono dati dei soldi ai politici locali per ristrutturare un ex mercato dei fiori e creare questa struttura dedicata alla musica, ma nessuno si è mai preoccupato di renderla agibile, né tantomeno di fare controlli per capire se fosse realmente fruibile. All’epoca con la mia società 11/8 Records, vincemmo una gara per la gestione di questa struttura, senza alcun aiuto politico. Ci fu un contratto regolarmente sottoscritto con lo stato, non con il meccanico dietro casa, e pensavamo di poter lavorare in una struttura agibile, ma già dal primo giorno scoprimmo una miriade di problematiche che hanno reso impossibile lavorare serenamente. Ogni volta c’era bisogno di permessi speciali, dovevo andare ad elemosinare per aprire e fare le varie attività. Nonostante i soldi spesi, le fideiussioni bancarie fatte, le battaglie, le guerre e i rischi altissimi corsi da me e dai miei collaboratori, dopo sei anni ci siamo trovati a chiudere, perché non c’erano più le condizioni minime di sicurezza, né tantomeno questi politici si sono preoccupati di mettere a norma questo posto.
Abbiamo toccato lo schifo, siamo arrivati agli insulti ai quali non ho mai risposto, e così è volato via un altro milione di euro della Comunità Europea per fare quattro bandi per far divertire questi politici. Oggi ci ritroviamo con la struttura chiusa, i ragazzi non hanno più le sale prove, la scuola di musica gratis, uno studio di registrazione all’avanguardia gratis, e non hanno più un posto dove suonare. Di questo dobbiamo ringraziare i vari sindaci dell’Unione dei comuni a Nord di Lecce, ma comunque l’Amministrazione Regionale, insomma tutti hanno responsabilità, e non basta dare i soldi per ristrutturare una struttura, ma bisogna andare a vedere se questi soldi sono stati ben spesi e se i luoghi sono agibili perché diversamente è un controsenso.
Come hai tradotto in musica questo disagio verso la classe politica locale…
Nella musica c’è sempre uno stimolo, sia esso un disagio, un’incazzatura, un momento di grande amore o un incontro. In questo disco c’è tutto questo. C’è l’incazzatura, le questioni con la classe politica e tutto il resto, ma c’è anche tanto amore. Ci sono tutti i miei amici dell’Albania che suonano con me, tutte quelle cose belle che ci siamo guadagnati negli anni come la condivisione, i valori di tutti, il fatto che ci piace viaggiare, imparare. Al di là di queste polemiche non ci fermeranno comunque, perché non sono quelle quattro mura a determinare la nostra potenza e il nostro voler fare. C’è un gruppo con alle spalle vent’anni di cammino, e quattro dischi, stiamo continuando a fare cose bellissime insieme, c’è una famiglia con tantissimi musicisti di talento, andiamo in giro a suonare e spacchiamo l’aria ovunque.
Come si è evoluto il sound di Opa Cupa nell’arco di un ventennio?
L’evoluzione è stata incredibile e costante negli anni. All’inizio degli anni Novanta, quando abbiamo cominciato, avevamo una line-up diversa nella quale c’era ancora il nostro primo cantante Adnan Hozic, indimenticato amico a cui abbiamo dedicato un brano nel nuovo disco. Suonavamo materiali di taglio più tradizionale, mentre negli ultimi lavori il sound si è evoluto. Abbiamo aggiunto le chitarre elettriche, ad esempio, ma c’è anche il fatto che siamo diventati più bravi nel fare questo tipo di musica che mescola jazz e ritmi balkan.
Il suono è cambiato tanto, così come la scelta del repertorio, facciamo pochissime riletture, ma quelle poche ma sono pazzesche come “My Favourite Things” suonata in 7/8 o “You know I’m no good” di Emy Winehouse, rivisitata in chiave balkan, che chiude “Baluardo” e ha sei ritmiche diverse all’interno. E’ un manicomio totale per i miei musicisti che mi odiano e non poco per questo brano, ma siamo forti e potenti e già pronti pensare ad un sound ancor più innovativo per il prossimo disco che è già in cottura nel mio cervello.
Dalle musiche da banda al balkan-jazz, come è nata l’alchimia di questo incontro?
La banda è la prima cosa che ho imparato a fare e difficilmente si può dimenticare… Quando eravamo ragazzi spesso ci rompevamo le scatole di suonare sempre le stesse cose, e appena mancava il capobanda e si creava una situazione più rilassata, ci divertivamo a rileggere e trasformare ritmicamente i brani del repertorio della banda. Questo gioco è un esigenza innata di tutti i musicisti delle bande. Poi avendo fatto tanti anni di studio e di lavoro con gente veramente seria che arrivava dalla Bosnia, dalla Bulgaria e dai Balcani, alla fine mi è venuto naturale iniziare a lavorare su queste ritmiche che mi intrigavano molto. Questo incontro ha funzionato da subito e il gioco continua.
Alla realizzazione di “Baluardo” hanno collaborato alcuni ospiti, puoi presentarceli?
Ci sono, innanzitutto, i fratelli Eklan e Redi Hasa, rispettivamente pianista e violoncellista. Redi è un musicista straordinario e suona tantissimo. Lui ha fatto il percorso contrario rispetto al nostro.
Quando questi musicisti arrivarono in Italia dai Balcani, quasi non avevano voglia di suonare le cose della loro tradizione, e volevano suonare il jazz e fare altre cose, dopo essere stati tanti anni sotto la sferza oscurantista del comunismo. C’è voluto un po’ per convincerli, ma alla fine è ci siamo riusciti. La ricerca e la sperimentazione in ambito jazz unita alla tradizione balkan e a quella nostra del Salento, ha dato vita ad un interscambio straordinario. Noi abbiamo imparato bene la musica balkan e loro il jazz, cosicchè è venuto fuori un balkan jazz progressive, molto acido e promettente… Poi, c’è Rachele Andrioli che non aveva mai cantato con Opa Cupa. Lei ha duettato con la nostra cantante Irene nella nostra versione di “Ferma Zitella”, un brano della tradizione salentina proposto con un tiro assolutamente diverso. Ed ancora le voci di Cristoforo Micheli e Alan Wurzburger, nonché altri eccellenti strumentisti.
Oltre alla già citata “You Know I’m Not Good” di Emy Winehouse, e il tradizionale “Ferma Zitella”, sono presenti anche altre riletture soprattutto dal repertorio balkan. Come avete scelto questi brani?
La scelta dei brani è stata del tutto casuale, perché spesso mi sono stati chiesti per altri lavori e ho cominciato a lavorarci, e poi in seguito ho creato versioni particolari per il nostro repertorio dal vivo. Così è stato naturale inserirli nel disco.
Tra le composizioni originali meritano una citazione “Lo Zio è Pazzo” e la title-track, ma soprattutto la splendida “Pompei” in cui incontrate i ritmi della tradizione campana…
Ogni brano si inserisce perfettamente nel discorso iniziale, è il caso di “Lo Zio è Pazzo”, di “Baluardo”, e anche di “Pompei”, il cui testo è stato scritto in parte dalla nostra cantante preferita, Irene Lungo. Lei è campana e voleva raccontare il problema delle discariche e delle conseguenze che sono derivate sulla delirante crisi dei rifiuti, partendo anche da questioni prettamente personali. Mi ha colpito terribilmente ascoltare in uno dei programmi scientifici notturni che l’Unesco consigliava all’Italia di seppellire nuovamente Pompei per proteggerla, dopo l’ennesimo crollo. Questa cosa assurda mi ha fatto prima sorridere e poi arrabbiare, perché se in Italia dobbiamo ricoprire un sito archeologico più importante del pianeta in quanto non riusciamo a salvarlo, siamo arrivati veramente alla fine. E con questo ritorniamo dritti al concerto di “Baluardo”. Noi vorremmo che le cose girassero in altro modo, venissero curati questi siti e valorizzati per dare posti di lavoro, anche per superare la crisi economica. Invece continuiamo ad assistere a questi spettacoli di una classe politica, arrivata ormai al ridicolo.
Sul finale arriva poi uno dei brani più esplosivi del disco, la divertente “Viva La Rai”…
E’ un gioco tutto nostro, perché nel brano c’è una parte del ritornello in cui sembra venire naturale cantarci “Viva La Rai”…
Concludendo, come sarà “Baluardo” dal vivo?
I concerti di “Baluardo” saranno molto divertenti, è uno spettacolo da seguire in scarpe da ginnastica e ballare, ma è adatto anche per gli ascoltatori più raffinati a cui piace il jazz, e l’improvvisazione. Ci saranno momenti in cui sembrerà di ascoltare una band jazz degli anni ottanta, e altri in cui sembrerà di stare in piazza a Tirana a fare un festone balkan come si deve. La nostra potenza è questa: i suoni di festa del sud Italia con le melodie bandische insieme alle suggestioni balkan e al jazz.
Salvatore Esposito
Opa Cupa - Baluardo (11/8 Records, 2015)
CONSIGLIATO BLOGFOOLK!!!
Leggendo le note stampa che hanno accompagnato l’uscita di “Baluardo”, il nuovo album degli Opa Cupa, si incontrano immagini e riferimenti pregni di idee, vocazioni, culture. In un passo in particolare si dice “Baluardo è un acuto riflettere del suono sulla bellezza dell’arte nella sua massima espressione di libertà e creatività, svincolata dagli schemi del clientelismo politico che ammanetta la musica”. In un certo senso è quello che vorremmo sempre ascoltare: la traslazione in musica di un progetto e di una visione che tirano dentro, oltre la rappresentazione artistica, la politica, le espressioni più coerenti con la vita vissuta. Espressioni popolari e contemporanee, colte, vive: insomma le espressioni che parlano, che significano e che non si innervano solo intorno a un raccontare, cioè a una cronaca posticcia delle idee o degli accadimenti. Mi sembra che la formazione salentina ci sia molto vicino: “Baluardo” è un segno netto su un volto multiforme che innanzitutto guarda all’area salentina da dentro, e non da sopra, evitando così di contribuire a cristallizzarne i suoni e, in generale, l’immagine. Un volto che guarda - come sappiamo, perché così ci ha abituato Opa Cupa, attraverso la sua storia musicale e discografica (questo è il quarto album) - sempre, e con attenzione critica, intorno. Certamente all’area balcanica - nel solco della tradizione della band, con la preminenza dei fiati e dei venti ritmici e melodici del fronte opposto al Salento adriatico - e alle voci che si affacciano, da prospettive diverse, sul Mediterraneo. Di qui la compresenza di tutti i soggetti e gli elementi che definiscono il suono dell’album: il nervo dei fiati, con Cesare Dell’Anna (fondatore e fulcro creativo dell’ensemble) a orientarne il peso e le forme, che rimbalzano tra il “balcanismo” balcanico/italiano e il “bandismo” italiano (specie del sud), ma anche la strutturazione di una narrazione ritmica cadenzata e sempre lucida, affidata a batteria, percussioni e basso. Poi un insieme di elementi che puntellano - sul piano armonico, ma anche riverberandone il “carattere” multiforme - tutti i diciassette brani di cui è composto l’album. I vari riflessi sono riconducibili anche ai soggetti che rendono espanso il nucleo della band, determinandone un profilo sempre diverso, sempre in evoluzione. Perché se, come detto, i fiati possono essere considerati come la marca, come la matrice, il resto si configura come un insieme di elementi indissolubilmente legati a questi. Anzi, sia gli uni che gli altri assumono il carattere compiuto che determina la successione delle tracce in un quadro di relazioni reciproche. In questo senso possiamo leggere le voci stupende di Rachele Andrioli e di Irene Longo, così come la fisarmonica di Rocco Nigro e il violoncello di Redi Hasa. Oppure l’elaborazione di “You know I’m no good” di Amy Winehouse, che ci ammanta come una rivelazione, prima nel breve prologo disteso dei fiati, e dopo nell’andamento deciso (ancorché delicato) che sorregge la linea melodica della tromba. La divergenza in questo caso è irriducibile ma trascinante, perché il brano è come un accenno composto e fuori da ogni facile retorica alla magnificenza e alla crudezza della voce di Amy. “Viva la Rai”, scritta da Nigro e Dell’Anna, succhia il succo di reminiscenze bandistiche più tradizionali, lasciando emergere una piacevole irriverenza nella forma e nell’andamento. Ma uno dei brani più interessanti è “Ferma zitella” - un “classico”, oltre che un baluardo della tradizione musicale salentina, sul quale si sono cimentate diverse formazioni, con risultati alterni - cantato da Rachele Andrioli. Il motivo è ben riconoscibile, anche se più disteso e intenso. E, sopratutto, proposto, nella seconda parte del brano, attraverso soluzioni armoniche interessanti e vagamente mimetiche. La struttura melodica e ritmica - che rappresenta la parte più originale della rielaborazione - è sostenuta da batteria, chitarra e basso, rafforzati da un interessante fraseggio reiterato di fisarmonica. Le parti musicali sono da ascoltare con attenzione, perché gli strumenti si susseguono e si incastrano con delicatezza ed equilibrio, a volte percorrendo la linea melodica del canto, altre sviluppando fraseggi originali e inaspettati.
Leggendo le note stampa che hanno accompagnato l’uscita di “Baluardo”, il nuovo album degli Opa Cupa, si incontrano immagini e riferimenti pregni di idee, vocazioni, culture. In un passo in particolare si dice “Baluardo è un acuto riflettere del suono sulla bellezza dell’arte nella sua massima espressione di libertà e creatività, svincolata dagli schemi del clientelismo politico che ammanetta la musica”. In un certo senso è quello che vorremmo sempre ascoltare: la traslazione in musica di un progetto e di una visione che tirano dentro, oltre la rappresentazione artistica, la politica, le espressioni più coerenti con la vita vissuta. Espressioni popolari e contemporanee, colte, vive: insomma le espressioni che parlano, che significano e che non si innervano solo intorno a un raccontare, cioè a una cronaca posticcia delle idee o degli accadimenti. Mi sembra che la formazione salentina ci sia molto vicino: “Baluardo” è un segno netto su un volto multiforme che innanzitutto guarda all’area salentina da dentro, e non da sopra, evitando così di contribuire a cristallizzarne i suoni e, in generale, l’immagine. Un volto che guarda - come sappiamo, perché così ci ha abituato Opa Cupa, attraverso la sua storia musicale e discografica (questo è il quarto album) - sempre, e con attenzione critica, intorno. Certamente all’area balcanica - nel solco della tradizione della band, con la preminenza dei fiati e dei venti ritmici e melodici del fronte opposto al Salento adriatico - e alle voci che si affacciano, da prospettive diverse, sul Mediterraneo. Di qui la compresenza di tutti i soggetti e gli elementi che definiscono il suono dell’album: il nervo dei fiati, con Cesare Dell’Anna (fondatore e fulcro creativo dell’ensemble) a orientarne il peso e le forme, che rimbalzano tra il “balcanismo” balcanico/italiano e il “bandismo” italiano (specie del sud), ma anche la strutturazione di una narrazione ritmica cadenzata e sempre lucida, affidata a batteria, percussioni e basso. Poi un insieme di elementi che puntellano - sul piano armonico, ma anche riverberandone il “carattere” multiforme - tutti i diciassette brani di cui è composto l’album. I vari riflessi sono riconducibili anche ai soggetti che rendono espanso il nucleo della band, determinandone un profilo sempre diverso, sempre in evoluzione. Perché se, come detto, i fiati possono essere considerati come la marca, come la matrice, il resto si configura come un insieme di elementi indissolubilmente legati a questi. Anzi, sia gli uni che gli altri assumono il carattere compiuto che determina la successione delle tracce in un quadro di relazioni reciproche. In questo senso possiamo leggere le voci stupende di Rachele Andrioli e di Irene Longo, così come la fisarmonica di Rocco Nigro e il violoncello di Redi Hasa. Oppure l’elaborazione di “You know I’m no good” di Amy Winehouse, che ci ammanta come una rivelazione, prima nel breve prologo disteso dei fiati, e dopo nell’andamento deciso (ancorché delicato) che sorregge la linea melodica della tromba. La divergenza in questo caso è irriducibile ma trascinante, perché il brano è come un accenno composto e fuori da ogni facile retorica alla magnificenza e alla crudezza della voce di Amy. “Viva la Rai”, scritta da Nigro e Dell’Anna, succhia il succo di reminiscenze bandistiche più tradizionali, lasciando emergere una piacevole irriverenza nella forma e nell’andamento. Ma uno dei brani più interessanti è “Ferma zitella” - un “classico”, oltre che un baluardo della tradizione musicale salentina, sul quale si sono cimentate diverse formazioni, con risultati alterni - cantato da Rachele Andrioli. Il motivo è ben riconoscibile, anche se più disteso e intenso. E, sopratutto, proposto, nella seconda parte del brano, attraverso soluzioni armoniche interessanti e vagamente mimetiche. La struttura melodica e ritmica - che rappresenta la parte più originale della rielaborazione - è sostenuta da batteria, chitarra e basso, rafforzati da un interessante fraseggio reiterato di fisarmonica. Le parti musicali sono da ascoltare con attenzione, perché gli strumenti si susseguono e si incastrano con delicatezza ed equilibrio, a volte percorrendo la linea melodica del canto, altre sviluppando fraseggi originali e inaspettati.
Daniele Cestellini
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