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Tamburi della vita, tamburi per la vita. Alfio Antico ritorna con il nuovo disco, “Antico”
«Se un tamburo sento che ha la pelle stanca, ci cambio la pelle per ottenere un suono nuovo», mi ha raccontato una volta Alfio Antico. È la metafora della pulsione creativa dell’artista lentinese, la cui mano danza sulla pelle dei tamburi. Da qualche tempo, Alfio pensava di «aprire la finestra» per ritornare all’essenza di “Anima ‘ngiugnosa”, il disco che sedici anni fa segnò il suo rientro sulla scena musicale, dopo il lungo silenzio che aveva seguito i fasti di Musicanova, il suo incontro con maestri del teatro e della danza. Il ritorno del poeta dei tamburi a cornice non deve passare inosservato; l’intima comunione con i suoi strumenti, di cui è anche costruttore – «Il tamburo è Alfio e Alfio è il tamburo: siamo insieme» dice – è la cifra di un musicista non cristallizzato, non incastonabile nel cliché folk revivalistico, né tantomeno riducibile alla ‘spontaneità’ e alla ‘genuinità’, che obliterano la sua consapevolezza, la profondità della sua ricerca sul senso del ritmo, sul gesto, sul legame tra voce e battito. Ebbene, non è un vestito stretto, non è un vincolo quello che domina questa sua nuova opera, “Antico”, ammantata di elettronica e di sound design costruiti intorno all’anima ‘ngegnusa di Alfio da Colapesce e Mario Conte. Le coordinate sono quelle del viaggio interiore di Alfio, che è fatto di silenzi e di esplosioni, di pelli percosse con maestria, che si confrontano con la sua voce viscerale e dirompente, sussurrante e urlante, mantrica e declamante: comunque libera.
Alfio scava nella sua memoria, che è quella della sua terra nativa, si alimenta al respiro di storie, riti e favole della materialità del mondo agro-pastorale di Sicilia, in cui è vissuto fino a diciotto anni: «Il mondo che mi appartiene, da cui non riesco a staccarmi: più sparisce e più mi lega», mi raccontava un paio di anni fa a Loano, dove era andato a ritirare il riconoscimento alla carriera del Premio Nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nell’entroterra siracusano da cui proviene, Alfio ha conosciuto il tamburo da adolescente, quando la nonna materna lo suonava per scacciare il male. Fu lei a spiegargli che il tamburo urla e serve ad allontanare la paura della solitudine vissuta accanto alle greggi. Già a undici anni è un bravo suonatore di stile alla siciliana, «che è un ritmo a quattro dita, molto aperto, gioioso, signorile». A diciotto anni lascia il mondo di durezze isolane per il continente, e approda a Firenze. È nota la vicenda dell’incontro fortuito con Eugenio Bennato, che ne comprende la grandezza. Da lì, l’avventura con Musicanova. Andatevi a riascoltare quel capolavoro che è “Tempo di Vendemmia”, inciso in “Quanno Turnammo a nascere”, per comprendere il senso supremo di un tamburo che sta pienamente nel pezzo in accordo gli altri strumentisti, ma che sa essere anche voce solista, in un assolo che non è pratica fine a se stessa. Ancora, ascoltate un brano più recente, “Risacca di mare”, dove Alfio con la magia del tamburo materializza la sinfonia dell’acqua. Nello spettacolo teatrale “Jurnata”, così descrive i suoi strumenti: «Il tamburo è la voce del mondo, il ritmo della nascita e della morte, della festa e del lavoro: attraverso l’unione di un setaccio per il grano e la pelle di un animale morto si celebra ancora una volta il miracolo della comunicazione tra il visibile e l’invisibile». Musicanova gli aveva dato tanto, ma a un certo punto se ne dovette andare per capire chi fosse: era diventato – mi racconta – «Alfio Antico, il napoletano», lui che era originario delle colline del siracusano. L’elenco dei musicisti con cui ha lavorato è lungo: Dalla, De André, Capossela, Consoli, per citarne alcuni. Non meno importanti i contatti e le collaborazioni con artisti di teatro: De Simone, Barra, Albertazzi, Piccolo, ma, soprattutto, ricorda Alfio, lo Scaparro di “Vita di Galileo”, «con cui ho cominciato a capire lo studio del tamburo, del suono. Un passaggio che mi ha ingrandito sul piano ritmico».
Più di recente ha collaborato con Wim Wenders e Philippe Claudel. Ritornando ai ‘glory days’ degli anni Ottanta e dei primi Novanta, il successo lo aveva in un certo senso sradicato: «Mi sentii quasi violentato: avevo abbandonato gli animali per andare in giro per il mondo, che non avevo mai visto. Dopo dieci anni ritornai sui miei passi». La sua riapparizione discografica è del 2000 con “Anima ‘ngignusa”, cui seguono album che lo portano a dialogare con la dimensione modale della musica antica (“Supramari”, 2002), a incrociare suoni dell’alveo mediterraneo (“Viaggio in Sicilia”, 2005); la sua potenza live trova cornice prestigiosa nel concerto registrato nella Cappella Paolina del Quirinale (“Antichi ritmi e nuovi suoni dall’Italia meridionale”, 2007), per giungere al capitolo in cui l’autore Alfio si avvicina alla forma canzone con la premurosa complicità di Carmen Consoli (“Guten Morgen”, 2011). Ora è la volta del nuovo lavoro in studio del percussionista, “Antico”, album in cui parole e la vibrazione dei tamburi si intrecciano con chitarre ed elettronica, che si limitano ad ornare la pienezza di un artista che forgia il suono. Come incipit, leggiamo dalle note del disco: «Vi racconto la verità: ero piccolo e dormivo nelle grotte con il tamburo scrivevo le mie canzoni e quando d’inverno il freddo mi tagliava con il tamburo la mia testa si riparava dentro le grotte della terra mia e il tamburo mi abbracciava e mi addormentava». Il disco non è stato registrato in studio, ma uno studio mobile è stato portato a Gangi, in una casa-agriturismo di campagna, dove abita Totò Lo Vecchio, storico amico di Alfio. Dalla voce stessa di Alfio, ascoltiamo il resto del racconto del suono nuovo corso.
Dal Mediterraneo agli echi medievali, passando per i duetti con signore della canzone italiana, come si arriva alla poetica di “Antico”, che segna l’inizio di nuova rotta?
Tutta la mia carriera è qualcosa di nuovo, mi diverto a scoprire nuovi suoni e nuove sensazioni, ma questo senza mai dimenticare l’origine, cioè quello che sono e da dove vengo.
Di fatti, su tutto si erge il rapporto intimo con la natura della terra di Sicilia. Come riesci ancora a tessere questo filo con l’isola, per uno come te che ne vive lontano da 30 anni?
Sì, vivo a Ferrara, è vero, ma scendo quasi sempre in Sicilia per lavoro e per mio piacere personale. In ogni caso, la mia terra mi parla, è dentro di me, io ragiono da siciliano, uomo dell’entroterra siracusano. La Sicilia è sempre con me, anche quando sono lontano. Basta ascoltare le mie canzoni e vedere quello che faccio sul palco.
Quanta malinconia c’è?
Ferrara è bella, lo dico senza problemi, altrimenti non sarei rimasto qua. Vivo con la mia famiglia vicino al fiume Po e, come ho già detto in passato, le mie canzoni si sviluppano qua, pensando alla mia terra. Quindi se vogliamo la dose di malinconia è questa, ma non sono un malinconico nel vero senso della parola. Quando posso scendo anche per immergermi nel mio mondo, il mio clima, fatto di venditori ambulanti con le loro voci durante il mercato. Insomma, la Sicilia la vivo, non è distante.
Cosa è la Sicilia di oggi per Alfio Antico?
Una terra magica, spero solo non perda il sorriso e la sua festosità. Dovremmo tutti fare tre passi indietro per poi guadagnarne dieci in avanti, perché siamo isolani con tanta tanta tanta storia di diverse popolazioni che sono ancora dentro di noi e ho paura che questa vada perduto.
Cos’è l’assolo? Quanto ha giocato l’improvvisazione in questo disco?
L’improvvisazione è sempre importante, è anima. Cos’è l’assolo? Non lo so, lascio agli altri la definizione, io suono senza darmi delle regole scritte: ciò che suono è ciò che sono.
Nell’espressività sonica, qual è la differenza tra un tamburo muto e un tamburo con i sonagli…
Che uno è femmina e uno è maschio. Il tamburo muto è più difficile, per me, da interpretare rispetto a quello con i sonagli: tu lo tocchi, ti fa rumore e suona. Il tamburo muto è solo una cassa e una pelle tirata. Da lì, deve uscire un linguaggio, un’armonia, un linguaggio. Come un pittore che magari nella sua testa ha un’immagine e dipinge, Col tamburo improvvisai la risacca di mare, mi giocai il trillato per descrivere l’onda che sbatte sugli scogli e ‘s’infizza’ nei buchi, e ti fa quel rumore come quando stappi una bottiglia di vino e la versi. Poi l’onda che si distende quando arriva a terra.
Sappiamo che costruisci ancora i tamburi e che c’è un tamburo costruito quando avevi 15 anni che ancora utilizzi. Com’è cambiata la costruzione: come costruisce oggi i suoi tamburi Alfio Antico?
Sì, il tamburo ce l’ho ancora, lo faccio uscire poco a dire il vero. Eravate davvero convinti vi dicessi come costruisco i tamburi? (ridendo). In ogni caso è come fare un figlio per me, dove non sono mai uguali, ma si somigliano tra loro.
Che tamburi ha utilizzato per questo disco?
I più belli, quelli che non avevo mai utilizzato. Insomma, sono tamburi nuovi.
Da didatta, cosa deve fare un allievo quando inizia a suonare un tamburo a cornice?
Lo deve osservare, batterlo piano piano… per scoprirlo.
Quali sono le procedure compositive con cui sono nati i brani di “Antico?
Attorno ad una tavola, mangiando insieme peperoncini piccanti con l’acciuga dentro, verdura di stagione con timo, sale grosso e olio fatto in casa. Ecco, lì ci siamo incontrati…
Uno dei brani più avvincenti è Storii di pisci. Com’è nato?
È un ricordo di quando ero bambino: quando ero nel mio paese un ambulante pagato dai venditori di pesce, si rivendeva il pesce usando un linguaggio metaforico a doppio senso, ma sempre nel rispetto della natura, comunicando la diversità di pesci che aveva con sé. È una canzone alla quale ho lavorato parecchio, mio figlio era piccolo quando avevo iniziato a ragionarci e ora ha quasi 24 anni.
Un altro brano emblematico è “Anima”…
Era il 1979, un tassista voleva 60 mila lira per la tratta Catania-Lentini alle due di notte, allora io scelsi di farmela a piedi. Mi sono goduto il paesaggio e mi sentivo l’anima della tarda notte e della primissima mattinata.
E chi incontriamo in “Ma Guarda Guarda”?
Parlo di persone fasulle, malate di megalomania, che si comportano da benpensanti e da cultori di tutto, quando in realtà non capiscono niente e non amano nulla per davvero.
Sono storie che mi appassionano, perché comunicano la loro merce senza nessuna violenza, con molta dolcezza, è come se per ogni prodotto da vendere ci fosse un’intonazione differente. Questi sono i ricordi di quando ero ragazzo.
Si può dire che “Diceva ma matri” chiude il cerchio della memoria aperto da “Tra li Muntagni”?
Non si chiude mai nulla, continuo sempre ad immettere cose nuove.
“Antico” sarà portato in scena?
Dopo gli store digitali, è appena uscito anche il CD fisico e il vinile. Sì, stiamo preparando un tour con Mario Conte e Lorenzo "Colapesce" Urciullo.
Alfio Antico - Antico (Origine Records/Believe Digital Italia, 2016)
Difficile collocare – vivaddio – un album come “Antico”: che venga da lontano è chiaro fin dalla fascinazione sinistra dell’apertura di “Tra li muntagni” dove, tra effetti e suoni d’ambiente, pelli e sonagli si confrontano con la voce che evoca ricordi di una giovinezza trascorsa accanto alle greggi. L’essenza intima della voce, che è canto ora sommesso ora urlato in cui risaltano gli armonici; canto che è litania, è spoken word dalla potenza teatrale, ragiona con i ritmi inarrestabili dei tamburi, s’incrocia con le trame del sound design (effetti, loop, synth, stomp-box, chitarre) costruito dai due musicisti e produttori Lorenzo Urciullo (artisticamente noto come Colapesce) e Mario Conte. Anche “Storii di pisci” arriva dal passato, un brano notevole, riconducibile alla tradizione sonora delle grida dei venditori ambulanti (quella del pescivendolo, d’altra parte, è una figura presente nella cultura popolare, con il suo armamentario di doppi sensi ), con un crescendo costruito su un ritmo percussivo ossessivo condito da una cornice elettronica. Dunque, siamo lontani dall’estetica dei dischi precedenti: via la patina barocca, i sapori etnici, i canoni medievali, l’idea di world music, l’ostinata ricerca sonora di Alfio raggiunge una forza comunicativa singolare. “Anima” è un viaggio emozionale, sempre pieno di tensione, nel paesaggio sonoro siracusano di pressappoco trentacinque anni fa. “Venditori ambulanti” (che è anche un video, diretto da Michele Bernardi) procede caracollante, nella voce e nel ritmo, seguendo l’andatura fonica fatta di picchi e di passaggi calanti del mercante girovago. Per “Pirchì”, registrata in esterno (con tanto di asino ragliante) e con una costruzione iterativa, lasciamo la parola ai produttori: «Nelle intenzioni di produzione abbiamo cercato di partire dalla matrice pura e arcaica della performance tamburo/voce di Alfio per poi rielaborare il materiale con un trattamento di sound design e arrangiamenti minimali per chitarra e sintetizzatore, talvolta strutturando dei brani più vicini alla forma canzone, talvolta destrutturando le performance di Alfio, sempre con sonorità elettriche o elettroniche ma di matrice ‘organica’, ‘materiale’». Invece “Lu vermi” è un racconto popolare che segue la struttura della tenzone, animata da un potente tamburo a cornice muto. In “La rosa”, in un’atmosfera animata da chitarre sognanti si prende la rivincita la delicatezza della forma canzone, della serenata. Recitativo su base di tamburo nella sferzata ai benpensanti di “Ma Guarda Guarda”. Con “Indovinelli” e la delicata “Ninna nanna del caprone”, Alfio ritorna a linee melodiche e armonizzazioni che ci riconducono nell’alveo della musica tradizionale. Nel commiato “Diceva me matri”, su una linea percussiva incessante, la voce ci riporta all’Alfio adolescente, che è scappato per non andare a scuola. Dove sarà? Per saperlo, bisogna chiederlo al vento…
Ciro De Rosa
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