Se è vero che la maggiore età porta con sé disegni e propositi per il futuro, invece per il festival internazionale di musica etnica Ethnos, con due decenni di vita (tutto iniziò a Ercolano nel 1995 grazie alla cooperativa La Bazzarra, nella persona del ‘timoniere’ Gigi Di Luca), è piuttosto il tempo di un consuntivo, che più che chiamare in causa scelte artistiche ed estetiche, quasi sempre di grande impatto emotivo e qualitativo in questi quattro lustri (per un elenco completo rinviamo al bel catalogo di scatti d’autore, pubblicato per celebrare il ventennale), può diventare terreno di analisi delle politiche culturali nell’area metropolitana di Napoli, perché sono le istituzioni pubbliche locali (quindi noi contribuenti) a foraggiare la maggior parte delle rassegne musicali. Tuttavia, più che aprire l’ennesimo ‘cahiers de doléances’ o formulare sentenze, si vuole sollecitare una discussione, che accoglieremo volentieri sulle ‘pagine’ di “Blogfoolk”. Il vostro cronista vuol partire da qui, prima di provare ad addentrarsi nel ricco cartellone di concerti, e non solo, che ha reso assai rilevante la XX edizione di Ethnos, finanziata dalla Regione Campania e dalle amministrazioni locali di alcune cittadine vesuviane (Ercolano, Boscotrecase, Somma Vesuviana, Boscoreale, Torre del Greco, San Sebastiano al Vesuvio, Castellammare di Stabia), con capofila del progetto il Comune di San Giorgio a Cremano. La rassegna è stata ospitata in luoghi davvero unici per interesse storico e architettonico. Parliamo delle ville vesuviane, di residenze aristocratiche del Miglio D’Oro che si spinge fino alle propaggini della penisola sorrentina.
Dunque, eccoci a parlare delle istituzioni, che quest’anno hanno aperto i cordoni della borsa, contrariamente a quanto hanno fatto spesso negli ultimi anni, complice la crisi economica, rendendo ondivaghe e tormentate le ultime edizioni della rassegna. Ma dietro la miopia culturale che non riconosce l’unicità di una proposta culturale si nascondono anche altre motivazioni. Chissà, forse in una data stagione erano altri i ‘clientes’ da favorire o magari l’operatore culturale in questione era troppo legato a quel politico non più al governo della città, o ancora quell’anno il jazz era più cool dell’etnico (ah, le categorie, i generi…). Insomma, parliamo della Campania, ma potremmo essere in qualsiasi altra regione italiana. Cosicché non è inesatto ciò che Di Luca scrive nella presentazione di Ethnos 2015: «Sembrava che ogni anno si dovesse iniziare tutto da capo». Esatto, ogni anno si è ripartiti daccapo, senza programmazioni di lungo respiro, senza un insieme di operatori seduti a un tavolo per pensare un grande festival world, tanto per lanciare un’idea che troverebbe in Napoli e aree limitrofe uno scenario unico (eppure se ne era parlato almeno dieci anni fa). Né dimentichiamo che le delibere tardano, determinando serie difficoltà nel comporre per tempo un cartellone. Non si pensa per nulla che la presenza di certi artisti o di un’articolata proposta musicale può determinare anche flussi di turismo culturale: pensiamo a Umbria jazz o a I Suoni delle Dolomiti. E se guardiamo all’estero, l’oggi rinomato festival di musica sacra di Fès, come mi raccontava tempo addietro Simon Broughton, direttore responsabile di “Songlines”, è stato creato per coprire un periodo dell’anno poco propizio al turismo nella storica città imperiale marocchina.
D’altra parte, ci si chiede se sia stato fatto di tutto per radicare Ethnos nel territorio (certo al festival, di tanto in tanto, si sono affiancati progetti interculturali nelle scuole e altre iniziative a carattere sociale), intercettando fasce più ampie di pubblico – uno zoccolo duro di frequentatori appassionati è stato costruito, ma sussiste sempre un scarto tra concerti mediaticamente forti e artisti meno noti – costruendo intorno al festival una sinergia di cultori, studiosi, e perché no, musicisti, della ‘provincia sonante della metropoli’ (per dirla con le parole di Girolamo De Simone, compositore e agitatore culturale originario dell’area vesuviana) che l’idea di un festival come Ethnos la potrebbero sostenere e sedimentare ancora di più come patrimonio collettivo. Ancora, mi chiedo se sia mai stata tentata la strada del gemellaggio con festival italiani e internazionali per dare forma a un network di manifestazioni di matrice world. Concepito sin dagli inizi come festival itinerante, Ethnos ha valorizzato siti unici della provincia vesuviana come della metropoli capoluogo, ma è vero pure che spesso queste ‘aperture’ di luoghi prima inaccessibili, sono state dettate dall’agenda politica del Comune di Napoli e non sempre si è trattato di scelte vincenti sul piano logistico, così come per gli slittamenti temporali della manifestazione nell’arco dell’estate (e che dire, poi, del fallimento del Forum delle Culture, per il quale avremmo voluto un Ethnos tutto l’anno?). È tempo, adesso, di parlare del cartellone 2015 di concerti tutti gratuiti, non accomunati da un filo rosso tematico, per un festival reso coeso da proposte di elevato rango artistico.
Quasi due settimane fitte di appuntamenti musicali, ma anche ricco di visite guidate e di eventi in siti incantevoli. Su quest’aspetto, appare inutile alimentare polemiche sull’atto generativo o su paternità varie che pure si leggono sui social media. In Italia abbiamo la possibilità di valorizzare il patrimonio artistico-culturale e paesaggistico anche ospitando concerti o portando le persone in luoghi inusitati: ben venga tutto questo, nel rispetto dei luoghi e con una fruizione adeguata. È così da anni ovunque nella Penisola. Quest’anno il festival ha toccato Napoli solo per l’anteprima. Al Teatro Mercadante (10 settembre) è andata in scena la Bollywood Masala Orchestra. Festosa ed esotica – inevitabilmente – la band indiana, che si muove tra richiami tradizionali e modernità delle colonen sonore dell’industria cinematografica indiana, ha allietato una serata appesantita dall’autoreferenzialità di un Festival che celebrava sé stesso. Da qui, Ethnos è partito con itinerari e visite teatralizzate lungo i sentieri del Parco Nazionale del Vesuvio, nell’Antiquarium di Boscoreale. Percorsi che hanno toccato chiese, ipogei, scavi archeologici, antichi palazzi e parchi lungo il Miglio D’Oro e le pendici del vulcano. Con ottimo riscontro di pubblico (le visite erano a numero chiuso, naturalmente). Insomma, una rivelazione per molti, che si è affiancata alla scoperta di musiche e suoni del mondo. Parlando di musica, suggestioni sono arrivate dal duo Tapa Ruja (Martina Lupi e Fabio Gagliardi) e dai Synaulia, il singolare gruppo di archeologia musicale, che è insieme performance musicale-teatrale e didattica su strumenti arcaici ricostruiti, creato da Walter Maioli.
L’esuberanza dionisiaca di Marcello Colasurdo, con la sua paranza che cercava di tenere il passo del vulcanico cantatore, si è manifestata lungo il sentiero del ‘trenino a cremagliera’ a San Sebastiano al Vesuvio. C’è stato tutto il mestiere di artisti maturi e navigati negli spettacoli acchiappa-pubblico di Acquaragia Drom (già visti in passato a Ethnos e quest’anno di scena a Boscotrecase con il loro funambolismo sonoro e l’incursione di ‘O Lione, che si è unito al gruppo con la sua tammorra) e di Teresa De Sio (anche lei chiamata in causa in altre edizioni quando c’era da riempire la serata con pubblico pagante. Per questa ventesima edizione la cantante, che doveva essere accolta dal suo pubblico a Torre del Greco, nella cornice leopardiana di Villa delle Ginestre, invece ha suonato in un piccolo teatro a causa del maltempo). Al di là dell’indiscutibile valore del gruppo guidato dal polistrumentista Erasmo Treglia e della ‘brigantessa’ folk-rock, crediamo che il panorama italiano trad-world possa offrire altro di più attuale: bastava scorrere almeno i dieci dischi votati per il Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana. Oppure ci sarebbe piaciuto vedere il riallestimento del “Bella Ciao” con Tesi, Galeazzi, Ledda, Lega e altri artisti ancora, che non è arrivato a Sud di Roma. Ma come si diceva poc’anzi, per poter pianificare, occorre avere certezze su tempi, luoghi e budget. Lo sguardo sul mondo ha portato a Somma Vesuviana, nel cortile di Palazzo Torino (18 settembre), il gruppo Gnawa Bambara del maleem Abdenbi El Gadari, suonatore di g’mbri, il liuto-tamburo a tre corde dalla cassa di legno piriforme ricoperta da pelle animale, e del grosso tamburo a doppia membrana t-bel.
Il maestro di cerimonia è stato accompagnato al canto, alla danza e alle nacchere metalliche qaraqeb dal figlio Hicham El-Gadari e da Abdelkrim Mezzar e Soufiane Elbazar. La pratica coreutico-musicale-terapeutica gnawa portata sul palco, se da un lato perde quella complessa e polisemica connotazione rituale che è intima e collettiva al contempo, dall’altro conserva la sua corporeità, la sua mutevolezza, la sua indeterminatezza ritmica (che porta a volte a non riuscire a riconoscere se siamo di fronte a un tempo ternario o un binario). I Gnawa Bambara sono propugnatori di una vertigine sonora di cui abbiamo avuto ampio saggio nel concerto sommese. I musicisti hanno pian piano coinvolto il pubblico, entrato in confidenza con aspetti della musicalità delle confraternite della diaspora sub-sahariana ed esponenti del tasawwuf marocchino, in un incontro (un po’ ampollosamente definito convegno) che ha visto protagonista, tra gli altri, Zine El Abidine Larhfiri, musicista e archivista etnomusicale, studioso impegnato in progetti per la valorizzazione della cultura dell’immigrazione nordafricana. Invece, il Parco sul mare di Villa Favorita a Ercolano ha accolto il quintetto Söndörgö. Per spiegare la loro musica, è doverosa una premessa. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, l’ensemble Vujicsics ha portato all’attenzione del pubblico la musica delle minoranze slave meridionali del territorio magiaro. Filiazione di quella band seminale sono oggi i Söndörgö, non solo perché i tre fratelli Eredics sono figli di Kálmán Eredics, bassista dei Vujicsics, ma perché la formazione di Szentendre, nell’Ungheria centrale, riprende pienamente timbriche ed espressioni musicali delle popolazioni serbe e croate, emigrate in terra ungherese durante l’avanzata ottomana.
L’ensemble a base familiare (gli Eredics sono tre fratelli e un cugino più il quinto componente, Attila Buzás) ha scelto come strumento elettivo il cordofono tambura, nelle sue diverse fogge e dimensioni. Le tambura (dalla tamburica, simile a un mandolino, allo strumento che ha il registro di un basso) fungono da background ritmico, ma anche da pieno orchestrale e da strumento solista. Intorno ruotano, in geometrie variabili, fisarmonica, flauto lungo kaval, hulusi (fiato di origine cinese), tamburo tapan, tromba e sax. La grande inventiva, lo slancio dalle strutture melodiche di base con passaggi improvvisativi e virtuosistici, l’uso di tempi dispari, la forte compartecipazione dei membri, il piglio rock, il repertorio che, attraversando i Balcani, giunge fino alla Macedonia, generano un concerto dalla forte intensità alla quale il pubblico non è restato indifferente, tributando meritati applausi e richieste di ‘encore’. (A proposito, dov’era la stampa locale? Se c’è Bregovic, ecco il paginone sul quotidiano, se ci sono i Söndörgö – e qui va dato merito a Di Luca di averli portati dalle nostre parti – ecco un semplice trafiletto, ma ciò che è peggio non c’è traccia di giornalisti al concerto. Quindi vuol dire che non si documentano non sono curiosi, perché altrimenti avrebbero saputo che il gruppo ungherese ha un notevole live act). Dopo uno stage di danze associate al rebetiko, il parco di Villa Vannucchi a San Giorgio a Cremano (domenica 20) ha ospitato i greco-italiani Evì Evàn, partecipe il sempre magnifico Moni Ovadia: per l’occasione cantante, affabulatore e ballerino.
Insomma, una serata all’insegna di quel crocevia di sedimentazioni musicali e di incroci di popoli riscontrabili nella modernità urbana del rebetiko e nella musicalità della diaspora ebraica. Un altro luogo eccezionale, la Reggia di Quisisana, a Castellammare di Stabia, ha accolto il quartetto tuvano Huun Huur Tu. Sono musicisti di grande esperienza, capaci di evocare nello spettatore i paesaggi delle steppe dell’Asia Centrale. La loro musica, ascrivibile all’area mongola, adotta tecniche di canto diplofonico (khöömei), in cui com’è noto alla nota fissa di bordone sono affiancati suoni armonici che disegnano la linea melodica con passaggi davvero ammirevoli. È il caso del ‘sygyt’, che è il canto sul registro alto che ci fa ascoltare qualcosa di simile a un flauto, o del modulo più narrativo dal bordone grave. Tutto ciò a imitazione dei suoni della natura, richiamati dai timbri ora cavernosi ora acuti e penetranti, per condurci in un mondo epico di storie, pratiche e vestigia di società nomadi. L’accompagnamento strumentale lo forniscono khomuz (scacciapensieri), igil e marinhuur (cordofoni ad arco), doshpuluur (liuto a due corde), libri (flauto), bizaanzhi (la cosiddetta arpa degli ebrei), dazahhaning khavi (percussion), dünggür (tamburo a doppia membrana) con l’aggiunta della chitarra in un paio di brani. Naturale che il pubblico abbia tributato a Kaigal-ool Khovalyg, Chanzy Anatoly Kuular, Sayan Bapa e Alexey Saryglar la standing ovation che si riserva a grandi maestri. Il secondo fine settimana di Ethnos ha portato molta Africa subsahariana a Villa Vannucchi. Prima con Bassekou Kouyate con la sua orchestra famiglia (ngoni, ngoni basso, voce, calebasse e tamburi yabara e tama).
Rispetto alla formazione a sette che prevede la dotazioni di altri due ngoni, che accentuano la ricchezza orchestrale, la formazione del maliano si muove con agilità e sobrietà, tra spiritualità tradizionale e chiamata alla convivenza dei popoli del Paese. Sulle trame poliritmiche la voce suadente di Amy Sacko si erge flessuosa, il leader usa effetti e umori bluesy, che portano il suo strumento energicamente nell’alveo rock (nel quale si riconosce il nutrito pubblico che riempie l’arena di San Giorgio), ma si ritaglia anche sequenze di intimità solista evocando quell’’autenticità’ delle origini del blues da cercare in riva al Niger. Sabato 26 è andata in scena “A Sud secondo Movimento”, una partitura teatral-musicale per cinque artisti immigrati e nove attori campani (featuring il percussionista tunisino Marzouk Mejri, il fisarmonicista romeno Costel Luataru e la cantante Antonella Morea) per la regia di Gigi Di Luca (beh, il direttore artistico che entra nel cartellone: succede un po’ troppo spesso in Italia!). Ethnos non poteva che chiudere trionfalmente con la vibrante domenica imperniata sull’asse Mali-Niger. Tartit (che significa unione), gruppo della confederazione Kel Antessar, proveniente dalla regione di Timbouktu, ha portato l’orgoglio e l’appartenenza tamashek, i ritmi e il canto in forma call&response dell’esilio e della vita nomade. In formazione ridotta (canto, tamburo tindé, battito di mani e viella monocorde imzad per le donne, battito di mani e liuto a tre corde tehardent per l’unico esponente maschile dal volto ornato dal tagelmust), ma con il valore aggiunto della chitarra elettrica di Faris.
Con loro ci si immerge in atmosfere estatiche favorite dalla struttura modale dei brani. A fine concerto le donne, membri di un’associazione coinvolta in progetti sociali rivolti al mondo femminile, si autofinanziano vendendo stoffe, abiti e monili in un mercatino improvvisato. Un bell’opening act che ha aperto la via a Goumar Almoctar, il cui ‘stage name’ è “Bombino”. Il chitarrista di Tidane, non lontano da Agadez, cresciuto tra Algeria e Burkina Faso (incontra la chitarra elettrica, come tanti suoi coetanei del mondo tuareg si alimenta al suono di chitarristi rock, da Hendrix a Santana, da Jimmy Page a Mark Knopfler) con due album, e la cura di Dan Auerbach, si è guadagnato stuoli di fan indie-rock e rock-blues, affamati di qualcosa di credibile e di un’autenticità racchiusa in moduli chitarristici che condensano memorie condivise: da un lato il rock e il blues elettrico, dall’altro, per gli avvezzi al suono world, l’incedere minimale che è stato di Ali Farka Touré e l’iterazione dei ritmi saheliani. La sua voce è un po’ nasale e non sempre smagliante – non è cantante potente né è un virtuoso pazzesco – la formazione è quella di una rock band convenzionale (chitarre, basso e batteria), ma è collaudata e gira a pieno regime. La serata si riscalda, la grande luna nella sua imponente rotondità è in alto a illuminare il palco creando un magnifico colpo d’occhio. Gli assolo chitarristici, le canzoni costruite intorno a frasi melodiche semplici e taglianti, perfino laconiche, catturano per l’energia che il musicista tuareg emana.
I primi brani sono suonati in assetto unplugged e intimista: Bombino siede imbracciando la chitarra acustica, accompagnato da basso e percussioni (djembe e calebasse), pochi accordi e voce sussurrata. Poi afferra la Fender Mustang e il groove cresce, trascinando alla grande il pubblico – hipster e maturi frequentatori di eventi culturali – che si alza dalle sedie, si dà alle danze riempendo il front stage, acclamando calorosamente il sorridente bandleader. I brani sono tratti da “Agadez” e “Nomad”; inesorabile è il drumming dell’americano Corey Wilhelm, dà corpo al sound il basso funk-rock del mauritano Djakrave Dia, mentre Illias Mohamed svolge da par suo il lavoro alla chitarra ritmica. Ad un certo punto, i Tartit salgono sul palco, affiancando il quartetto di Bombino, a sancire la coralità culturale tamashek della serata. È mezzanotte quando il chitarrista nigerino, avvolto nel suo abito indaco, lascia il palco dopo un lungo bis; i suoi dischi vanno a ruba, lui, il guitar-hero del deserto, sorriso gentile che mette in mostra la sua umanità, firma autografi. È il lieto fine di un eccellente Ethnos 2015.
Dunque, eccoci a parlare delle istituzioni, che quest’anno hanno aperto i cordoni della borsa, contrariamente a quanto hanno fatto spesso negli ultimi anni, complice la crisi economica, rendendo ondivaghe e tormentate le ultime edizioni della rassegna. Ma dietro la miopia culturale che non riconosce l’unicità di una proposta culturale si nascondono anche altre motivazioni. Chissà, forse in una data stagione erano altri i ‘clientes’ da favorire o magari l’operatore culturale in questione era troppo legato a quel politico non più al governo della città, o ancora quell’anno il jazz era più cool dell’etnico (ah, le categorie, i generi…). Insomma, parliamo della Campania, ma potremmo essere in qualsiasi altra regione italiana. Cosicché non è inesatto ciò che Di Luca scrive nella presentazione di Ethnos 2015: «Sembrava che ogni anno si dovesse iniziare tutto da capo». Esatto, ogni anno si è ripartiti daccapo, senza programmazioni di lungo respiro, senza un insieme di operatori seduti a un tavolo per pensare un grande festival world, tanto per lanciare un’idea che troverebbe in Napoli e aree limitrofe uno scenario unico (eppure se ne era parlato almeno dieci anni fa). Né dimentichiamo che le delibere tardano, determinando serie difficoltà nel comporre per tempo un cartellone. Non si pensa per nulla che la presenza di certi artisti o di un’articolata proposta musicale può determinare anche flussi di turismo culturale: pensiamo a Umbria jazz o a I Suoni delle Dolomiti. E se guardiamo all’estero, l’oggi rinomato festival di musica sacra di Fès, come mi raccontava tempo addietro Simon Broughton, direttore responsabile di “Songlines”, è stato creato per coprire un periodo dell’anno poco propizio al turismo nella storica città imperiale marocchina.
D’altra parte, ci si chiede se sia stato fatto di tutto per radicare Ethnos nel territorio (certo al festival, di tanto in tanto, si sono affiancati progetti interculturali nelle scuole e altre iniziative a carattere sociale), intercettando fasce più ampie di pubblico – uno zoccolo duro di frequentatori appassionati è stato costruito, ma sussiste sempre un scarto tra concerti mediaticamente forti e artisti meno noti – costruendo intorno al festival una sinergia di cultori, studiosi, e perché no, musicisti, della ‘provincia sonante della metropoli’ (per dirla con le parole di Girolamo De Simone, compositore e agitatore culturale originario dell’area vesuviana) che l’idea di un festival come Ethnos la potrebbero sostenere e sedimentare ancora di più come patrimonio collettivo. Ancora, mi chiedo se sia mai stata tentata la strada del gemellaggio con festival italiani e internazionali per dare forma a un network di manifestazioni di matrice world. Concepito sin dagli inizi come festival itinerante, Ethnos ha valorizzato siti unici della provincia vesuviana come della metropoli capoluogo, ma è vero pure che spesso queste ‘aperture’ di luoghi prima inaccessibili, sono state dettate dall’agenda politica del Comune di Napoli e non sempre si è trattato di scelte vincenti sul piano logistico, così come per gli slittamenti temporali della manifestazione nell’arco dell’estate (e che dire, poi, del fallimento del Forum delle Culture, per il quale avremmo voluto un Ethnos tutto l’anno?). È tempo, adesso, di parlare del cartellone 2015 di concerti tutti gratuiti, non accomunati da un filo rosso tematico, per un festival reso coeso da proposte di elevato rango artistico.
Quasi due settimane fitte di appuntamenti musicali, ma anche ricco di visite guidate e di eventi in siti incantevoli. Su quest’aspetto, appare inutile alimentare polemiche sull’atto generativo o su paternità varie che pure si leggono sui social media. In Italia abbiamo la possibilità di valorizzare il patrimonio artistico-culturale e paesaggistico anche ospitando concerti o portando le persone in luoghi inusitati: ben venga tutto questo, nel rispetto dei luoghi e con una fruizione adeguata. È così da anni ovunque nella Penisola. Quest’anno il festival ha toccato Napoli solo per l’anteprima. Al Teatro Mercadante (10 settembre) è andata in scena la Bollywood Masala Orchestra. Festosa ed esotica – inevitabilmente – la band indiana, che si muove tra richiami tradizionali e modernità delle colonen sonore dell’industria cinematografica indiana, ha allietato una serata appesantita dall’autoreferenzialità di un Festival che celebrava sé stesso. Da qui, Ethnos è partito con itinerari e visite teatralizzate lungo i sentieri del Parco Nazionale del Vesuvio, nell’Antiquarium di Boscoreale. Percorsi che hanno toccato chiese, ipogei, scavi archeologici, antichi palazzi e parchi lungo il Miglio D’Oro e le pendici del vulcano. Con ottimo riscontro di pubblico (le visite erano a numero chiuso, naturalmente). Insomma, una rivelazione per molti, che si è affiancata alla scoperta di musiche e suoni del mondo. Parlando di musica, suggestioni sono arrivate dal duo Tapa Ruja (Martina Lupi e Fabio Gagliardi) e dai Synaulia, il singolare gruppo di archeologia musicale, che è insieme performance musicale-teatrale e didattica su strumenti arcaici ricostruiti, creato da Walter Maioli.
L’esuberanza dionisiaca di Marcello Colasurdo, con la sua paranza che cercava di tenere il passo del vulcanico cantatore, si è manifestata lungo il sentiero del ‘trenino a cremagliera’ a San Sebastiano al Vesuvio. C’è stato tutto il mestiere di artisti maturi e navigati negli spettacoli acchiappa-pubblico di Acquaragia Drom (già visti in passato a Ethnos e quest’anno di scena a Boscotrecase con il loro funambolismo sonoro e l’incursione di ‘O Lione, che si è unito al gruppo con la sua tammorra) e di Teresa De Sio (anche lei chiamata in causa in altre edizioni quando c’era da riempire la serata con pubblico pagante. Per questa ventesima edizione la cantante, che doveva essere accolta dal suo pubblico a Torre del Greco, nella cornice leopardiana di Villa delle Ginestre, invece ha suonato in un piccolo teatro a causa del maltempo). Al di là dell’indiscutibile valore del gruppo guidato dal polistrumentista Erasmo Treglia e della ‘brigantessa’ folk-rock, crediamo che il panorama italiano trad-world possa offrire altro di più attuale: bastava scorrere almeno i dieci dischi votati per il Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana. Oppure ci sarebbe piaciuto vedere il riallestimento del “Bella Ciao” con Tesi, Galeazzi, Ledda, Lega e altri artisti ancora, che non è arrivato a Sud di Roma. Ma come si diceva poc’anzi, per poter pianificare, occorre avere certezze su tempi, luoghi e budget. Lo sguardo sul mondo ha portato a Somma Vesuviana, nel cortile di Palazzo Torino (18 settembre), il gruppo Gnawa Bambara del maleem Abdenbi El Gadari, suonatore di g’mbri, il liuto-tamburo a tre corde dalla cassa di legno piriforme ricoperta da pelle animale, e del grosso tamburo a doppia membrana t-bel.
Il maestro di cerimonia è stato accompagnato al canto, alla danza e alle nacchere metalliche qaraqeb dal figlio Hicham El-Gadari e da Abdelkrim Mezzar e Soufiane Elbazar. La pratica coreutico-musicale-terapeutica gnawa portata sul palco, se da un lato perde quella complessa e polisemica connotazione rituale che è intima e collettiva al contempo, dall’altro conserva la sua corporeità, la sua mutevolezza, la sua indeterminatezza ritmica (che porta a volte a non riuscire a riconoscere se siamo di fronte a un tempo ternario o un binario). I Gnawa Bambara sono propugnatori di una vertigine sonora di cui abbiamo avuto ampio saggio nel concerto sommese. I musicisti hanno pian piano coinvolto il pubblico, entrato in confidenza con aspetti della musicalità delle confraternite della diaspora sub-sahariana ed esponenti del tasawwuf marocchino, in un incontro (un po’ ampollosamente definito convegno) che ha visto protagonista, tra gli altri, Zine El Abidine Larhfiri, musicista e archivista etnomusicale, studioso impegnato in progetti per la valorizzazione della cultura dell’immigrazione nordafricana. Invece, il Parco sul mare di Villa Favorita a Ercolano ha accolto il quintetto Söndörgö. Per spiegare la loro musica, è doverosa una premessa. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, l’ensemble Vujicsics ha portato all’attenzione del pubblico la musica delle minoranze slave meridionali del territorio magiaro. Filiazione di quella band seminale sono oggi i Söndörgö, non solo perché i tre fratelli Eredics sono figli di Kálmán Eredics, bassista dei Vujicsics, ma perché la formazione di Szentendre, nell’Ungheria centrale, riprende pienamente timbriche ed espressioni musicali delle popolazioni serbe e croate, emigrate in terra ungherese durante l’avanzata ottomana.
L’ensemble a base familiare (gli Eredics sono tre fratelli e un cugino più il quinto componente, Attila Buzás) ha scelto come strumento elettivo il cordofono tambura, nelle sue diverse fogge e dimensioni. Le tambura (dalla tamburica, simile a un mandolino, allo strumento che ha il registro di un basso) fungono da background ritmico, ma anche da pieno orchestrale e da strumento solista. Intorno ruotano, in geometrie variabili, fisarmonica, flauto lungo kaval, hulusi (fiato di origine cinese), tamburo tapan, tromba e sax. La grande inventiva, lo slancio dalle strutture melodiche di base con passaggi improvvisativi e virtuosistici, l’uso di tempi dispari, la forte compartecipazione dei membri, il piglio rock, il repertorio che, attraversando i Balcani, giunge fino alla Macedonia, generano un concerto dalla forte intensità alla quale il pubblico non è restato indifferente, tributando meritati applausi e richieste di ‘encore’. (A proposito, dov’era la stampa locale? Se c’è Bregovic, ecco il paginone sul quotidiano, se ci sono i Söndörgö – e qui va dato merito a Di Luca di averli portati dalle nostre parti – ecco un semplice trafiletto, ma ciò che è peggio non c’è traccia di giornalisti al concerto. Quindi vuol dire che non si documentano non sono curiosi, perché altrimenti avrebbero saputo che il gruppo ungherese ha un notevole live act). Dopo uno stage di danze associate al rebetiko, il parco di Villa Vannucchi a San Giorgio a Cremano (domenica 20) ha ospitato i greco-italiani Evì Evàn, partecipe il sempre magnifico Moni Ovadia: per l’occasione cantante, affabulatore e ballerino.
Insomma, una serata all’insegna di quel crocevia di sedimentazioni musicali e di incroci di popoli riscontrabili nella modernità urbana del rebetiko e nella musicalità della diaspora ebraica. Un altro luogo eccezionale, la Reggia di Quisisana, a Castellammare di Stabia, ha accolto il quartetto tuvano Huun Huur Tu. Sono musicisti di grande esperienza, capaci di evocare nello spettatore i paesaggi delle steppe dell’Asia Centrale. La loro musica, ascrivibile all’area mongola, adotta tecniche di canto diplofonico (khöömei), in cui com’è noto alla nota fissa di bordone sono affiancati suoni armonici che disegnano la linea melodica con passaggi davvero ammirevoli. È il caso del ‘sygyt’, che è il canto sul registro alto che ci fa ascoltare qualcosa di simile a un flauto, o del modulo più narrativo dal bordone grave. Tutto ciò a imitazione dei suoni della natura, richiamati dai timbri ora cavernosi ora acuti e penetranti, per condurci in un mondo epico di storie, pratiche e vestigia di società nomadi. L’accompagnamento strumentale lo forniscono khomuz (scacciapensieri), igil e marinhuur (cordofoni ad arco), doshpuluur (liuto a due corde), libri (flauto), bizaanzhi (la cosiddetta arpa degli ebrei), dazahhaning khavi (percussion), dünggür (tamburo a doppia membrana) con l’aggiunta della chitarra in un paio di brani. Naturale che il pubblico abbia tributato a Kaigal-ool Khovalyg, Chanzy Anatoly Kuular, Sayan Bapa e Alexey Saryglar la standing ovation che si riserva a grandi maestri. Il secondo fine settimana di Ethnos ha portato molta Africa subsahariana a Villa Vannucchi. Prima con Bassekou Kouyate con la sua orchestra famiglia (ngoni, ngoni basso, voce, calebasse e tamburi yabara e tama).
Rispetto alla formazione a sette che prevede la dotazioni di altri due ngoni, che accentuano la ricchezza orchestrale, la formazione del maliano si muove con agilità e sobrietà, tra spiritualità tradizionale e chiamata alla convivenza dei popoli del Paese. Sulle trame poliritmiche la voce suadente di Amy Sacko si erge flessuosa, il leader usa effetti e umori bluesy, che portano il suo strumento energicamente nell’alveo rock (nel quale si riconosce il nutrito pubblico che riempie l’arena di San Giorgio), ma si ritaglia anche sequenze di intimità solista evocando quell’’autenticità’ delle origini del blues da cercare in riva al Niger. Sabato 26 è andata in scena “A Sud secondo Movimento”, una partitura teatral-musicale per cinque artisti immigrati e nove attori campani (featuring il percussionista tunisino Marzouk Mejri, il fisarmonicista romeno Costel Luataru e la cantante Antonella Morea) per la regia di Gigi Di Luca (beh, il direttore artistico che entra nel cartellone: succede un po’ troppo spesso in Italia!). Ethnos non poteva che chiudere trionfalmente con la vibrante domenica imperniata sull’asse Mali-Niger. Tartit (che significa unione), gruppo della confederazione Kel Antessar, proveniente dalla regione di Timbouktu, ha portato l’orgoglio e l’appartenenza tamashek, i ritmi e il canto in forma call&response dell’esilio e della vita nomade. In formazione ridotta (canto, tamburo tindé, battito di mani e viella monocorde imzad per le donne, battito di mani e liuto a tre corde tehardent per l’unico esponente maschile dal volto ornato dal tagelmust), ma con il valore aggiunto della chitarra elettrica di Faris.
Con loro ci si immerge in atmosfere estatiche favorite dalla struttura modale dei brani. A fine concerto le donne, membri di un’associazione coinvolta in progetti sociali rivolti al mondo femminile, si autofinanziano vendendo stoffe, abiti e monili in un mercatino improvvisato. Un bell’opening act che ha aperto la via a Goumar Almoctar, il cui ‘stage name’ è “Bombino”. Il chitarrista di Tidane, non lontano da Agadez, cresciuto tra Algeria e Burkina Faso (incontra la chitarra elettrica, come tanti suoi coetanei del mondo tuareg si alimenta al suono di chitarristi rock, da Hendrix a Santana, da Jimmy Page a Mark Knopfler) con due album, e la cura di Dan Auerbach, si è guadagnato stuoli di fan indie-rock e rock-blues, affamati di qualcosa di credibile e di un’autenticità racchiusa in moduli chitarristici che condensano memorie condivise: da un lato il rock e il blues elettrico, dall’altro, per gli avvezzi al suono world, l’incedere minimale che è stato di Ali Farka Touré e l’iterazione dei ritmi saheliani. La sua voce è un po’ nasale e non sempre smagliante – non è cantante potente né è un virtuoso pazzesco – la formazione è quella di una rock band convenzionale (chitarre, basso e batteria), ma è collaudata e gira a pieno regime. La serata si riscalda, la grande luna nella sua imponente rotondità è in alto a illuminare il palco creando un magnifico colpo d’occhio. Gli assolo chitarristici, le canzoni costruite intorno a frasi melodiche semplici e taglianti, perfino laconiche, catturano per l’energia che il musicista tuareg emana.
I primi brani sono suonati in assetto unplugged e intimista: Bombino siede imbracciando la chitarra acustica, accompagnato da basso e percussioni (djembe e calebasse), pochi accordi e voce sussurrata. Poi afferra la Fender Mustang e il groove cresce, trascinando alla grande il pubblico – hipster e maturi frequentatori di eventi culturali – che si alza dalle sedie, si dà alle danze riempendo il front stage, acclamando calorosamente il sorridente bandleader. I brani sono tratti da “Agadez” e “Nomad”; inesorabile è il drumming dell’americano Corey Wilhelm, dà corpo al sound il basso funk-rock del mauritano Djakrave Dia, mentre Illias Mohamed svolge da par suo il lavoro alla chitarra ritmica. Ad un certo punto, i Tartit salgono sul palco, affiancando il quartetto di Bombino, a sancire la coralità culturale tamashek della serata. È mezzanotte quando il chitarrista nigerino, avvolto nel suo abito indaco, lascia il palco dopo un lungo bis; i suoi dischi vanno a ruba, lui, il guitar-hero del deserto, sorriso gentile che mette in mostra la sua umanità, firma autografi. È il lieto fine di un eccellente Ethnos 2015.
Ciro De Rosa
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