“Mistera” è il titolo del nuovo album dei Talèh, formazione siciliana di Ragusa dedita, dal 1996, alla riproposta delle espressioni musicali popolari. Prima di entrare nello specifico dell’album vorrei soffermarmi su due elementi marginali, ma che rientrano nel quadro generale dentro cui si approfondisce la conoscenza di un progetto. Nel caso specifico sono ovviamente legati alle ricerche di chi scrive, ma torneranno utili alla comprensione generale dell’album in questione. Il primo è una notizia che si trova in rete: digitate “Talèh” e - in totale controtendenza con la promozione che solitamente gli artisti fanno su media come questo - incorrerete in soli tre righi su Wikipedia, che sintetizzano in dialetto la storia della band. Il secondo elemento riguarda la discografia dell’ensemble ragusano. In vent’anni ha prodotto due dischi: “Ratapuntu” nel 2007 e questo di cui parliamo qui. Credo che entrambi questi aspetti convergano nel carattere della band e, di conseguenza, nel progetto e nelle musiche su cui lavora. Si tratta di un progetto raffinato nel corso degli anni e inquadrato dentro un modo di fare musica pressoché informale, oltre che elegante. Le informazioni aumentano, invece, nel sito dei Talèh, dove, oltre ai passaggi salienti che hanno interessato la formazione, si trovano diverse note sull’idea che ne è alla base. E proprio qui ritrovo quella fermezza che avevo percepito nei due elementi di prima, tramite molti dettagli, riferimenti a “Mistera” e al lavoro di ricerca e di interpretazione del patrimonio musicale popolare della band. Riguardo a “Mistera”, il tema è costituito dalle credenze popolari, che spesso si declinano in una mistica puntellata da forme rituali che ancora oggi persistono in molti ambiti sociali. I Talèh ne sono ovviamente consapevoli e hanno cucito insieme una narrazione che ne rende conto attraverso una musica attenta alle sfumature e alle incoerenze che definiscono il quadro culturale cui fanno riferimento. La strumentazione utilizzata dalla band riesce a considerare tutti i riflessi delle superstizioni, delle pratiche magiche, della religiosità popolare. Privilegia una timbrica acustica ma molto differenziata, attraverso l’alternanza di cordofoni (mandola, mandolino, bouzouki, chitarre, chitarra battente, viola, violino), fisarmonica, zampogna, friscaletto, percussioni, marranzano e batteria. Che la band riesce a combinare in brani profondi, morbidi, a volte foschi, sviluppando melodie molto piacevoli. “Patruna o luocu”, “Rimmi pueta” e “U signuruzzu truvatu” possono ben rappresentare la grammatica costruita dai Talèh per questo album. “Patruna o luocu” è teso e richiama, nel prologo, un’atmosfera rarefatta, per poi sviluppare una linea melodica e ritmica più andante e regolare che, dopo il primo ritornello, inquadra anche la strofa. Il secondo intermezzo musicale accoglie le voci in un coro allungato, al quale si sovrappongono delle voci di sottofondo. I cori tornano nel finale, dove emerge più nettamente l’andamento da marcia, al quale si oppongono, seguendo un contrappunto molto efficace, gli andamenti dilatati dei cori e di alcuni degli strumenti di sottofondo. Con “Rimmi pueta” i Talèh abbracciano una lirica pienamente mediterranea, che si esprime soprattutto nel ritornello. Il brano richiama la struttura della canzone narrativa, attraverso la quale si elencano fatti ed elementi. Il poeta è una sorta di stereotipo verbale, sul quale si riflette la descrizione di alcuni fenomeni legati alle società rurali. Il brano che chiude il disco è “U signuruzzo truvatu”. Si tratta di uno dei brani in cui i Talèh riescono a rendere riconoscibile “ai siciliani di oggi” una forma narrativa tradizionale. La struttura (regolare, reiterata sul piano ritmico e melodico) e l’organizzazione del testo (ricco di dettagli) richiamano le storie “cuntate” dai cantastorie siciliani. Il finale esplode in uno scenario sonoro festivo, in cui gli ottoni e i piatti (qui interviene la Banda di Avola) esaltano al meglio l’epilogo della storia.
Daniele Cestellini
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