Il festival della città rivierasca baltica – giovane ma già carica di storia, destinazione di turismo velico e balneare, ma anche meta per chi desidera ammirarne l’architettura modernista – è approdato all’undicesima edizione. La manifestazione, articolata in più segmenti (concerti, film, stage, incontri, attività teatrali rivolte ai bambini), è parte di un più vasto movimento all’insegna dei suoni tradizionali e world grazie all’esistenza di numerose rassegne, ospitate a Varsavia, Poznan, Wrocklaw, Lublino, Cracovia, che hanno inserito alla grande la Polonia nella mappa del circuito europeo delle musiche del mondo. Dell’idea fondante di Globaltica – di cui “Blogfoolk” è stato quest’anno media partner – abbiamo già parlato nel presentare il festival, dando voce al direttore artistico Piotr Pucyło, che ha messo l’accento su quanto il festival non intenda soltanto assicurare divertimento, ma assolva ad una funzione in un certo senso formativa, aprendo il pubblico locale ai suoni e alle culture del mondo. Parliamo di una manifestazione che conta su di un budget attestato intorno ai 120-140.000 euro, per il quale ogni anno occorre individuare – e non senza fatica – organismi e istituzioni locali e nazionali che sostengano economicamente la rassegna, che naturalmente non potrebbe sopravvivere solo con i proventi dei biglietti. Un finanziamento non esorbitante se confrontato con le cifre a sei zero disponibili per altre manifestazioni che si muovono nello stesso ambito musicale: rimanendo nel grande Nord, tanto per fare un esempio, c’è il norvegese Førde Folk Festival (che ospita diverse centinaia di artisti e si configura come uno dei più importanti festival europei.
Ma ricordiamoci che parliamo di un Paese che investe molto nella cultura, nella musica e, soprattutto, sin dalla scuola educa al proprio patrimonio musicale e coreutico popolare). Eppure, ogni anno Globaltica si fregia di un calendario di concerti di alto profilo, gestito da un’organizzazione meticolosa ed efficiente. Il festival è ospitato nel parco Kolibki, storico ed esteso polmone verde di Gdynia, nel quale sono allestiti due palchi: uno più raccolto, per i piccoli organici acustici e per le attività teatrali rivolte ai bambini, collocato nell’ottocentesca costruzione che alloggiava carrozze e cavalli; un secondo palco, quello principale, montato all’aperto. La manifestazione si contraddistingue per la magnifica, tranquilla atmosfera familiare, fatta di presenze intergenerazionali – dai bambini al pubblico ageé in ragione di una politica dei prezzi contenuta ed inclusiva – : pubblico seduto sul prato, pubblico che balla, pubblico che si gode la festa sonora. Se da un lato molti spettatori sono attratti dagli stand di cibi e bevande, comunque posti non in prossimità dell’area dei concerti, e da quelli che vendono CD e abbigliamento etnico o sensibilizzano su tematiche ambientaliste, dall’altro abbiamo osservato una platea che riserva grande attenzione alla musica live. I gruppi in cartellone non sono una vetrina esotica di culture, ma artisti che sono maestri di uno stile musicale o che sanno coniugare la tradizione con linguaggi contemporanei.
Dopo la giornata d’apertura il 22 luglio, riservata alle danze dei gruppi polacchi Kapela Przewłockiego e Kapela Delaturów e al suonatore di cymbalom Piotr Krupski, la rassegna si è aperta al resto del mondo il giorno successivo, nella raccolta Stara Wozownia (l’alloggiamento di carrozze e cavalli di cui si è appena detto), con l’esibizione di Stella Ramisai Chiweshe. Un personaggio che ha fatto la storia della musica dello Zimbabwe. Stella è stata la prima donna a strappare all’egemonia maschile la mbira, il lamellofono suonato con pollice e indice, dotato di tasti di metallo montati su una struttura di legno collegata a una cassa di risonanza in zucca. Il timbro ipnotico dello strumento spirituale della tradizione shona, usato tradizionalmente per comunicare con le entità ultraterrene, è l’architrave della musica dello Zimbabwe. La Chiweshe ne ha dato un assaggio in un set purtroppo un po’ breve, lasciando poi la scena al trio di Ustad Dharambir Singh (sitar), Kaviraj Singh (santoor e voce) e Gurdain Rayat (tabla). Il trio ci ha introdotti nel complesso mondo sonoro indostano. Il concerto, guidato dall’autorità musicale del maestro sitarista, è stato incentrato su raga della sera, Non ci è sembrato speciale il suonatore di santoor, il cui sguardo incrociava continuamente quello del maestro come a cercare la stella polare di riferimento; più dotato tecnicamente il tablista. La ciliegina finale improvvisata ha visto i quattro artisti sul palco, nell’inusitato incontro tra mbira, canto, sitar e tabla. È toccato alla Janusz Prusinowski Kompania dare avvio ai concerti sul palco principale del parco, venerdì 24.
Il violinista merita un’attenzione speciale, perché è uno dei personaggi più vista della scena neo-tradizionale polacca per la sua attenta opera di rivitalizzazione e divulgazione della musica popolare. Attraverso festival e workshop, Prusinowski ha portato di nuovo alla ribalta la musica degli anziani maestri dei villaggi della Polonia centrale, con un focus speciale sui repertori di danza. Il suo quartetto (violino, fisarmonica, flauti, clarinetto, oboe popolare, basso acustico popolare, baraban e tromba) ha una fisionomia versatile: il gruppo è abile nel far danzare il pubblico con una mazurka 100% trad – cosa che è puntualmente avvenuta al Kolibki, con il bassista Piotr Zgorzelski sceso dal palco a condurre le danze – ma sa anche declinare in modo innovativo la musica popolare, soprattutto con gli incastri di corde e fiati. Ha tenuto pienamente la scena il gipsy-swing multiculturale di Django Lassi, berlinesi di residenza, un sestetto collaudato (voci, violino, chitarra, tromba, fisarmonica, basso, batteria) in grado di far decollare la festa di Globaltica con un caloroso mélange. Discorso a parte merita il folk-rock-indie di Ajinai, cinesi della Mongolia Interna. Centrale il ruolo di Hugijltu, figlio di un influente musicista tradizionale (già con gli Hanggai, protagonista anche dello stage sul canto khoomei), nell’imperniare la musica del quartetto sulla straordinaria tecnica del “canto di gola”, sullo strumento iconico mongolo, la viola tradizionale morin khuur, che assolve alla funzione di bordone ritmico e di portatore di melodia, e su soffici fraseggi di flauto.
Certo, la sezione ritmica rock appiattisce il suono, mostrando ancora tratti acerbi, né la chitarra elettrica si impone. Tuttavia, la loro musica esercita fascino con l’esotica evocazione della steppa che si visualizza nella nostre menti. Insomma, gli Ajinai mancano di quell’agilità ritmica (Vivo Barrea e Fabiàn Sirgado alle percussioni, Nicolàs Sirgado al basso) messa in mostra, invece, dal settetto cubano Soneros de Verdad, guidato dall’esuberante presenza scenica di Lusi Frank Arias (già con Orchestra Revé, Buena Vista Social Club e Afro-Cuban All Stars), dall’incisivo tres di Sergio Veranes, dalla suadente tromba di Làzaro Dilout, che hanno chiuso alla grande la serata con un concerto a base di son, che ha coniugato mestiere e sostanza. Globaltica propone live act di un’ora per ciascun artista: tempo utile alle band per giocare le proprie carte, ma consentendo serate festivaliere di gran varietà sonora. Le pause non lunghissime tra un’esibizione e l’altra consentono il cambio palco, danno possibilità al pubblico di tirare il fiato, studiare il prossimo artista in scena e – perché no? – rifocillarsi. Si è già detto della volontà di attirare l’attenzione del pubblico su temi culturali, pur non essendo il festival di Gdynia a carattere monotematico. Per questa edizione, il filo rosso che ha attraversato la manifestazione è stata la complicata situazione politica e culturale del Mali.
Il primo giorno c’è stata la proiezione dello splendido “Timbuktu”, pellicola di Abderrahmae Sissoko. Successivamente, è stato proiettato il documentario “The Last Song Before the War” di Kiley Kraskouskas, che cattura i suoni del Festival au Désert. Sabato 25, abbiamo assistito al concerto di Malikanw, le “Voci del Mali”. Si tratta di un progetto legato, per l’appunto, al “Festival au Désert in Esilio”. La manifestazione musicale, che aveva fissato la città di Timbuktu nella mappa mondiale delle musiche del mondo, è stata forzatamente interrotta dopo l’attacco fondamentalista nel nord del Paese e la conseguente guerra né tantomeno il delicato equilibrio attuale ha consentito il ritorno della musica internazionale nell’antica e colta città maliana. Per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, ma anche locale, come ci ha sottolineato il responsabile artistico del gruppo e del Festival au Dèsert, tre manifestazioni musicali – il Festival Taragalte di M’hamid in Marocco e i due festival maliani, il Festival au dèsert e il Festival sur le Niger di Ségou – si sono accordate per dare vita alla Carovana Culturale per la Pace, che si prefigge di promuovere comprensione, diversità culturale e coesione sociale tra i popoli del Sahel e del Sahara.
Sul palco si è esibita una band di nove elementi, specchio della varietà culturale maliana, da nord a sud: il magnifico chitarrista Samba Touré, Zoumana Tereta, maestro del sokou, il violino monocorde, il chitarrista tuareg Ahmed Ag Kaedy, le voci di Sadio Sidibé dal Wassoulou e Petit Goro dal paese Dogon, quella mandinga di Cheick Siriman Sissiko. E ancora, Ben Zabo, rappresentante del popolo Bobos, e Mariam Koné, vocalist di matrice hip hop e R’&’B. Tuniche e turbanti, stili urbani e acconciature tradizionali: un insieme variopinto ed energico. Non sempre l’amalgama sonora trionfa appieno, ma in questi casi è il messaggio che conta. Certo, l’incedere modale, ora tagliente ora più melodico, ora suadente ora appoggiato a ritmiche rockeggianti fa breccia nel pubblico. E siamo felici anche noi di vedere insieme, per la prima volta in Europa, musicisti africani di tal prestigio. Poco prima, era salito sul palco Aziz Sahmaoui & University of Gnawa (voci, mandola, ngoni, basso, percussioni, chitarra, kora e tastiere), con quel superbo incontro urbano tra chaabi, rock, ritmi gnawa e tinte sonore subsahariane, che caratterizzano la cifra dell’ex membro dell’Orchestre National de Barbès. Sul filo della memoria tra mondo giudeo-sefardita, modi ottomani e tempi dispari balcanici si è adagiato l’excursus acustico dei serbi Shira U’tfila (voci, oud, qanun, clarinetto, violino, contrabbasso), che hanno ospitato il dotato percussionista (tamburi a cornice e a calice) israeliano, ma residente a Istanbul, Yinon Muallem (docente del workshop festivaliero sui tamburi).
Se non li conoscete, cercate i dischi di questa band di gran talento. La tre giorni nell’immenso verde del parco è stata chiusa dal samba-choro dell’ottetto di Osman Martins & Samba da Candeia (voci, cavaquinho, chitarra, sax soprano, flauto e percussioni a volontà), con standard brasileiri e virtuosismi strumentali a deliziare e far ballare il pubblico, accorso sempre numeroso, nonostante fino a poche ore prima una pioggia battente avesse avvolto la costa baltica. Il festival ha avuto una degna conclusione la domenica al Klub Atlantic, un ex cinema ed ex supermercato trasformato, grazie a una fortunata inversione di tendenza, in un bel centro per concerti e performance teatrali. Qui si è esibito il trio dell’oudista libanese Rabih Abou-Khalil in compagnia dell’ottimo ed estroso percussionista statunitense Jarrod Cagwin e del nostro Luciano Biondini, fisarmonica di temperamento, tenera e drammatica, che conferisce profondità alle tessiture dell’ensemble. Abou-Khalil ha suonato brani classici del suo repertorio e nuove composizioni che entreranno nel prossimo disco in quartetto, che annovera nella line-up anche il polistrumentista sardo Gavino Murgia. Il cosmopolita virtuoso del liuto a manico corto non riduce mai il suo tecnicismo all’effetto autoreferenziale, la sua musica ha approdi sicuri (la tradizione araba), ma anche rotte in continua ridefinizione (con esplorazione di jazz, improvvisazione e altro ancora). Le variazioni ritmico-armoniche, i passaggi improvvisativi, la grande interazione con i collaudati sodali hanno confermato la cifra della sua duratura sintesi musicale. ll pubblico ha apprezzato, tributando agli artisti una standing ovation, più volte ripagata dai bis del trio. Segnatevi questo festival nella vostra agenda per il prossimo anno: un viaggio in Polonia, tra storia, natura e musiche trad & world, è un’idea vincente per una vacanza culturale che lascerà una traccia duratura.
Ciro De Rosa
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