Terakaft – Alone (Outhere Records, 2015)

Il nuovo disco dei Terakaft si intitola “Alone” e arriva sulle scena della musica tuareg, tanto esaltata soprattutto nella sua declinazione più internazionalista e bluesseggiante, con un forte carico di novità. In termini generali si può dire che la produzione della band – fondata nel 2001 da Sanou Ag Ahmed – si differenzi dalle forme e dalle interpretazioni più diffuse del desert blues per l’attenzione alla costruzione ritmica. Un’attenzione che ne riduce l’indeterminatezza e la leggerezza a vantaggio di un andamento più marcato. Nel quadro del quale i dieci brani di cui è composto l’album non solo presentano una maggiore attenzione agli arrangiamenti e all’organizzazione delle percussioni, ma assumono una carica più forte, uno spessore diverso che raccoglie e dà una nuova forma a tutti gli elementi più tradizionali e riconoscibili del genere: le melodie cantilenose delle voci, che in alcuni casi interessanti si sovrappongono in polifonia, il basso che si muove sulla reiterazione di frasi sincopate e brevi, le chitarre appena distorte che trainano ogni brano. Questo, in evidente disaccordo con la retorica che qua e là accompagna la presentazione della band (“Terakaft is a genuine desert rock band, sculpted by the pure searing air and the endless rolling sands of the Sahara”), credo possa essere considerato l’elemento distintivo di una produzione musicale che, altrimenti, non avrebbe altro per differenziarsi nel mare magnum della world music contemporanea. Non solo perché l’aderenza al desert blues è evidentemente legata (come accade in altri generi) a una condizione storica e sociale (di solito i musicisti sono Tuareg, oppure provenienti dal Mali o da un’area circostante, anche se più vasta, e i temi trattati coincidono con questioni politiche orami note anche se pressoché irrisolte), ma soprattutto perché gli elementi tecnico-stilistici che ne hanno determinato la fortuna anche commerciale sono pochi e semplici. Invece i Terakaft individuano la linea di una nuova prospettiva, sostanzialmente tendendo un orecchio alla popular music (come fanno tutti gli altri, ma quasi sempre solo per le chitarre) e l’altro ai moduli musicali tradizionali nell’area da cui provengono. Il risultato è convincente, perché rinnova uno stile che fatica a reggersi solo sulle chitarre o sul virtuosismo di alcuni chitarristi. Così, quando parte “Anabayou”, il primo pezzo in scaletta, si ha l’impressione di ascoltare i primi effetti di una sorta di decentramento azzeccato. Che, fatte le dovute proporzioni (e riconducendo la produzione dei Terakaft a un approccio più estemporaneo, diretto e semplice, legato ai motivi di cui dicevo sopra), fa coincidere l’andamento del brano con alcune atmosfere dell’ultimo album di Robert Plant. Atmosfere nelle quali rimane il filo delle forme espressive tradizionali di quell’area, ma che riescono a trasfigurarsi ed espandersi in alcuni passaggi strutturali fondamentali. Fino a lasciarci immaginare un possibile groove euro-maliano, allo stesso tempo melodico e ritmico. La formazione di Kidal lo ha sintetizzato in vari brani di “Alone”, come “Tafouk Tele”, “Amidinin Senta Aneflas”, fino ad arrivare alla bonus track “Ta Fouck Tele”, assemblata dentro un dance mix ostinato, sul quale si susseguono il breve tema di chitarra distorta e acida, e quello della voce, che puntella il flusso del brano con melodie appena accennate ed espanse con un effetto delay ridondante. Il brano più interessante dell’album è “Kal Hoggar”. Anche qui la linea ritmica è definita fin dal breve prologo, ma ha un tratto più leggero, anche se equilibrato e deciso. Sul piano armonico e dell’organizzazione delle melodie si configura, invece, in senso più tradizionale: la scia del tema della chitarra avvolge le voci, che si sovrappongono all’unisono, lasciando emergere lunghi intervalli musicali guidati soprattutto dalla seconda chitarra, che improvvisa sul tema con poche note, cristalline e condizionate da un andamento pentatonico. Il canovaccio seguito dalle percussioni è implementato, in corrispondenza con il primo intermezzo musicale, con una sequenza di sonagli sordi, che intervengono a intervalli regolari, arricchendo l’atmosfera rarefatta e profonda del brano.


Daniele Cestellini
Nuova Vecchia