Un disco che è specchio di un’identità plurale. Parigina nata da genitori siriani, la trentenne Naïssam Jalal è donna sensibile e determinata, in bilico tra più mondi. La sua è l’inquietudine di chi in una certa fase della vita si pone la questione delle proprie “origini”. Dopo studi di flauto traverso al conservatorio francese (ma aveva imbracciato lo strumento già a sei anni d’età. «il flauto è la mia voce», spiega in una sua intervista a Radio France International), c’è la scoperta dell’improvvisazione, l’ingresso nella fanfara Tarace Boulba, ma anche l’intraprendere lo studio della musica classica orientale a Damasco, dove la diciannovenne è iniziata al flauto nay al Grande Istituto di Musica Araba. In seguito si reca al Cairo, dove ha Abdu Dagher come maestro di violino e dove suona con il pianista Fathi Salama. Rientrata in Francia, Naïssam Jalal prosegue nella sua carriera di musicista eclettica, accompagnando il rapper libanese Rayess Bek o facendo coppia con l’oudista egiziano Hazem Shaheen (del duo è prevista l’uscita di un album quest’anno, edito dal parigino Institut du Monde Arabe). Negli anni, ha suonato con i massimi esponenti della scena africana in Francia, tra i quali Tony Allen, Cheikh Tidiane Seck, Fatoumata Diawara, Hervé Samb, con jazzisti del calibro di Hamid Drake e Michael Blake, con artisti arabi (Lena Shamamyan, Macadi Nahhas, Youssef Hbeish, Khaled Aljaramani) e perfino con personalità musicali apparentemente molto distanti, come Melingo. Registra con Abdoulaye Traore, Mohamed Diaby, Aziz Sahmaoui e i rapper palestinesi Katibeh 5, compone colonne sonore per due film (“Camera Woman” di Karima Zoubir e “Entre les mains” di Odile Demonfaucon). Nel 2009 con il duo Noun Ya incide “Aux Résistances”. È del 2011, all’epoca delle rivolte nei Paesi arabi, la formazione del gruppo Naïssam Jalal & Rhythms of Resistance. Una scelta dettata dalla volontà di mettere l’accento sul fatto che la sua è musica che resiste e che parla della resistenza di popoli in rivolta che riaffermano la propria dignità, trovando corrispondenza nella sua espressione di artista emancipata, nel suo muoversi liberamente nella melodia e nel ritmo. Il suo nuovo album è suonato in quintetto. Accanto a Naïssam (flauto, nay, voce) suonano quattro musicisti di diversa nazionalità residenti a Parigi, anche loro artisti viaggiatori, rappresentanti di un’umanità meticcia: il sassofonista (tenore e soprano) e suonatore di darbouka franco-marocchino Mehdi Chaib, il chitarrista e violoncellista tedesco Karsten Hochapfel, il contrabbassista ungherese Matyas Szandai e il batterista italiano Francesco Pastacaldi. Sulla copertina di “Osloob Hayati” (che tradotto dall’arabo significa all’incirca “Il mio stile di vita”), Naïssam suona il flauto davanti a un muro perforato dai frammenti di proiettili in un edificio sventrato di Beirut. All’interno del disco ci sono anche le immagini dei tetti di quella Damasco che ha segnato la sua vita, città culla di grande civiltà musicale, oggi martoriata come tutta la Siria. Descrive la sua musica come espressione della sua specificità: il suo essere «donna, musicista, siriana e francese, araba ed europea, sia nomade sia sedentaria, in cerca delle tradizioni e dell’ignoto. Volevo fare sentire la mia voce singolare in questo mondo e in particolare nel mondo arabo […] Era anche la volontà di combattere attraverso un’avventura umana e musicale il ripiegamento identitario che mina proprio l’avvento di cultura completa e ricca delle sue differenze». Con “Osloob Hayati” l’artista mette in scena un ambiente timbrico acustico intriso di sonorità che coniugano stilemi classici, modi orientali e pronunce che gravitano intorno all’etno-jazz, anche se lei non si definisce una jazz-woman: la sua cifra improvvisativa si deve più all’influenza delle forme della musica d’arte araba che all’osservanza della musica afro-americana. L’iniziale title-track parte con un’esplorazione pacata di flauto solo, al quale gradualmente si avvicinano gli altri strumenti. In contrasto possiede forte slancio “Parfois c’est plus fort qué toi”, dove la chitarra liquida si muove liberamente su un incessante ritmo gnawa. In “Nomades” la lunga introduzione di nay prelude a un passaggio jazz-oriental un po’ prevedibile, ma quando è il flauto a prendere il sopravvento producendosi in sequenze impetuose e vorticose è tutta un’altra storia e il disco vive uno dei suoi momenti più significativi. “Etrange Samaaï” e “Visite matinale” portano in risalto la coesione del quintetto, ma anche le magnifiche individualità (si ascoltino i ricami del sax soprano di Mehdi Chaib). La fascinosa “Om alshahid” è una sorta di preludio a “Frontières”, una toccante poesia di Naïssam, recitata dalla stessa artista su una base di bordoni di flauto ed effetti percussivi. Il testo racconta storie di amori separati dalla burocratica disumanità (“Une citerne de larmes posée sur mon coeur/ Je ravale l’eau de mes yeux en silence / Des mots servent de cage / Parfois même c’est d’une seule lettre que nous sommes prisonniers / Ils ont transformé les chiffres en numéros de dossier/ Et notre amour en un combat haletant/ Le lieu de naissance n’est pas conforme /La régularité du passeport n’est pas reconnue / La validité du titre de séjour est expiré/ Ils déversent leurs exigences comme un pétrole qui pollue notre océan / Et nous étouffons au pied des murs de leurs preoccupations / Pourtant je ne connais de frontières que celles de mon corps/ Je voudrais vivre blottie contre sa poitrine / ma seule patrie/ Vivre libre de l’enlacer quand son regard me touche./ Vivre libre de l’aimer” […]). Il viaggio si conclude a “Beirut”, dove contrabbasso e flauto si espongono nella prima parte dal tratto introspettivo per farsi raggiungere dagli altri strumenti nella potente ed emozionale esplosione finale.
Ciro De Rosa
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