Francesco De Gregori – VivaVoce (Caravan/Sony Music, 2015)

Gli ascoltatori più attenti alle dinamiche del mondo della musica, sanno che, quando un’artista pubblica una raccolta di riletture del proprio repertorio, c’è sempre alla base uno scopo commerciale, sia esso il rilancio di una carriera che langue, o l’esigenza di promuovere un singolo brano inedito o un tour. Pochissimi sono i progetti discografici di questo tipo che nascono da una base concettuale precisa. Uno di questi è certamente “VivaVoce”, il nuovo album di Francesco De Gregori, un disco nato dall’esigenza di ricontestualizzare il proprio songbook, dando nuova vita alle canzoni partendo dal lavoro di continuo work in progress che da sempre caratterizza l’approccio con il palco del cantautore romano. A riguardo nelle note di presentazione, De Gregori, scrive: “è quello che mi dovevo come artista, visto che ho passato una lunga parte della mia vita a veder cambiare queste canzoni sotto le mie mani e sotto quelle dei musicisti che mi accompagnavano. E questo cambiamento volevo testimoniarlo”. A differenza di un film, le canzoni vivono una vita oltre il disco, si evolvono e in alcuni casi esigono quasi di essere calate nella contemporaneità. Le canzoni non possono restare chiuse in un disco, correrebbero il rischio di invecchiare, di perdere il loro smalto originario, con buona pace di quanti sono affezionati alle versioni originali. E’ come se di un’opera teatrale si pretendesse ogni sera la regia, la recitazione e i tempi scenici della prima.  In questo senso Francesco De Gregori ha colto pienamente nel segno, scegliendo la sequenza dei brani come fosse la scaletta di un suo concerto, con qualche classico, alcune perle dimenticate, e un pugno di brani minori che urlavano una seconda possibilità. Registrato tra Febbraio 2013 e Settembre 2014 presso gli studi Terminal 2, LRS e Groove Farm di Roma, “VivaVoce” presenta ventotto brani, equamente divisi in due dischi, che nel loro insieme si inseriscono perfettamente nel percorso discografico del cantautore romano, offrendoci un istantanea chiara dello stato dell’arte del suo songwriting, delle sue passioni musicali, e dei suoi innamoramenti sonori, spaziando da brani che hanno alle spalle quarant’anni di vita, ed altri solo quattro o cinque. L’ascolto ci regala un susseguirsi di belle sorprese, a partire dalla versione in ¾ di “Alice”, cantata in duetto con Luciano Ligabue e proposta come singolo apripista del disco. Si entra subito nel vivo con l’intensa rilettura di “Atlantide” a cui seguono in breve successione la trascinante “Un guanto”, e due classici come “Leva calcistica della classe ‘68” e “Niente da capire”, il cui arrangiamento rimanda alla versione realizzata nel 1978 per il Tour di “Banana Republic” con Lucio Dalla. La struggente “Gambadilegno a Parigi”, caratterizzata da una delle prove vocali di maggior pregio di tutto il disco, ci schiude le porte per il travolgente rock‘n’roll di “Finestre rotte” in cui non manca una citazione strumentale di “Johnny B. Good” di Chuck Berry. Una nuova ambientazione sonora illumina di nuova luce “Generale”, la cui ritmica quasi marziale ha lasciato il posto ad una struttura che valorizza ancor di più lo spessore poetico e il contenuto pacifista del testo. Se le chitarre elettriche tornano in grande evidenza ne “Il panorama di Betlemme”, uno dei brani più belli degli ultimi anni del cantautore romano, la successiva “Renoir” è un incursione nei territori jazz con la tromba di Giancarlo Romani a dialogare con il pianoforte di Alessandro Arianti, e la coda strumentale che evoca lo standard “White Christmas”. Semplicemente gustose sono poi le versioni in chiave country-rock di “Natale” e “Caterina” o della più recente “Vai in Africa, Celestino!”, rallentata e più riflessiva rispetto all’originale pubblicata su “Pezzi”, o ancora di “Battere e levare”, che spogliata della struttura reggae che aveva assunto dal vivo, si svela in una dimensione del tutto nuova per soli chitarra e voce. Ad aprire il secondo disco è l’inedito “Il Futuro”, traduzione di “The Future” di Leonard Cohen, già proposta da Mimmo Locasciulli ma mai incisa da De Gregori. Passando dalle sonorità sixties de “Il ‘56”, si arriva alla splendida versione de “La Ragazza e La Miniera”, incisa con Ambrogio Sparagna e l’Orchestra Popolare Italiana, mentre agli States si torna a guardare con il country-rock de “Il bandito ed il campione” firmata dal fratello Luigi. La dolcissima “Buonanotte Fiorellino” è un preludio perfetto per la struggente riletture di “Santa Lucia”, a cui segue una citazione strumentale di “Come è profondo il mare” dell’indimenticato Lucio Dalla. Il rock de “Il Canto delle Sirene”, e la tradizione musicale friulana evocata in “Stelutis Alpinis” ci conducono verso il finale con quattro superclassici ovvero “Titanic”, con la chitarra di Paolo Giovenchi, la pedal steel di Alessandro Valle e il violino di Elena Cirillo in gran spolvero, la versione orchestrale de “La Donna Cannone” affidata a Nicola Piovani, e le indimenticabili “Viva L’Italia” e “La Storia”. Chiudono il disco il crudo ritratto della Capitale “Per le strade di Roma” con la tagliente chitarra di Giovenchi ancora protagonista e il divertissement “Fiorellino # 12&35”, un omaggio al Bob Dylan di “Blonde On Blonde”, già proposta con grande successo anche dal vivo. Insomma per quanti hanno ritratto un Francesco De Gregori alla fine della sua carriera, possiamo rassicurarli sottolineando che proprio con “VivaVoce”, ci ha dimostrato ancora una volta come in Italia sia uno dei pochi cantautore ad avere ancora qualcosa da dire, anche solo riprendendo qualche brano di repertorio.


Salvatore Esposito

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