Ecco uno che nella sua biografia porta inscritta la storia musicale del suo Paese: è Boubacar Traoré, che nei primi anni Sessanta con la sua musica e la sua immagine veicola via etere, nelle session di Radio Mali, il messaggio di liberazione nazionale con canzoni di enorme successo. Kar kar (è il soprannome acquisito quando era un calciatore dribblomane) è stato un idolo con la sua voce e il suo chitarrismo che assomma stilemi khassonké del nord-ovest ed echi popular occidentali. Un rock’n’roll hero che ha accompagnato con i suoi successi (“Mali twist” e “Kabeya”, solo per segnarne due) il Mali sul viale principale dell’indipendenza, prima di sparire dalle scene ed essere dimenticato (non secondario il fatto che con il rovesciamento del regime post-indipendenza era stato ritenuto artista schierato con il precedente presidente). Improvvisamente fa una comparsata televisiva nel 1987, imbraccia di nuovo la chitarra ed è rilanciato negli anni Novanta (l’etichetta britannica Stern’s pubblica il disco “Mariama”), quando si diffonde il mercato della world music. Da lì in poi, quest’autorità della musica sub-sahariana torna in pista con rinnovato vigore, condividendo la ribalta con le star connazionali delle musiche del mondo (Ali Farka Toure, Toumani Diabate, Keletigui Diabate e Rokia Traore). La sua popolarità diventa internazionale, e la figura di Boubacar riempie libri e film. A poco più di settant’anni d’età (classe 1942), il tenace, iconico chitarrista e cantante di Kayes torna con il suo decimo disco, edito dall’etichetta atlantica Lusafrica. S’intitola “Mbalimaou” (“Miei fratelli”) ed è una delizia dall’inizio alla fine con il suo diretto aroma folk acustico. Registrato nello studio Bogolan di Bamako, il lavoro è stato prodotto da Christian Mousset e da Ballaké Sissoko (che contribuisce anche suonando la kora). Negli ultimi anni la collaborazione di Traoré con l’armonicista Vincent Bucher ha accentuato quell’inevitabile richiamo al blues afro-americano che seduce tanto gli occidentali, ma la musica di Kar Kar è blues d’animo più che di forma. Il tema inziale “Dounia Djanjo”, canzone dedicata alla sua città natale, offre il canto gentile di Boubacar accompagnato dalla chitarra, poggiato sul ritmo dato dalla calabassa di Babah Kone e sulle figurazioni del n’goni (Oumar Barou). Si passa a “Hona”, un disteso brano bluesy con armonica, belle frasi di chitarra e percussioni leggere; più pronunciato il ritmo di “Bembilisso”. Entra la kora a illuminare “Sagnon Moni”, mentre nella title-track la melodia pentatonica si arricchisce del suono penetrante della viella ad archetto monocorde sokou (Soumaila Diabate). Ritorna l’hit "Mariama", dove kora, calabassa e armonica partecipano di questa canzone in cui una giovane apprende della morte della mamma. Nel magnifico strumentale “Bougoudani” la chitarra sembra imitare l’arpa-liuto mandinga, raddoppiandone le linee melodiche. Il flusso musicale di chitarra e voce si protrae ininterrotto con “Foniana Kouma” e “Africa”, mentre in “Saya Temokoto” si notano di nuovo tocchi di kora e violino. Invece, la conclusione la dà la bella composizione strumentale “Sina Mousso Djougou”, dove assorti ascoltiamo il dialogo tra le sei corde di Traoré e l’arpeggio limpido della kora di Sissoko. Boubacar Traoré è stato in Italia lo scorso settembre per il festival MITO e vi ritornerà il 17 maggio a Firenze, per il festival Fabbrica Europa (anteprima del Festival au Désert). Prepariamoci con questo disco imperdibile.
Ciro De Rosa
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