Ravi Coltrane Quartet, Metastasio Jazz, Teatro Metastasio, Prato, 23 Febbraio 2015

Viso sereno, aria trasognata, incedere riflessivo. Ravi Coltrane sale sul palco di un Metastasio colmo fin nei palchi, poche parole e imbraccia il sopranino per un'intima ma breve introduzione che, passato al soprano, sfocia nell'inedito “Quilly's Blade”, un jazz waltz da trance, venti minuti di apnea per il pubblico. È il suo quartetto a chiudere la XX edizione di Metastasio Jazz, sotto la direzione artistica di Stefano Zenni. Venti anni durante i quali la cittadina toscana è diventata uno dei centri pulsanti per i concerti jazz in Italia, invitando musicisti di grande rilievo e rinverdendo una tradizione iniziata alla fine degli anni '60. In quegli anni fertili, infatti, il Metastasio ospitava già nomi come Duke Ellington, Charles Mingus, Art Blakey, Modern Jazz Quartet, etc. L'ha testimoniato per tutta la durata della rassegna una ricca mostra allestita nel foyer con fotografie e documenti, tra cui i telegrammi e i contratti tra la direzione del teatro e il famoso impresario Norman Granz. A cinquant'anni Ravi è un leader sicuro e cosciente del suo peso nel jazz contemporaneo americano, per nulla intimorito dalla schiacciante eredità paterna e protagonista di un postbop che sa forse più di post che di bop, ma senza strafare. 
Figlio di John e Alice Coltrane, è stato allievo di Charlie Haden (che ha ricordato sul palco eseguendo la toccante “For Turiya”, incisa nel 1976 in duo con la madre all'arpa) ed è cresciuto nell'M-Base, dove ha acquisito un fraseggio capace di raccontare il suo stempo ma conservando un'energia vitale non sempre presente nei suoi colleghi. Un trasporto che sembra voler ritrovare con questo nuovo quartetto, formazione molto diversa da quella dell'ultima incisione “Spirit Fiction” (Blue note, 2012), album più riflessivo e concettuale. I momenti migliori sono stati infatti i brani più trascinanti, dove i groove infernali di Jonathan Blake alla batteria rivaleggiavano con i soli fluidi e densissimi del saxofonista. Solo qualche momento di calo nel mezzo, complice la stanchezza per un viaggio lungo e travagliato dalla Romania, ma nel complesso un concerto di grande spessore in cui l'influenza del padre, ossessivamente cercata dai critici, si è manifestata non tanto nello stile strumentale quanto nel mood di alcuni brani, come il già citato “Quilly's Blade” e la coda eterea e sospesa di “For Turiya”. Un figlio d'arte con il coraggio di un figlio di nessuno. 

Marco Leopizzi
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