Kalàscima - Psychedelic Trance Tarantella (Ponderosa Music & Art, 2014)

Quando quatto anni fa i Kalàscima diedero alle stampe il loro secondo disco “Santa Maria del Foggiaro” sottolineammo come la caratteristica principale del gruppo era quella di riuscire a rileggere la musica tradizionale salentina attraverso una ricerca sonora ad ampio respiro, nella quale gli echi dei canti e delle danza del Sud Italia si mescolavano a suggestive evocazioni world. Forte di una solida esperienza maturata dal vivo in Italia come all’estero, e consapevole delle proprie potenzialità, il gruppo ha ampliato il raggio delle proprie esplorazioni soniche, sperimentando l’incontro tra i beat dell’elettronica e la musica della loro terra. Ha preso vita, così, “Psychedelic Trance Tarantella”, il loro nuovo album, nel quale hanno raccolto undici brani originali che nel loro insieme compongono un viaggio lisergico nel quale la pizzica pizzica salentina viene declinata al presente ed al futuro nell’incontro tra tamburi a cornice, synt, e drum machine. Ne abbiamo parlato con il gruppo salentino per approfondire con loro la gestazione, le ispirazioni e le sperimentazioni sonore che hanno caratterizzato questo nuovo album.

Il vostro nuovo album “Psychedelic Trance Tarantella” nasce dall’esigenza di rileggere la tradizione musicale saletina attraverso l’intreccio tra elettronica e sonorità delle radici. Come si è evoluto il vostro approccio sonoro rispetto a “Santa Maria del Foggiaro”?
Riccardo Laganà - “Psychedelic Trance Tarantella” ha avuto una gestazione lunga. Nei quattro anni trascorsi dall’uscita di “Santa Maria del Foggiaro” abbiamo lavorato tanto prima di ripresentarci con questo nuovo disco , che non è soltanto un album in quanto tale, ma un nuovo modo di vedere la nostra musica. Abbiamo suonato tanto in tanti posti diversi, dal Sud America al Medio Oriente, dal Nord Europa all’Australia e tutto questo ha contribuito a darci nuove visioni, nuovi stimoli, nuove esperienze tutte confluite nel nuovo album. Di immutato sicuramente c’è e ci sarà sempre la passione per il nostro lavoro, per la musica e per i nostri strumenti. Resta immutato l’innamoramento per le nostre tradizioni musicali e la nostra cultura, come resta immutata la consapevolezza di cosa significa tradizione e di cosa è la novità, nel rispetto della prima e con l’anima protesa verso la seconda, orgogliosi e ancorati a quello che ci hanno insegnato Uccio Aloisi e i Menamenamò e allo stesso tempo affascinati da Aphex Twin e dai Radiohead. Musicalmente tutto cambia. E’ nelle cose. Le novità più importanti, ma che a nostro modo di vedere risultano essere, appunto, naturali, sono un nuovo modo di intendere e concepire la musica popolare di oggi. Ci guardiamo attorno e raccontiamo le nostre storie e le storie della nostra terra con gli strumenti e i mezzi che abbiamo oggi a disposizione, come da sempre i popoli hanno fatto in ogni parte del mondo. 

Dal punto di vista prettamente compositivo come si è indirizzato il vostro lavoro di ricerca e rielaborazione dei materiali tradizionali?
Riccardo Laganà - E’ ormai consuetudine intendere la nostra musica popolare facendo riferimento esclusivamente a quello che abbiamo ereditato dai materiali che sono riemersi prepotentemente dalla fine degli anni novanta ad oggi, e a volte non ce ne rendiamo neanche conto. Come in una teca, nello specifico rappresentata dalle registrazioni dei cantori storici o dagli archivi dei ricercatori degli anni ‘50-’70, la consideriamo immutevole, come una sacra reliquia che deve essere ammirata, rispettata e, qualora riproposta, conforme all’originale in termini di purezza, semplicità e rigore esecutivo. Noi intendiamo la musica popolare per quella che è e non crediamo di fare nulla di speciale. I nostri nonni (o per meglio dire, le genti di due generazioni precedenti alla nostra) tramite i quali è arrivato a noi tutto il materiale che è ormai conosciuto come la vera tradizione salentina, altro non facevano che raccontare le storie che vivevano, o che avevano sentito raccontare a voce dai loro predecessori, e metterle in musica. E fare musica significava utilizzare gli strumenti musicali che già conoscevano e anche gli strumenti del lavoro che avevano a disposizione in base alle “tecnologie” del loro tempo. Le latte dei pomodori erano i sonagli, i “farnari” (ovvero i setacci per la farina) avevano le stesse cornici dei tamburelli, come anche si utilizzavano i “lavaturi” (pezzi di legno sui quali si lavavano i panni), le sedie, i tavoli, chiavi e bottiglie. Oggi noi non facciamo tanto di diverso. La differenza sta nel fatto che i tempi corrono, il mondo attorno a noi cambia, e oggi abbiamo a disposizione strumenti diversi per esprimerci e raccontarci. In “Psychedelic Trance Tarantella” raccontiamo l’urlo degli immigrati che arrivano sulle nostre coste, la nostra storia di noi giovani salentini emigranti del nuovo millennio e perenni fuorisede, come pure la rivolta dell’Arneo del 1950. E lo facciamo con gli strumenti che abbiamo ereditato dalla tradizione ma anche con gli strumenti della modernità, tra cui i sintetizzatori analogici e i filtri elettronici.  

Qual’è stato il vostro approccio in fase di arrangiamento e costruzione dei vari brani?
Federico Laganà - Abbiamo da sempre un modo di arrangiare e creare collettivo. Siamo sei creativi con un background musicale diverso l'uno dall'altro. In fase di arrangiamento le idee si accavallano e si mescolano, ognuno porta avanti e trasforma quella dell'altro arricchendola, poi tutti insieme decidiamo quale sia la scelta migliore con attenzione quasi maniacale ai dettagli. La sala prove si trasforma in una sorta di parlamento. Credo che l'unione dei sei caratteri musicali dia alla nostra musica dei tratti ben definiti, riconoscibili, che sarebbe impossibile ricreare con una formazione diversa. Per quanto riguarda “Psychedelic Trance Tarantella” nello specifico, oltre a questo modo di comporre, credo che la cosa interessante sia stata la diversa origine di ogni brano. Alcuni, come “Il giardino” o “This way”, sono esempi di come noi concepiamo la musica popolare salentina in chiave moderna. In altri brani come la title track, o “Mary di Salem” la tradizione viene soltanto citata, come se fosse il punto di partenza di un lungo viaggio. 
E’ fondamentale sapere da dove si parte, ma ancor più importante è vedere dove si arriva. Altri ancora (“Musa”, “Lu sule”, “Due mari”, “Moi!”, “Kore” e “Canto degli emigranti”) sono composizioni del tutto nuove create utilizzando strumenti ed idee musicali quasi totalmente estranei al nostro territorio, ma nate dagli studi che ognuno di noi ha fatto nel suo percorso di formazione musicale. Importanti sono i messaggi che cerchiamo di comunicare in musica. Molto forte è il tema dell'emigrazione visto da più prospettive, il tema della memoria sociale e del potere curativo della musica.

Quali sono le difficoltà che avete incontrato nel creare questa fortunata commistione tra ritmiche della tradizione salentina con le timbriche moderne dell’elettronica?
Enrico Russo - Le persone che si incontrano, lo scambiarsi le idee, svilupparle e farle vivere insieme: questo è stato il vento che ha gonfiato le nostre vele. Riccardo mi chiese di imbarcarmi in questa avventura: lui è un acuto osservatore ed una persona sensibile anche verso quell’altro lato della scena musicale salentina. Quella indipendente, di matrice rock, in cui ho sempre vissuto. Nel dare nuova vita alla musica popolare non può nascondersi alcuna insidia. Non è stato difficile, e quando la tendenza è la paralisi, andare controtendenza non può che essere entusiasmante. La ricerca non solo in ambito musicale è la sola strada da percorrere per fuggire al ristagno delle idee, la loro mercificazione e il confezionamento come articolo da regalo. D'altro canto, vecchio e nuovo sono concetti assimilati già da molto tempo nell'unicum dell'esperienza musicale per opera di musicisti, produttori e fruitori di musica da tutto il mondo, dai circuiti ufficiali ai download selvaggi. A grandi linee, la semantica della pizzica si basa su strutture circolari, sulla ripetizione e l'insistenza di semplici schemi sonori. Esattamente come tutta la musica del pianeta, fatte le dovute eccezioni. Quindi tutt'altro che lontana dall'elettronica tedesca del secolo scorso, per esempio, o dalla musica minimalista. Strumenti che hanno già fornito la chiave per aprire al rinnovamento di altre sonorità tradizionali. Mi sono subito messo a giocare: ho trattato i tamburelli come se fossero delle drum machine o dei drum set completi (se chiudi gli occhi mentre Riccardo e Federico li suonano hai esattamente questa impressione: che abbiano davanti decine di tamburi e piatti!). Gli organetti e le cornamuse hanno sostituito, nel mio immaginario, i Farfisa a basso mercato che per anni ho accatastato in cantina. Un filtraggio violento di questi elementi ha fatto strada all'ingresso del sintetizzatore nell'impasto. Sequenze circolari di oscillatori analogici, grooves di basso synth e chitarre elettriche hanno in fine intessuto le armonie con il visibilio di chitarre acustiche e tradizionali di Massimiliano. 

Il vostro lavoro di ricontestualizzazione sonora della musica tradizionale in una dimensione urbana si è concretizzata anche attraverso una contaminazione con suoni world, come nel caso di “Kore”. Quali sono stati i vostri riferimenti in questo senso?
Massimiliano De Marco - Ci piace partire da ciò che conosciamo e che abbiamo vicino per proiettarlo nella modernità e ancor più avanti nel futuro. Nel brano “Kore”, ad esempio, il riferimento iniziale è sicuramente la tarantella calabrese. In questo caso però una tarantella epica, che gioca sulla tensione emotiva delle armonie e sul dialogo tra l'organetto 12 bassi e il bouzouki irlandese che chiaramente è molto lontano sul piano geografico. 
Quello che ci interessava era l'ostinazione e la forza della tarantella calabrese ed in particolare l'atmosfera sospesa che riesce a creare. Chi la ascolta ha sempre la sensazione che da un momento all'altro qualcosa stia per succedere e quando accade lo fa in una maniera dirompente. L'apertura corale che ne segue è in esperanto: "Mi timas en la mallimo de nocto, sed en la mateno vin eliri printempo" che significa "Sono spaventato nel buio della notte, ma al mattino tornerà la primavera". La scelta di questa lingua si collega alle finalità per le quali è stata creata: far dialogare diversi popoli cercando di generare comprensione, rispetto e pace tra essi attraverso una lingua semplice ed appartenente non ad un solo popolo ma a tutta l'umanità. In “Kore” la frase si ripete più volte come un mantra che allontana gli affanni dell'esistenza e regala speranza per il futuro.

Quanta importanza a livello ispirativo hanno avuto in questo disco gli studi di Lapassade sul rapporto tra il tarantismo e la trance? 
Luca Buccarella - I lavori di ricerca che studiosi come Lapassade, Kramer e De Martino hanno condotto ci offrono innanzitutto un quadro globale di come i concetti di mito,  rito e possessione abbiano dei punti in comune in tutte le parti del mondo. Notiamo come rituali in Grecia, Etiopia, Sud Italia, Brasile, Tunisia siano legati da fili conduttori quali la musica, la danza, la trance, tutte parti attive di un processo di guarigione. Oggi il tempo e il Salento in cui viviamo non hanno più bisogno del linguaggio simbolico per dare un nome e una drammatizzazione al proprio disagio ma noi crediamo comunque che ci sia bisogno di utilizzare ancora la musica ,la danza e la trance come mezzi sempre efficaci per attuare processi di guarigione dei disagi attuali che non  sono scomparsi insieme al famoso ragno.

Al disco hanno preso parte diversi ospiti, quanto è stato importante il loro contributo?
Riccardo Laganà - Abbiamo inteso il nostro nuovo album come una festa. Un modo per raccontare e raccontarci insieme agli amici che ci hanno accompagnato e ci accompagnano tuttora nel nostro viaggio. Ed è stato incredibilmente divertente. Redi Hasa, folle violoncellista di spessore internazionale oltre ad aver suonato il suo cello “come non si deve suonare” in “Mary di Salem”, ha per la prima volta inciso su un album la sua voce. Ed è stato semplicemente strabiliante. La lira calabrese di Federica Santoro ha dato un tocco di Calabria alla nostra “Kore”. Il produttore del precedente album e notro grande amico, Stefano “Iasko” Iascone, ha suonato ancora la sua tromba con noi, ma come non l’avevamo mai sentita prima. Antonio Putzu, virtuoso fiatista siciliano, che da anni suona e collabora con noi, ci ha regalato il magico suono del suo marranzano in “This way”. 
L’eccelso violoncellista Marco Decimo, con il quale ho il grande piacere di suonare nell’ensemble di Ludovico Einaudi ha impreziosito il brano “Moi!” con il suo tocco da maestro. L’eccentrico e spumeggiante pianista Roberto Esposito ci ha fatto un regalo inviandoci la chiusura di “Lu Sule” via Whatsapp. Il nostro amico Rocco Angilè ha formato una banda su misura per i Kalàscima, La banda di Rocco, che suona con noi in “Lu sule” e “Musa reprise”. I nostri angeli custodi, ovvero il produttore Alberto Fabris e l’ingegnere del suono Gianluca Mancini, con la collaborazione di Salvatore Capacchione, hanno sparso qua e la gemme di musica e idee che solo i grandi sanno avere. E il Maestro Ludovico Einaudi ha fatto diventare “Due Mari” quel viaggio totale che è. Il tutto ovviamente sotto l’occhio e la mano attenta della settima essenza dei Kalàscima, Sandro Rizzo, che cura i nostri suoni, le nostre immagini, le nostre copertine, i nostri video, le nostre foto…

Quali sono state le ispirazioni alla base di brani come la title track, “This Way” e “Moi!”…
Riccardo Laganà - L’ispirazione è sempre la stessa, quella che ha portato alla nascita dei Kalàscima: raccontare il nostro tempo con la nostra musica. I testi, sempre in dialetto, parlano delle storie che viviamo negli anni 2000. In “This way” abbiamo palesato la nostra convinzione riguardo la nostra musica tradizionale: come prima si suonava per guarire i mali del tempo con un rituale e una procedura ben definita, oggi con la musica si fa lo stesso. Suoniamo per esorcizzare i mali del nostro tempo, con gli strumenti di quello passato insieme agli strumenti di oggi. In “Moi!” affrontiamo un altro tema che ci sta molto a cuore, ovvero l’emigrazione, in questo brano vista al contrario. Chi parla è uno dei migranti che ogni giorno arrivano sulle nostre coste. E il nostro paese si comporta con queste persone come se avesse dimenticato il trattamento vergognoso che veniva riservato a noi quando emigravamo in America, in Belgio o in Svizzera. “E tu italiano che mi guardi, te lo sei mai chiesto se io ci volevo venire qui?”. 

Le strutture tradizionali della pizzica pizzica le ritroviamo, colorate di nuove suggestioni sonore in “Mary di Salem” e “Il Giardino”. Come avete approcciato la costruzione melodica e ritmica di questi brani?
Riccardo Basile - “Il Giardino” e “Mary di Salem” sono forse i due brani che più si ispirano e rispecchiano, dal punto di vista della struttura e delle melodie, il modo di suonare dei cantori di una volta; la prima segue una struttura piuttosto semplice cantato/strumentale, conservando quasi completamente la melodia tradizionale dei cantati e dando giusto un po’ di spazio all’interpretazione negli strumentali. Abbiamo voluto sviluppare, in musica, una sorta di “viaggio” all’interno di questo “giardino”, in un crescendo di sonorità e di emozioni, proprio come se le sensazioni provocate dalla bellezza di ciò che si vede addentrandosi in questo luogo magico, sconvolgessero la percezione delle cose. La seconda, Mary di Salem, si rifà al modo di suonare usato dai musici che continuavano a suonare per ore, giorni, cercando di “curare” la “tarantata” o il “tarantato” di turno, basandosi su un incalzare ossessivo, quasi ipnotico, della musica. Quello che più ci è venuto naturale, è stato cercare di sottolineare proprio l’aspetto trance­ipnotico, mescolando al battere costante e incessante del tamburo delle linee ossessive, quasi martellanti, dei suoni profondi e una struttura più “libera”, un po’ a voler rievocare quel senso di disorientamento provocato dal non aver pieno possesso delle proprie capacità psicofisiche. 

Tra i brani più intensi del disco, un discorso a parte lo merita “Due Mari” in cui spicca il pianoforte di Ludovico Einaudi. Cosa ha ispirato questo brano?
Massimiliano De Marco - “Due mari” è un brano che scivola tra le dita come acqua. L'immagine della sua genesi è vicina ad un fiume ed i suoi affluenti che si incontrano e viaggiano verso il mare. Nel tempo, infatti, sono confluite e si sono stratificate suggestioni, ricordi, spunti, emozioni in circostanze, luoghi e tempi diversi. Alcune parti del brano erano state registrate distrattamente sul telefonino circa un anno e mezzo prima, ma non era ancora il loro momento, avevano bisogno di decantare. Dopo alcuni mesi e ci trovavamo in Australia per il nostro secondo tour; aspettavamo l'autobus nel centro di Sydney e nell'attesa qualcuno di noi canticchiava il tema centrale, gli altri si sono aggiunti armonizzando e dando corpo alla melodia con le sole voci; gli australiani ci guardavano divertiti e noi aggiungevamo un affluente al nostro fiumiciattolo.  
La struttura finale del brano è stata invece concepita durante la pre-produzione in Kasa Kalàscima, la nostra casa/laboratorio di Lecce. Man mano che si aggiungeva una nuova parte, strumento o voce, capivamo che il brano riusciva a comunicare con le immagini molto più di quello che avrebbero fatto le parole. E' stata forse questa modalità compositiva essenziale che ha portato Ludovico ad affezionarsi al brano regalandoci il suo piano morbido ed intenso, un respiro riflessivo ma pieno di leggerezza. A quel punto per noi il quadro era completo : eravamo a Santa Maria di Leuca e dall'alto del faro vedevamo baciarsi due mari.

Ad uno degli episodi più importanti delle lotte dei contadini in Salento è dedicato “La Rivolta dell’Arneo”. Da dov’è nata questa scelta?
Andrea Morciano - Kalàscima è innanzitutto memoria sociale. Altoparlante di storie accadute e da non dimenticare. Suonare, cantare, scrivere sono pratiche comuni. Sono come ridere, mangiare, dormire. Nulla è più fuori dal comune che ricordare. Ricordando si vive, si piange, si ride, ci si nutre tutti al contempo. È una straordinaria capacità che rende una terra la terra dei propri cari, che rende un suono il suono dei propri nonni, una lotta la lotta di un popolo che ci ha preceduti e rivive quotidianamente in noi. Ecco perché primario compito dei Kalàscima è stato sempre quello di parlare di quello che i libri non dicono. E la “Rivolta dell'Arneo” è la lotta di un popolo per una terra di cui aveva ed ha tuttora diritto. Perché una terra appartiene al proprio popolo, e non ai propri padroni. È la storia di gente comune che lotta per non morire. E scrivere di loro è stato, come sempre, per me un dovere. Un tributo a chi ha consentito a me e a tutti noi di poter vivere, ridere e ricordare. Finché ci sarà una storia giusta da raccontare Kalàscima sarà lì a gridarla. 

Dalla collaborazione con la Banda di Rocco è nato il brano conclusivo “Musa”. Ci potete raccontare la genesi di questo brano?
Aldo Iezza - “Musa” è il primo brano strumentale che ho composto per zampogna e nasce dalla voglia di integrare questo strumento antico con la musica moderna, come il rock, ma anche influenzato dalla mia passione nei confronti di una tradizione molto forte che è quella della musica celtica. E’ rimasto inedito per diversi anni e riascoltandolo col resto della banda si è poi rivelato un brano adatto al progetto Kalàscima. 
Grazie ad un meticoloso lavoro di arrangiamento siamo giunti al risultato finale in cui la zampogna rimane il punto cardine del brano, contemporaneamente dialoga sia con gli strumenti della tradizione salentina sia con la modernità di strumenti attuali, come ad esempio il basso elettrico e soprattutto ad un aspetto fondamentale che caratterizza non solo “Musa” ma l’intero disco “Psychedelic Trance Tarantella”, mi riferisco all'utilizzo degli arrangiamenti elettronici curati da Enrico Russo. In questo modo Musa diventa un brano d’impatto e con una ritmica serrata assume una forma che può essere facilmente paragonata al celtic-rock. La breve suite che segue Musa è “Musa reprise”, brano di chiusura del disco, scritto e arrangiato da Alberto Fabris, straordinario produttore del nostro lavoro, con la “Banda di Rocco”. Si tratta di una suite che col suo aspetto etereo e sospeso vuole concludere quanto detto dai precedenti brani del disco. In “Musa reprise”, la classica banda di paese composta dai fiati e dalle percussioni che siamo abituati a vedere nelle feste, assume un aspetto atipico e, pur rimanendo ancorata alla sua tradizione, si integra perfettamente con la nostra Trance Psychedelica. 

Concludendo come saranno i concerti in cui presenterete “Psychedelic Trance Tarantella”?
Saranno una festa totale. Non vediamo l’ora di condividere tutta questa musica, queste parole e questa energia con il nostro pubblico. Sara sicuramente un concerto diverso, innovativo e ricco di sorprese, con tanti suoni e tante luci che ci accompagneranno nel nostro viaggio. Vogliamo che il live sia come il disco. Una novità nel panorama della musica folk. Ed è per questo che invitiamo tutti a venirci a trovare, ci sarà da divertirsi e noi vi aspettiamo!



Kalàscima - Psychedelic Trance Tarantella (Ponderosa Music & Art, 2015)
Spostare sempre più avanti il confine della ricerca sonora, ed uscire dagli schemi delle convenzioni, è sempre una scommessa, ed ancor di più lo è quando si decide di abbandonare una strada sicura dal punto di vista musicale, per imboccarne un'altra ancora tutta da scoprire. La capacità di osare, e la consapevolezza nei propri mezzi però rendono tutto più semplice, anche superare gli ostacoli più ardui. E’ il caso di “Psychedelic Trance Tarantella”, il nuovo album dei salentini Kalàscima, i quali hanno deciso di proseguire il cammino intrapreso con il loro secondo album “Santa Maria del Foggiaro”, per indirizzare la propria ricerca sonora verso l’incrocio tra i ritmi e le timbriche della tradizione salentina, con i beat e i synth dell’elettronica. Sebbene si contino già diversi esperimenti in questo senso, – si vedano i dischi di Mascarimirì, Nidi d’Arac e Antonio Castrignanò - i Kalàscima hanno fatto di più, mirando a destrutturare e ricontestualizzare la tradizione, spinti dall’esigenza di esplorare nuovi orizzonti sonori per dare nuova vita alla musica della loro terra. Il risultato è un disco travolgente nel quale il ritmo della pizzica pizzica abbandona l’aurea del revival per assumere contorni moderni, si libera del peso delle pedisseque interpretazioni per immergersi in un viaggio visionario, nel quale i tamburi a cornice e le percussioni di Federico e Riccardo Laganà, dialogano con le alchimie sonore di synth di Enrico Russo e Riccardo Basile, mentre ad evocare le melodie antiche sono le corde di Massimiliano De Marco, i mantici di Luca Buccarella e i fiati di Aldo Iezza. Per avere un’idea di quello che potrà riservare all’ascoltatore il disco, basta dare uno sguardo alla copertina, con il tamburo a cornice ritratto con sonagli fatti di circuiti elettrice e collegato ad amplificatore da un jack. La vera sorprese arriva però con l’ascolto, è in quel momento che si tocca con mano come i Kalàscima siano riusciti nell’intento di vivificare la tradizione nella sua accezione più pura, diventandone essi stessi parte integrante attraverso le loro sperimentazioni e contaminazioni sonore. Il ritmo travolgente della title-track, e il fascino che lega presente, passato e futuro di “This Way”, ci conducono subito al brano più intenso del disco “Lu Sule”, un canto intenso e sofferto dedicato a quanti hanno dovuto lasciare la propria terra per studiare o lavorare, sono gli emigranti di oggi cantati anche in “Canto degli emigranti”. Se l’elettronica prende il sopravvento in “Moi!” e si mescola al violoncello di Redi Hasa che brilla in “Mary di Salem”, nella successiva “Due Mari” assume il tratto orchestrale con la meravigliosa tessitura melodica del pianoforte di Ludovico Einaudi. La splendida “Kore” in cui spicca la lira calabrese suonata da Federica Santoro ci conduce verso il finale con il crescendo ritmico de “Il Giardino”, e  “La rivolta dell’Arneo”, dedicata a quei contadini che si batterono nel 1950 per la riforma agraria nell’agro dell’Arneo. Quel gioiellino che è “Musa reprise” con protagonista i fiati de La banda di Rocco, suggella un disco di grande pregio nel quale il ritmo antico del tamburo a cornice diventa la base di partenza per un viaggio attraverso i suoni ipnotici della trance e della psichedelia.


Salvatore Esposito 
Nuova Vecchia