A quasi vent’anni dallo straordinario disco di esordio “Brown Sugar” e a quattordici da “Voodoo”, due dischi che univano in una miscela esplosiva funk, soul, hip hop e fascino tipicamente black D’Angelo torna con “Black Messiah”, album che lo rilancia come figura centrale del modern soul, in grado non solo di liberarsi dalla tendenza al barocco che caratterizza la black music di questi anni, ma anche di uscire dagli schemi proponendo un sound personalissimo e di grande musicalità. Inciso con The Vanguard, e pubblicato dalla R.C.A., la casa discografica di Elvis A. Presley, il disco raccoglie dodici brani costruiti su un pastiche di ritmi eleganti, splendide basse frequenze e tante chitarra, che riprendono in qualche modo il sentiero già battuto da Sly e la sua Family Stone prima e in seguito da Prince, il genio di Minneapolis. In questi anni D’Angelo ha avuto modo di imparare a suonare la chitarra, di affinare la sua cifra stilistica ed il suo approccio, ma la vera rivoluzione copernicana di questo disco, risiede nei temi affrontati, che escono completamente dal raggio autoreferenziale e scontato della black modern music, per aprirsi all’attualità, come nel caso dell’attacco alla politica di Barak Obama, presidente afroamericano che si trova ad affrontare una recrudescenza di tensioni razziali, evidentemente mai risolte del tutto dentro una società americana quanto mai ignorante. “Volevamo solo poter parlare, dire la nostra, ci siamo trovati disegnati col gesso per terra” canta in un brano. Falsetto acrobatico, grooves che si inseguono e un sound ricercato nella sua complessità, sono questi gli altri ingredienti del disco, che all’ascolto iniziale si rivela godibile, ma poi si svela nella sua complessità come un videogioco con più livelli di lettura. E’ il caso ad esempio in cui Questlove, batterista e membro dei The Roots, infarcisce le tracce di groove potenti e swinganti o il geniale silenzioso più che rock Pino Palladino al basso (già bassista dei The Who just to say...) ci mette il suo inimitabile quattro corde possente. Il fare musica di D’Angelo è assolutamente irriproducibile qui in Italia, dove il ritmo è ancora un illustre sconosciuto. Ascoltate la maggior parte dei dischi prodotti qui da noi e troverete una totale assenza di groove, un elemento fondamentale della musica, forse poco spiegabile razionalmente, ma è quel ritmo ancestrale, che rimanda alle forme di musica primordiali. E’ quello che ascoltiamo in James Brown ed Otis Redding ma anche nel phrasing implacabile di Bob Dylan o nel modo di portare il cantato di Lou Reed, è il groove che ci fa amare i Rolling Stones ed Elvis Presley! E’ tutta una questione di tempo e di come lo si vive, ed è la differenza fondamentale tra ciò che risulta datato e la grande musica. Questo è un elemento importante su cui riflettere, in ogni momento quando si ci confronta con un disco. Trovo più intrigante e challenging un disco che riesce a farmi pensare mentre mi fa ballare, che il solito sermone per sordi che parte dal pulpito della polverosa chiesa del roots e dell’americana. Siamo nel 2015, cari ragazzi di una volta come me! Massimo rispetto per chi trent’anni fa era già in viaggio, ma dobbiamo sempre e comunque guardare avanti. Grande prova musicale e splendido disco!
Antonio "Rigo" Righetti