Peppe Cuga, sar “bídulas” di Ovodda e il ricordo di Giuseppe Cau

Classe 1946, corporatura robusta, carattere energico, folta barba bianca, capelli lunghi alla “nazarena”, fortemente attaccato alle tradizioni locali. Peppe Cuga è figura di spicco della tradizione regionale ed è anche stato uno dei primi suonatori a ricevere l’attenzione di autorevoli etnomusicologi, quali Pietro Sassu e Roberto Leydi (“Autunno Musicale di Como”). Cuga vive a Ovodda (NU), paese situato nella Barbagia del Mandrolisai a economia prevalentemente agro-pastorale. Luoghi incontaminati dove elevata è l’aspettativa di vita. Tra i centenari, la più longeva è stata Rosa Frau, deceduta lo scorso anno all’età di cento undici anni. Il dialetto locale è stato oggetto di numerosi studi, particolarmente noti sono quelli condotti dal linguista Jürgen Heinz Wolf. Musicalmente Ovodda è un paese vivace, contraddistinto dal canto a tenore (“su cuncordu”) e dai balli accompagnati dal suono dell’organetto o delle “bídulas”, il nome con il quale sono denominate localmente le launeddas. 

Il paese, la tradizione, la famiglia 
 A Ovodda (NU) e in tutta la Sardegna, Giuseppe Cuga è conosciuto come Peppe il suonatore di “bídulas”. A questa denominazione dello strumento tiene particolarmente, perché riferita alla sua micro cultura. Verso la fine degli anni Novanta, ricordo un suo deciso intervento durante un Convegno regionale dedicato ai balli sardi, con il quale mise in riga i relatori senza troppi preamboli. «Ho ascoltato con gran rispetto e interesse gli studiosi, i quali però mi sembra sappiano parlare solo di launeddas. Essendo stato invitato come suonatore dello strumento popolare, non vorrei deludere nessuno, ma nel mio paese questo nome - launeddas - non è usato. Noi lo strumento musicale lo chiamiamo “vídula” o “bídulas”, a seconda di com’è composta la frase. È una precisazione importante, perché dietro a questo nome vi sono la cultura del mio paese e un modo di suonare lo strumento che ho appreso da mio nonno, il quale a sua volta lo aveva appreso dal padre, originario di Tiana». Sin dagli anni Settanta, Peppe Cuga è sempre stato considerato un “isolato” in terra sarda, essendo l’unico suonatore nel nuorese in grado di eseguire con lo strumento tricalamo un repertorio locale, secondo lo stile barbaricino. Una perla rara, a mio parere, sempre troppo sottovalutata. Anche gli studi storici in merito alla sua tradizione strumentale sono lacunosi e stereotipati, ma ritengo potranno a breve fare un salto qualitativo, grazie anche alle ricerche storiche e d’archivio condotte da Raffaele Cau Bua, che ha pubblicato una voluminosa e pionieristica opera dedicata alla discendenza dei nuclei familiari di Ovodda tra il 1600 e il 1935. 
A Ovodda l’ospitalità è sacra. Pur stravolto dalla stanchezza, a causa di una serata folclorica terminata alle ore piccole, mi ha ricevuto (insieme a una sorella, infermiera in pensione, legatissima al fratello) di primo mattino nella sua casa, invitandomi a dialogare in un disimpegno dell’abitazione, nel quale c’è il tavolo sopra al quale è solito costruire gli strumenti musicali. Tale disimpegno è il luogo nel quale vi sono il camino, la televisione e due immagini cui tiene particolarmente. Quella del nonno, Giuseppe Cau, suo maestro di “bídulas” e quella della moglie, signora Pippia Maria Efisia, di Nuraxinieddu - con la quale era legato (tiene a far sapere) da quando lei aveva diciassette anni. “Doveva essere il mio pilastro anche durante la vecchiaia”, dice commosso. Purtroppo, la signora Pippia è deceduta a soli quarantuno anni, a seguito di una lunga malattia. Dopo il caffè e la sigaretta di rito, Peppe ha voluto mostrare la casa che ha costruito con le sue mani e con l’aiuto di amici e parenti, suoi vicini di casa. «Di sole “bídulas” non si vive. Alcuni lavori li ho interrotti. Poco per volta,finirò di costruire anche l’arredamento interno». Veniamo ora al dunque musicale, partendo da un documento che Peppe ha mostrato con motivato entusiasmo, trattandosi dell’invito della Sovrintendenza del Teatro alla “Scala” per suonare a Milano, nel 1978, al “Piccolo Teatro”, all’epoca dipendente dal principale Teatro melodrammatico. L’evento fece scalpore, perché le resistenze e i pregiudizi delle Accademie (musicali e non) erano reali, tendenti a ignorare i suonatori della cultura popolare. Il concerto fu un successo e servì a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di salvaguardare un patrimonio musicale popolare che rischiava di perdersi. In Sardegna la situazione eranotoriamente critica. “Come suonatori, in quegli anni ci potevamo contare sulle dita delle mani e proprio per questo ci invitavano dappertutto”. In merito, Luigi Lai (noto suonatore di San Vito) è solito ricordare che, al suo ritorno dalla Svizzera, nel 1971, il mondo delle launeddas era in crisi, tanto che non si riuscivano più a trovare abili suonatori neppure per la Sagra patronale di Sant’Efisio a Cagliari. 

Il lavoro, sar “bídulas” e il ricordo di Giuseppe Cau 
Negli anni Settanta, Peppe Cuga era già un personaggio carismatico. A suo modo, aveva cercato di ricavare informazioni più precise da alcuni compaesani, soprattutto in rapporto alla musica che si cantava e si suonava nella chiesa di Ovodda. Questa curiosità era stata destata dal fatto che lui sapeva che il nonno, Giuseppe Cau, suonava per le funzioni e nei matrimoni, ma che a un certo punto dovette smettere, perché fu acquistato l’harmonium, in breve tempo usato in completa sostituzione de sar “bídulas”. Tra i suoi informatori, mi ha citato un’anziana compaesana, tale tzia Rosa Lotzas, la quale era riuscita a chiarire che lo strumento era stato acquistato tra il 1919 e il 1921. Dopo avermi parlato di tzia Rosa, Peppe ha voluto mostrare una foto del nonno, che tiene con gran rispetto appesa alla parete. Di Giuseppe Cau, sino a oggi, è stato scritto pochissimo. Era uomo di tempra, dotato di forza speciale, “molto grande per l’epoca”, abituato sin da bambino a lavorare con fatica. La fotografia pare sia unica e non si sa chi gliela avesse scattata, ma ciò che conta è che “… se io esisto come suonatore lo devo a lui e a suo padre”. Peppe in Sardegna è noto anche per la sua attività sindacale. Parla volentieri di lavoro. 
Ancora bambino, grazie al nonno aveva imparato a fare il muratore, mentre con il padre, Francesco Cuga, lavorava in campagna e raccoglieva la legna, indispensabile per scaldarsi durante i rigidi inverni montani. Come molti suoi coetanei, Peppe aveva studiato conseguendo la licenza media come studente lavoratore, frequentando le scuole serali. Tuttavia il lavoro in Sardegna era precario, per cui scelse di emigrare, operando come carpentiere in Emilia, in Piemonte, in Africa (Libia). Poi il ritorno definitivo nell’Isola, nel 1971, dove lavorò per la costruzione della centrale elettrica del Talòro. Nel 1977, terminata la costruzione, iniziarono i licenziamenti. Vi furono mesi e mesi di lotte in difesa di un’occupazione stabile. Molti in Sardegna conservano ancora vivo il ricordo di Peppe operaio e sindacalista, intento a suonare sar “bídulas” durante i tre mesi consecutivi di occupazione, rintanati nelle grotte sotto la centrale. Ripresa dai media locali, la loro uscita avvenne proprio al suono di melodie eseguite da Cuga, il quale in seguito riuscì a trovare un’occupazione più stabile presso un Ente pubblico. Da alcuni anni è sopraggiunta la meritata pensione che ora cerca di godersi tra i familiari, nella “quiete” della propria comunità, partecipando quando chiamato a concerti e a rassegne musicali. Dopo aver rievocato il passato familiare e lavorativo, con Cuga abbiamo iniziato a parlare della sua passione per lo strumento musicale e per le tradizioni locali in generale. Sar “bídulas” hanno fatto parte della vita di Cuga sin da quando è nato, avendole potute ascoltare quotidianamente dal nonno. Vivido è il suo ricordo mentre è intento a suonare il ballo nel “camerone” di Pietro Puddu, padre di Gianni, proprietario di alcuni negozi di abbigliamento. Occasione coreutica nella quale tutti i compaesani si divertivano, uniti dal ballo, formando diversi cerchi, uno dentro l’altro. Altri ricordi sono riferiti agli esercizi per imparare la tecnica del fiato continuo. «Ero bambino e mi divertivo a provare e a riprovare. A volte ci riuscivo quando ero solo, poi andavo dal nonno ma, quando ero al suo cospetto, mi emozionavo e non ce la facevo più». L’elogio da parte del nonno arrivò durante una festa natalizia, nella quale il suonatore era intento ad accompagnare i balli. Il piccolo Peppe aveva preso sar “bídulas” e, come di consueto, si era appartato nella stanza vicina, iniziando a soffiare per esercitare il fiato continuo a imitazione del nonno. Questi, pur intento a suonare, lo ascoltò e a un certo momento interruppe la sua esecuzione. Si avvicinò al nipote, il quale timoroso si bloccò. Il nonno imperioso gli disse: - Suona! Peppe riprese a suonare e questa volta il fiato continuo era tale (“… anche se emozionato, sono riuscito a fare il fiato…”). Al nonno si spalancarono gli occhi di gioia esclamando:- Arfatu su tantu … (hai fatto il tanto), adesso puoi diventare un suonatore. Cuga mi ha chiarito che con il nonno non esistevano momenti specifici per fare lezione, secondo una concezione in uso nel Sarrabus o nella Trexenta. Innanzitutto, perché all’epoca era troppo piccolo, inoltre perché non esisteva localmente una tradizione scolastica riferita allo strumento musicale. Peppe ascoltava suonare il nonno e poi, ludicamente, provava a ripetere quello che aveva sentito. Ricorda però che, ogni tanto, il nonno si avvicinava e gli diceva come mettere e “snodare” le dita sulle due canne, ma non era un insegnamento costante e metodico. 
Giuseppe Cau possedeva diversi strumenti, ma quello che usava di più era un “punto d’organo”(e forse il “fiorassiu”), lo strumento sul quale si esercitava anche il piccolo Peppe, che oggi utilizza diversi “cuntzertus” (“punto d’organo, fiorassiu, fiudedda”). Vi è da dire che, negli anni, Cuga ha imparato a costruire i propri strumenti, mentre il nonno ai tempi li acquistava in Campidano. In merito all’acquisto degli strumenti da parte del nonno, sintetizzo quella che Cuga ha definito “una storiella curiosa”, raccontatagli da tal Peppe Meli quando Giuseppe Cau era ormai già deceduto da qualche tempo. Un trasportatore di materiali edili conosceva un costruttore e suonatore di Villamar, in grado di realizzare degli strumenti “meravigliosi”. Giuseppe Cau gli chiese di interessarsi, perché ne voleva uno costruito per lui: “… grande di misura, basso di tono e forte, tanto forte da richiedere molto, molto fiato, da renderlo quasi impossibile da suonare”. Il costruttore, sebbene titubante, costruì le launeddas come richiesto. Giuseppe Cau rimase contentissimo. Cuga, con una certa soddisfazione, ha raccontato quest’avvenimento, perché ritiene sia indicativo della personalità del nonno, ritenuto in famiglia e nella comunità uomo di tempra, che sapeva distinguersi anche sul lavoro: - … il nonno era forte, doveva sempre vincere a tutti i costi… era forte fisicamente, ed era invincibile nel fiato (continuo) … era anche di animo buono, se un amico aveva bisogno lui, lo aiutava e, se serviva, tirava fuori il portafogli per offrire denaro. Cuga ha riferito di non aver mai ricevuto un particolare tipo di strumento in regalo dal nonno, il quale pare li lasciasse a sua disposizione. Peppe, da bambino, prendeva con cura lo strumento che gli occorreva, suonava e poi lo rimetteva a posto. In merito mi ha chiarito che il nonno non usava un “istracassu” (custodia sul tipo di quella dei launeddari campidanesi) per proteggere gli strumenti, bensì una sorta di faretra da lui stesso adattata all’uso, che aveva ricavato da un fucile mitragliatore, tipo bazooka, procuratogli da un conoscente. Cuga ha chiarito che Giuseppe Cau lavorava duramente, per cui gli unici momenti per dedicarsi allo strumento erano quelli del dopo pranzo o del dopo cena. Pare riuscisse a esercitarsi tutti i giorni, una consuetudine che perdurò ancora negli anni Cinquanta. A volte suonava dopo pranzo, prima di tornare a lavorare; altre volte dopo cena. Tuttavia Cuga non ricorda il nonno intento a suonare a casa per un tempo particolarmente prolungato. Ciò semmai avveniva durante le feste o quando si trovava in allegra compagnia, per ricorrenze o matrimoni. Dal nonno e dai compaesani più anziani, aveva saputo che, in queste ultime occasioni, fino a quando era in vita il bisnonno, Bobore e Giuseppe Cau suonavano in coppia, accompagnando gli sposi per la strada principale del paese. Un’usanza rimasta viva fino all’arrivo dell’harmonium. In chiesa pare si suonasse con sar“bídulas” tutto l’ordinario della messa, però mi ha chiarito «… io la messa non l’ho mai sentita, quando ero piccolo, l’armonium doveva essere stato introdotto da almeno venticinque anni. In chiesa noi avevamo don Sandro, che faceva cantare in latino ma lo strumento non c’era più». Vi è un altro ricordo di Cuga che ben testimonia l’affetto dei familiari per il nonno. Quando morì, Peppe era ragazzino. Per ricordarsi di lui, gli piaceva utilizzare i suoi strumenti. 
Tuttavia a Ovodda vige tuttora la consuetudine di non suonare lo strumento nei periodi successivi al lutto, di conseguenza la madre lo rimproverava ogni volta che iniziava a suonare. La madre, SisinnaCau, era molto affezionata al padre e, quindi, non voleva che fossero suonate sar “bídulas”, perché “la musica era considerata una cosa di allegria”. Il tema del lutto sul suono de sar “bídulas” ha stimolato anche altri ricordi del suonatore di Ovodda. In particolare quello di quando aveva undici anni. Da poco era deceduta la nonna, moglie di Giuseppe Cau, il quale per rispetto alla consorte non aveva più voluto suonare. «A quel tempo l’avrò sentito suonare solo alcune volte, come ad esempio quando vennero per una festa pastorale dei suonatori dal campidano. In quest’occasione avevano fatto insieme qualche suonatina, ma in privato. Poi, a quel tempo, non vi era solo il lutto della moglie, ma si attraversava un periodo di crisi in cui non si suonava più perché tutti stavano perdendo le tradizioni (e ciò non avveniva solo a Ovodda…). Quando ho ripreso io, quelli che riuscivano a suonare in tutta la Sardegna saranno stati una decina. O meglio ce ne erano di più, ma quelli che suonavano veramente erano pochissimi. Qui, da queste parti, c’ero solo io, ma so (penso lo abbia scritto anche Wagner) che sar “bídulas” c’erano anche a Belvì, con due famiglie di suonatori, una Porcu e l’altra Mura, per cui vuol dire che la tradizione non era solo nostra di Ovodda, ma anche di altre zone. Siccome il noto bronzetto nuragico del suonatore di launeddas è stato trovato a Ittiri, in provincia di Sassari, è possibile che lo strumento fosse un tempo diffuso un po’ in tutta la Sardegna»

Lo stile e il repertorio di Peppe Cuga 
Dopo il decesso del nonno e dopo la pausa lavorativa da emigrante, Cuga riprese progressivamente a suonare a seguito di contatti con Felicino Pili, originario di Villaputzu, ma che si era trasferito a vivere nell’oristanese, precisamente a Santa Giusta. Era molto amico di due importanti suonatori del Sinis, Daniele Casu esu “Cau” (Francesco Castangia), residenti a Cabras. Lo stile esecutivo di Cuga è il risultato di diverse interpolazioni. Ha piena consapevolezza della propria unicità: «A me dicono che ho un modo di suonare diverso da quello dei colleghi campidanesi, che stimo molto e che mi stimano, quando ci incontriamo, è sempre festa. La particolarità di Ovodda è che noi avevamo vari modi per ballare. Nelle nostre case si ballava a voce sola, a cuncordu, a “bídulas” sole, si ballava a “bídulas” e a cuncordu insieme, anche quando poi sono arrivati gli organetti. Fino agli anni Venti stavano tutti insieme a suonare, organetto, “bídulas”, cuncordu, tutto in piazza, ballando in tundhu (in cerchio), che poi era un ovale, perché ballavano lungo la strada dato lo spazio ristretto. Sarebbe bello riprendere pienamente queste tradizioni». Nonostante la particolarità del suonatore e del suo stile e nonostante abbia con tenacia rappresentato il paese e la Sardegna in parecchie parti del mondo, riscuotendo riconoscimenti ovunque, le case discografiche hanno mostrato per Cuga scarso interesse, tanto che a mia conoscenza ancora non esiste in commercio un cd a lui interamente dedicato. Tuttavia non mancano negli archivi singole incisioni del suonatore di Ovodda, riportate in dischi o in raccolte(sparse) di musica sarda. Numerose sono, invece, le sue collaborazioni come accompagnatore di musica profana e religiosa. 
Con il gruppo folk chiamato “Orohòle” (nome del monte che sovrasta il paese), in un’edizione, hanno vinto il primo premio alla “Sagra del Redentore” (all’organetto Peppino Deiana e Peppe Cuga alle “bídulas”). All’Eurofestival del folklore di Langollen in Galles, nel ’76, il gruppo si classificò terzo, mentre Peppe Cuga vinse il primo premio come strumentista. Di passaggio, ritengo importante evidenziare che, per un certo periodo, Cuga ha suonato come componente dell’orchestra etnofonica (“Benas”) diretta da Ignazio Pes. Del suonatore popolare circolano alcune registrazioni di suonate denominate “s’ispossoriu”, “s’arroseada”, “sa dantza de Ovodda”, quest’ultima a volte eseguita con il Cuncordu, i cui componenti storici sono Giorgio Soddu (deceduto da alcuni anni), Silvano Soru, Antonio Mattu, Federico Vacca. Cuga mi ha riferito che le musiche tipiche di Ovodda sono: - i balli, “sosgotzos” e poi la tradizione del cuncordu, cioè del coro gutturale a quattro voci. Questi ultimi, in passato, entravano in chiesa solo la notte di Natale. “Gotzos” e “Pipieddhu” (il canto natalizio) lo facevano anche “a cuncordu”, ma non solo qui, anche a Fonni e in altri paesi. Purtroppo, che io sappia, non sono rimaste registrazioni dei cantori più antichi. Come ricercatore, trovo anomalo che a Ovodda non si siano attivati con metodo per garantire a Peppe Cuga la possibilità di fare “schola” presso i giovani del paese o del nuorese in generale. Cuga, ormai ha quasi settant’anni ed è chiaro che, se lui dovesse abbandonare, quest’area della Sardegna rimarrebbe scoperta, perdendo una tradizione che merita di essere caparbiamente conservata e valorizzata con sistematicità per fini culturali e promozionali. Peppe Cuga è personaggio di spicco della musica sarda. Essendo suonatore e abile costruttore, dopo più di quattro decenni di attività, sarebbe opportuno riconoscerlo come “maestro” e dargli la possibilità di operare presso scuole pubbliche. Inoltre, sarebbe urgente promuovere una pubblicazione discografica monografica, patrocinata dagli Enti locali. Peraltro, da qualche tempo, è impegnato ad allargare il proprio repertorio, suonando sperimentalmente in duo con Alberto Zucca, storico cantore di Neoneli. Si sono conosciuti alcuni decenni or sono durante un concerto. Alberto cantava “a tenore” e “a poesia” (in logudorese). Poi è dovuto emigrare. Ora è ritornato e il loro progetto di ricerca si annuncia interessante, poiché ricorda esperimenti musicali storici, immortalati nelle registrazioni di Efisio Melis con Gavino De Lunas. L’invito a Peppe è di tenere duro, avendo consapevolezza della sua unicità nel panorama della musica per launeddas, strumenti che da anni siamo impegnati a valorizzare globalmente. A breve, torneremo a scrivere sullo strumento sardo, trattando dei “so(n)us de canna” a Cabras, dove vive l’ottantunenne Giovanni Casu, arzillo maestro al quale è stata dedicata un’intera monografia etnorganologica, essendo il più autorevole suonatore e costruttore del Sinis, apprezzato in tutta la Sardegna e in Europa per lo stile conservativo detto “ a sa crabarissa”, del quale scrisse autorevolmente Andreas Fridolin Bentzon: illustre studioso danese, sincero amico della musica popolare sarda, al quale presto, con riconoscenza, desideriamo rendere doveroso omaggio. 



Paolo Mercurio

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