A nove anni di distanza da “Marinai Di Terra”, Oliviero Malaspina ritorna con un nuovo album di brani inediti che ci svelano il lato più intimo ed introspettivo del suo sonwriting. Gustandoci questo disco come fosse uno dei suoi tanti libri di poesia, scopriamo dodici canzoni pregevoli, dodici frammenti poetici, taglienti, sanguinanti, impastati di sofferenza ed inquietudine, in cui Malaspina mette a nudo la sua anima, regalandoci riflessioni profonde sull’esistenza, storie vissute ai margini della vita, schegge di ricordi che graffiano e segnano il cuore dell’ascoltatore. Lo abbiamo intervistato per approfondire insieme a lui i temi e le ispirazioni di questo suo nuovo lavoro.
Il tuo ultimo album esce a distanza di diversi anni dall’ultimo. Con quale animo si torna a raccontare attraverso una passione così forte?
Io non mi sono mai fermato, tantomeno davanti ad un intervento a cuore aperto che ho subito qualche anno fa. Questo nuovo disco esce a distanza di così tanto tempo perché ho voluto vivere insieme ai barboni, agli zingari, alle puttane, ai ragazzi di vita, e non starmene sul divano di casa a giocare al salgariano. In questi anni, nonostante questo percorso non sono stato fermo, perché ho continuato a scrivere per altri artisti che, credimi, mi hanno davvero spremuto come un limone.
Dal punto di vista musicale è molto vario. Convivono atmosfere dolci con incursioni più ostinate con chitarre distorte e ritmate, batteria. Qual è l’ispirazione generale che lega i brani?
Prima di arrivare alle versioni del disco, ho fatto diversi provini con sonorità più orchestrali, e forse anche più complesse. Alla fine ho scelto questo sound in modo naturale, seguendo le canzoni, che poi sono state curate con maestria dal punto di vista sonoro da Bianconi e Fracassi. Dal punto di vista dell’ispirazione ho seguito un percorso di neorealismo testuale.
Le musiche sono anche molto curate, con la presenza di strumenti acustici ed elettronici. La loro combinazione è più rappresentativa di una serie di sentimenti divergenti, contrastanti?
La musica naturalmente segue quello che è il testo, sottolineando stati d'animo ben precisi interiori ed esteriori, sono chiaroscuri, piani sequenza come in un film.
Riguardo invece i testi, possiamo dire che guidano l’atmosfera generale dell’album: un racconto ad ampio raggio sulla vita, sul tempo, sulle relazioni ?
L’incipit del disco con “Poi” è molto chiaro, lì viene negata ogni innocenza all’essere umano. Il nostro primo tradimento è uscire dal ventre materno, e per questo ho voluto che fosse mia madre, con la sua voce a recitare quel verso. Il disco raccoglie una serie di bozzetti, storie, racconti personali, cercando di mediare la violenza del reale con una certa poeticità dell'immaginario. La conclusione con “Dopo” è il trionfo degli ultimi, l'unico status non status che sfugge al potere politico e mediatico.
“C’è poca colpa nell’errore” e “quasi tutti hanno versato lacrime vere”?, come dici nel brano "Quasi tutti”...
Certamente l'errore è più interessante della virtù o presunta tale. L'errore contraddistingue ognuno di noi, essere per essere, ci dà un significante oltre che un significato, ci rende diversi e migliori. La “virtude” tende ad omologare se non a far diventare oligofrenici.
Citi e declini immagini centrali dell’immaginario musicale e politico moderno: “vita”, “strada”, “migranti”, “vuoto”, “amore”, “infinito”. Il disco sembra nascere da dentro ma anche da fuori l’autore…
Non c'è un dentro o un fuori ci sono stati d'animo, paesaggi interiori, e per paesaggi intendo non quelli che vediamo con la vista, ma quelli che viviamo nella pancia.
Una volta giunti alla fine dell’album ci si ritrova a riflettere in silenzio, con una sensazione profonda di comprensione, di condivisione. Come hai selezionato e organizzato i materiali di “Malaspina”? Hai seguito un progetto o sei stato trascinato dalla forma che prendeva dentro il processo di costruzione?
Sono stato travolto illuso e deluso, illuminato e mortificato. Non facciamo la mitologia degli ultimi diamo loro il potere di essere il caos, l’unica risoluzione possibile, l’arma incontrollabile in tutte le sue contraddizioni di luminosa bellezza di oscura “caritas”. Di fallimenti e negazioni di solitudini animate.
Oliviero Malaspina – Malaspina (Hydra Music/Lupo Editore, 2014)
In accordo con le (poche ma lusinghiere) notizie che da qualche tempo circolano intorno a Malaspina (Hydra Music/Lupo editore), il nuovo disco di Oliviero Malaspina, dopo l’ascolto dei dodici brani di cui è composto, si entra in una dimensione con cui non si ha più tanta confidenza. D’altronde la cesura con il paesaggio sonoro e le “immagini musicali” di tutti i giorni è netta. Specie se ci si sofferma (e senza farlo il disco è meglio tenerlo chiuso in un cassetto) a leggere il booklet (tra parentesi, la confezione dell’album è curatissima e ricca di informazioni), a riflettere sul tono dei versi, sui commenti da fare. Specie se si indugia ad ascoltare quella specie di frastuono sordo e sibilante che esplode dopo l’ultimo pezzo, mentre rimani seduto con gli occhi fissi su qualcosa, aggrappato al rimbombo di qualcuna delle mille parole strizzate e sputate da Malaspina, con il tono di chi non poteva scrivere altro: “Ti saluta mia madre. Dice che il mio dolore non è mai diventato risentimento o rancore. Piuttosto un senso di estraneità e di smarrimento come se la solitudine fosse un paio di scarpe da indossare ad ogni occasione. Che è vero si che per anni non mi ha cercato quasi nessuno, ma che ho sempre parlato bene di tutti” (tratto da un racconto-prologo che “introduce” i testi dei brani dell’album). Questi elementi, nell’insieme, creano un tollerabile disorientamento che, pian piano che si “approfondisce” il disco, riesce però a trasformarsi (e questo è il primo segno che ci informa sulla qualità della musica che si sta ascoltando) in una strana forma di ammirazione, in una sorta di confusa riconoscenza, nei confronti di un linguaggio che rappresenta - senza irrigidirsi in un’evocazione sterile - un’insieme di abitudini da qualche tempo abbandonate, una tradizione probabilmente decaduta, o comunque in decadenza. Una tradizione con la quale ci sembra di aver perso un dialogo “naturale” (percepito tale perché storico, storicizzato, oltre che socialmente e culturalmente trasversale), ma con cui non si ha più una progettualità e una visione comune, che ha caratterizzato, invece, la relazione tra diverse generazioni di musicisti e musicofili. Una dimensione lasciata scivolare insieme a un processo di assottigliamento della tradizione cantautorale che, nel nostro paese, sta inesorabilmente tramontando (almeno nelle forme tradizionali), nonostante alcuni comprensibili entusiasmi per qualche nuova “leva”, che riesce a emergere da qualche Sanremo o grazie al supporto di qualche label particolarmente forte o virtuosa, ma che, generalmente, non riesce a mantenere un ritmo dinamico e, forse, neanche un’ispirazione sufficientemente coerente. Una tradizione depauperata anche dal ritiro “originale” (e, credo dai più, incompreso) di Fossati, dalla scomparsa di Dalla, così come dalla rarefazione della produzione di De Gregori, Guccini, Battiato, Conte. Ci sono certamente rappresentati importanti di un filone di produzione musicale riconoscibile come “italiano”, sebbene estremamente differenziato al suo interno e spesso alimentato dalla singolare vocazione ad assorbire correnti e stili che vengono dall'estero e che caratterizzano altrettanto differenti repertori. Un filone che risponde ad alcuni tratti infrastrutturali che, in termini generali, potremmo far coincidere con la ricchezza dei temi evocati (spesso selezionati dalla storia o dalla cronaca - come facevano, d'altronde, i cantautori della “prima” generazione - altre volte da visioni molto personali, più estemporanee), con lo spessore dello scenario musicale e, infine, con la varietà delle immagini definite attraverso la narrazione e la costruzione complessiva dei brani, sia sul piano dei testi che delle musiche. Un filone che può, senza dubbio, includere Vinicio Capossela, la Bandabardò, i Marlene Kuntz. Ma anche il cantautorato più popular e, allo stesso tempo più marcatamente “mediterraneo” (anche se legato a suggestioni spesso opposte) di Max Gazzè, Samuele Bersani e Carmen Consoli. Così come le esperienze che sono maturate negli anni Novanta e che, per motivi diversi, non hanno avuto seguito (penso soprattutto ai C.S.I.). Con Malaspina, però - il quale, come sappiamo, non è dell’ultima ora, perché il suo primo disco risale alla metà degli anni Novanta - torniamo a specchiarci in qualcosa di diversamente rappresentativo, non solo della nostra musica “popolare” (per contrapporla, ribadendo la convenzione, alla tradizione classica), ma della nostra cultura (della nostra storia culturale, espressiva) in generale. L’album è cangiante, perché le soluzioni musicali sono molto varie (anche se non sempre originali) e allo stesso tempo coerente, stabile, equilibrato dall’incedere di un racconto vorticoso, furioso, ostinato, autorevole. Qualcosa che - nella misura in cui “torna” diritto da un progetto immaginifico, colmo di parole, di critica, di racconto crudo e tagliente: “le puttane del nuovo governo/ preferiscono certi poteri/ e gli ultimi estasiati/ proferiscono parole di agonia/ moto suadenti” ci dice nel brano “Migranti” - raccoglie gli elementi tradizionali di quel cantautorato più crudo e profondo, che non può non ricordare le falciate di De Andrè. Con De Andrè - un po' di storia si può fare - Malaspina ha d’altronde lavorato, partecipando a Notturni, il nebuloso progetto che è rimasto incompiuto per la morte del cantautore genovese e che voleva essere (lo dico con molta prudenza, perché le fonti sono ricostruite su appunti sparsi e qualche testimonianza) una sorta di requiem del vecchio secolo. Inutile dire (volendo semplificare e riducendo all’osso un complimento facile) che con De Andrè non ci lavoravano tutti. Inutile dire che se qualcuno l’ha lambito porta un segno profondo: “E certe volte è davvero meglio avere/ (davanti) un buco di culo/ che tante facce mediocri e per bene/ col loro sorriso sicuro”.
Tags:
Storie di Cantautori