Hanggai - Baifang (Harlem Recordings, 2013)

“Baifang” (“ritornando da te”, “indietro da te”) รจ la terza avventura della band pechinese originaria della Mongolia Interna, guidata dall’ex-punk rocker Ilchi, che in una decina d’anni si รจ costruita una solida reputazione nei festival rock e world music (da Roskilde a Sziget, da Wacken ai Womad Festival). Canto difonico, recitativi buddisti (collocati ad inizio, metร  e fine album), salterio, violino con corde in crine di cavallo, liuto a tre corde, scacciapensieri, percussioni, fisarmonica, contrabbasso incrociano batteria, chitarre rock e pianoforte. Il produttore JB Meijers ci mette del suo con qualche passaggio chitarristico psichedelico e con tocchi di piano. Un potente crossover che si sviluppa in ben 78 minuti di musica (perfino troppi) e un libretto di 30 pagine con traduzione dei testi in inglese, ma, graficamente, dalla non sempre agevole lettura. Affetti, racconti di emigrazione, paesaggi naturalistici, storie che arrivano dal passato e quadri della contemporaneitร  di mongoli urbanizzati si rintracciano nelle diciotto tracce dell’opera. Si passa dalle tiratissime cavalcate rock dal profilo perfino metal a brani che conservano la ieraticitร  della tradizione folklorica mongola sedimentata nei secoli. Dall’iniziale “Mangala sutra” si passa alla potenza della title-track e di “Hershut Hero”. Superba la mescolanza di flauto, cordofoni tradizionali, voci potenti e tecnica vocale hรถรถmiy, chitarre surf e virate psichedeliche di “Tavan Hasag”. Invece, “Miss Daughter”, cantata da una voce femminile sulla tessitura dominante del salterio, รจ morbida nelle sue sfumature di matrice cinese mainstream. Dopo la ninnananna quasi sussurrata “Qinhai Lullaby”, per voce e corde, le chitarre si fanno nuovamente roventi in “Hong Galou”. Brano tutto d’atmosfera รจ “Gold Buttons”, che apre la strada alla sdolcinata ballad “Ulanbator Nights”. Per fortuna una “canzone lunga” sostenuta a piena voce, con innesti di canto di gola e il dialogo strumentale del morin khuur, ci riporta alle alte vette musicali. Dopo un suggestivo inno naturalistico al “Golden Autumn” arriva l’inusitata puntata reggae e dub di “My Mother”. Il canto armonico รจ di nuovo protagonista nella successiva “Huhe Namjila”. Si galoppa, poi, alla grande, incensando un “Beautiful Mongolian Horse”. I tempi diventano lenti, con il piano di Meijers a punteggiare la leggenda cantata in “Daya Bala” e la bella voce femminile che duetta con il lead vocalist in “High Trees”. Non mancherร  il musicologo pronto a puntare l’indice verso le ruffianerie della world music; allora a lui rammentiamo: “Niente altro che quello che i Fairport Convention fecero oltre quattro decenni addietro”. 


Ciro De Rosa