Il riconoscimento speciale della giuria del premio “Costantino Nigra” 2014 è andato al libro “Séga Seghin’ Segamo. Studi e ricerche sul "Sega La Vecchia" in Umbria”, a cura di Giancarlo Baronti, Giancarlo Palombini e Daniele Parbuono. Il premio Nigra, sebbene quest’anno non disponesse dei fondi in denaro da corrispondere ai vincitori delle varie categorie, ha voluto comunque segnalare la sua presenza e, soprattutto, premiare con il suo riconoscimento simbolico i lavori più importanti prodotti nell’ambito degli studi antropologici. In particolare, il premio è andato, ex aequo, a “Le regioni dello sguardo. Pratiche dell'osservazione, della rappresentazione e della memoria”, il volume di Francesco Faeta che indaga il “campo di interazione sociale che convenzionalmente chiamiamo ‘osservazione’”, e a “San Domenico Abate di Sora e di Cocullo. Dalla illuministica religione del serpente pagano alla vera origine popolare del sacro dente cristiano”, di Giuseppe Profeta. Il corposo lavoro sul rituale del Sega la vecchia è costituito da tre tomi e un dvd. I primi due tomi raccolgono l’ossatura teorico-metodologica - in cui confluiscono contributi di carattere storico, saggi interpretativi, schede, analisi degli studi che hanno interessato il fenomeno dagli anni Cinquanta del Novecento, studi e trascrizioni linguistiche e musicali - mentre il terzo tomo è un volume fotografico, nel quale è stata organizzata, per la prima volta, un’ampia documentazione visuale del rituale, prodotta dalla seconda metà degli anni Cinquanta (molte foto sono quelle che Ando Gilardi scattò durante le ricerche effettuate per la prima volta da Tullio Seppilli e Diego Carpitella) ad oggi. Il dvd è stato organizzato, invece, come una raccolta di documenti multimediali, attraverso i quali si integra e si approfondisce lo scenario delineato dai volumi: fotografie (di due rappresentazioni del 1958 e una del 1973, e di interviste che coprono un ampio lasso di tempo, dal 1958 al 2011), audio di interviste storiche (effettuate nella seconda metà degli anni Cinquanta in località La Borgia, Parrano e Valvitiano), audio di alcune rappresentazioni storiche (di Parrano, Valvitiano e Casamanza), video di rappresentazioni e interviste, dal 1959 al 2011.
Il Diavolo, Casamanza (PG), 1958 - foto Urbano Medici |
Tra questi ultimi contributi vi è anche “Quaresima in Umbria”, il documentario girato da Michele Gandin, con la consulenza scientifica di Diego Carpitella e Tullio Seppilli, pubblicato nel 1961. Il rituale del Sega la vecchia è stato rilevato per la prima volta da Seppilli e Carpitella nel 1958, nel quadro delle ricerche (avviate, per la prima volta in Umbria secondo criteri scientifici, nel 1956) che i due studiosi stavano conducendo sul patrimonio etnomusicologico della regione e che hanno portato alla realizzazione delle Raccolte n. 33 e 37 dell’Archivio di Etnomusicologia dell’Accademia di S. Cecilia in Roma (AESC). Come si può leggere in un passo dell’introduzione al volume, “al di là dei modelli interpretativi impiegati, la ricerca del 1958 sul ‘Sega la vecchia’ costituisce un momento epocale nella storia degli studi antropologici non solo in ambito regionale: a più di quarant’anni dagli ultimi lavori prodotti dalla scuola antropologica ottocentesca in Umbria e dopo il travisante e retorico interesse esibito dal fascismo per il mondo rurale subalterno, una équipe di ricerca decide di documentare in modo dettagliato uno dei prodotti culturali più elaborati della cultura subalterna rurale umbra”. In un’intervista di alcuni anni fa Seppilli rifletteva sulla struttura del rituale e, in modo particolare, sulla sua diffusione, attraverso varianti che sono state ricostruite nel corso delle indagini, in molte aree europee e del bacino del Mediterraneo: “non soltanto si ricordava […], ma si rappresentava in forma drammatica”. Difatti, la rappresentazione era ad opera di “compagnie di contadini, che per quattro o cinque notti, nel periodo […] di mezza Quaresima, percorrevano le campagne, si fermavano sotto i casolari” e recitavano il Sega la vecchia che, nella forma rilevata in quegli anni, “era il risultato ultimo di una profonda e complessa elaborazione che veniva già dal mondo pre-cristiano, in cui praticamente rivivevano delle tradizioni antichissime attraverso un canovaccio che veniva ricordato soltanto per via orale”.
Il diavolo, Rio Secondo (PG),1958 - foto Ando Gilardi |
Come ricorda Wladimiro Boccali nella Presentazione del volume, in questo scenario, sebbene in una forma evidentemente condizionata (come lo è, d’altronde, quella odierna) dai riferimenti politico-culturali delle sfere sociali entro cui si produceva e metteva in scena la rappresentazione, il rituale rifletteva una manifestazione di teatro popolare, la cui struttura, di lì a pochi anni, sarebbe stata modulata “per esprimere con veemenza e determinazione una forte critica verso l’istituto della mezzadria in particolare e, in generale, nei confronti degli assetti politici, sociali ed economici dominanti nel nostro pese nel corso del secondo dopoguerra”. Il volume - pubblicato dall’editore Morlacchi nella collana “Itaca. Itinerari di antropologia culturale” - tiene conto delle articolazioni del rituale, il quale è analizzato attraverso non solo il ricorso alla documentazione storica, ma anche per mezzo di un’etnografia delle sue forme contemporanee, che i tre autori hanno condotto negli ultimi anni nelle aree dell’Umbria interessate dal fenomeno. Allo stesso modo, “Séga seghin’ segamo” racchiude una prospettiva di indagine volta a raccordare le interpretazioni e i documenti prodotti sul rituale, nella misura in cui, come abbiamo visto, ha raccolto, messo in relazione e analizzato le indagini che lo hanno interessato nell’arco di quasi settanta anni. In questo quadro, come precisa Baronti nella lunga introduzione, “l’intenzione principale che ha mosso questo lavoro è quella di mettere a disposizione di coloro che sono non superficialmente interessati agli aspetti più significativi della cultura subalterna rurale, il frutto di oltre cinquant’anni di ricerche etnografiche svolte in ambito regionale, fornendo al contempo qualche elemento basilare di documentazione e di conoscenza che consenta di collocare il corposo materiale etnografico locale in una dimensione più ampia e in una prospettiva euristica più generale”.
Il dottore, Rio Secondo (PG), 1958 - foto Ando Gilardi |
Ma in che cosa consiste la rappresentazione del Sega la vecchia? Come abbiamo detto, si svolge tradizionalmente nel periodo di mezza quaresima e, nelle forme più arcaiche (a differenza di quelle contemporanee, le quali si svolgono generalmente in luoghi destinati alle rappresentazioni o alle feste, comunque spazi comunitari, come centri ricreativi, teatri, ecc,), è itinerante, si sviluppa cioè lungo un percorso che prevede delle tappe. Queste tappe diventavano gli scenari della rappresentazione e, generalmente, corrispondevano ai casolari sparsi nelle campagne, dove il pubblico, in “cambio” della performance e della condivisione del rituale, offriva e regalava alcuni generi alimentari. Lo sviluppo della rappresentazione, in relazione a una variante registrata a Valvitiano, presso Ponte Felcino in provincia di Perugia, nel 1958, è così schematizzato dallo stesso Seppilli in “Le feste contadine di Sega la vecchia in Umbria. Primo rapporto di ricerca” (pubblicato per la prima volta nel 1959, ripubblicato nel 2008 e riportato nel primo tomo del lavoro in questione): “1. Il gruppo giunge davanti ad un casolare” e chiede il permesso di entrare a rappresentare la azione. 2. Questa ha inizio in una stanza della casa. Sono presenti il padrone della ‘macchia’, il pagliaccio, la vecchia ed il suonatore di fisarmonica. Quasi subito entrano i due segantini” e “contrattano con il padrone della macchia” il prezzo per poter abbattere una quercia.
“La vecchia quercia si erge immobile al centro della stanza”. I segantini sfiorano i piedi della vecchia con dei colpi di accetta e “la abbattono sì che essa crolla fragorosamente a terra. Ma in effetti, e senza che i segantini se ne accorgano, l’ultimo colpo, quello decisivo, è stato dato mediante un pugnale dall’assassino entrato rapidamente nella stanza e subito riparatosi in un angolo. 4. I segantini, a colpi di accetta, sfrondano la vecchia dai rami e dopo averla misurata iniziano a segarla cantando accompagnati dal suono della fisarmonica. 5. Entra ora il vecchio e cerca piangendo la sua sposa. Dopo averne chiesto notizia […] la riconosce nella quercia abbattuta e si abbandona in lacrime vicino a lei”.
Segantini,Valvitiano (PG), 1958 - foto Ando Gilardi |
A questo punto entrano in scena molti personaggi - il telefonista, il dottore, i carabinieri, il prete, il sagrestano - “ma quando tutti si aspettano che la vecchia esali l’ultimo respiro, questa lentamente riprende le sue forze, si leva in piedi, balla col vecchio una danza accompagnata dal suono della fisarmonica, cui partecipano ben presto altre coppie”. Questo ultimo aspetto ci porta a concludere con una breve riflessione sugli elementi musicali del rituale: come ricorda Palombini, gli aspetti musicali rilevati suggeriscono una forma di “utilizzazione di un repertorio che poteva essere presente nelle zone in cui era diffuso il Sega la vecchia, però adattato alla rappresentazione”. In questo senso, “il canto iniziale è un canto di ingresso come ne troviamo nei canti di Maggio”. Inoltre, il culmine dell’azione drammatica - rappresentato dalla rinascita della vecchia/quercia - è accompagnato dal canto dei segantini, i quali intonano “un vero e proprio canto di lavoro”. Questa esecuzione, però, assume un profilo differente, in quanto “i segantini sono accompagnati da un rumore ritmico prodotto dallo sfregamento della sega sulla spalla della vecchia – dove viene posto un pezzo di lamiera – o sopra il cavalletto su cui questa è adagiata”. Così, oltre l’esecuzione musicale, ciò che desta interesse è il panorama sonoro della performance, costituito da “suoni arcaici che non erano più presenti nel periodo in cui veniva rappresentato il ‘Sega la vecchia’, perché erano sicuramente precedenti. I segantini stessi sono definiti come gente che viene dall’altro mondo, gente non appartenente al contesto socio-culturale all’interno del quale si sviluppava la rappresentazione. E per questo portavano con loro dei suoni inauditi, che non si sentivano normalmente”.
Daniele Cestellini
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