Omar Souleyman – Wenu Wenu (Ribbon Music/Self, 2013)

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Succede che un musicista di estrazione popolare, messo sotto l’ala protettiva di un produttore di grido, possa soccombere sotto patinate lusinghe sonore, edulcorando la sua espressività verace. Non è affatto così per “Wenu Wenu”, il nuovo album del siriano Omar Souleyman, prodotto dall’acclamato giramanopole Kieran “Four Tet” Hebden, tra gli inventori della cosiddetta folktronica, e registrato a Brooklyn per la Ribbon Music, etichetta sussidiaria della Domino, che lo ha pubblicato in formato CD e LP. Souleyman lo abbiamo conosciuto soprattutto grazie allo scavo nelle sue infinite registrazioni circolanti nel mercato locale effettuate dall’etichetta Sublime Frequencies. La sua musica è stata accessibile prima con l’antologia “I Remember Syria”, poi con tre album (“Highway to Hassake”, “Dabke 2020”, “Jazeera Night”). Dopodiché il mondo pop lo ha visto accanto a Björk e sui megapalchi rock; questo è bastato alla critica mainstream per osannarlo e magari per reinventarsi esperti di pop mediorientale. Siamo certi che ci sarà il recensore snob o bastian contrario – non ce lo dirà, ma lo si capirà tra le righe – che lo stroncherà, perché tutti ne parlano bene. Ancora, qualche sedicente musicologo lo odierà perché la sua è musica di massa e non “autentica”, chi invece osserverà (non senza ragioni) che se ascoltiamo Souleyman, piena legittimità va data anche al bistrattato neomelodico partenopeo. 
E per dirla tutta, osserviamo che nella stessa Siria, tra gli addetti ai lavori e gli studiosi di musica mediorientale, non manca chi obietta al successo internazionale del musicista, confrontandolo con altre ugole dotatissime dal punto di vista vocale e musicale nei generi popular, dalla costa alle regioni interne del paese. Tant’è. Noi continueremo a pensare che la musica di Omar Souleyman, con le sue percussioni rutilanti, i synth spiritati, gli assolo sinuosi di saz elettrificato, i moduli canori spesso derivati dall’ataaba (poesia orale) siano un patchwork potente, dispensatore di divertimento, perché questa è la funzione della sua musica. Parliamo di uno stile che è frutto di confluenze tra differenti tradizioni musicali (siriana, turca, irachena, curda): la città natale di Omar è più vicina al confine turco e a quello iracheno che alla capitale Damasco, e i suoi fidi collaboratori Rizan Sa’id e Ali Shaker sono di origini curda; nel disco Souleyman canta in turco, arabo e curdo. Con la produzione del londinese Four Tet, la musica di Omar non perde la ‘street credibility’ che ha reso la dabke elettronica del cantante di Tell Amir (Siria nord orientale), oggi riallocatosi in Turchia a causa della guerra civile, la colonna sonora di innumerevoli sposalizi. L’ingerenza discreta, rispettosa ed intelligente di Four Tet si materializza nella resa fonica migliore, che non tradisce lo spirito tamarro del siriano né la capacità di equilibrare canto, strumenti (tastiere, tabla, saz) e pattern elettronici. 
Insomma, l’incessante e incendiario beat percussivo che ha reso Souleyman famoso, non viene meno, anzi. Sodale di sempre, il fenomenale tastierista Rizan Sa’id è il principale artefice dell’elettrificazione del suono del nostro Omar, star dal baffo folto, kefiah rossa sul capo, occhiali da sole calati sugli occhi, immancabile jellabiya, bandiera siriana alle spalle, aspetto da caricatura razzista di un jihadista o di un complottista mediorientale in un film yankee. “Wenu Wenu” è la fenomenale martellante apertura del disco, con voce e synth, synth e voce, ossessionante pulsazione ritmica, indovinati break: un hit irresistibile. La successiva “Ya Yumma” è un delirio poliritmico dancefloor, tra synth, cordofono elettrificato ed interventi vocali di Omar. Gli stilemi della tradizione mediorientale si impongono maggiormente in “Nahy”, con le sue linee di flauto (campionato) e “Khattaba”, con la riproduzione di una orchestra araba d’archi (anch’essi campionati), invece in “Warni Warni” è il buzuk a ritagliarsi uno spazio di primo piano nella sua spirale solistica lancinante sulla voce ora salmodiante ora declamatoria di Omar. I tempi rallentano in “Mawal Jamar”, dove il canto di Omar si fa melismatico su un loop funk e magnetico. Per finire, ha un tiro impressionante anche “Yagbuni”, con cui si chiude il disco, da oltre un mese nella nostra playlist: Blogfoolk lo consiglia senza remore. 


Ciro De Rosa
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