Bill Callahan - Dream River (Drag City, 2013)

Dopo una serie di grandi dischi usciti di recente, questa volta vi raccontiamo un lavoro che colpirà la fantasia dei nostri hipster o modaioli del piffero, così ben rappresentati nel nostro habitat italico. Senz’altro li avrete notati, sono quelli che fanno proliferare camicie da finto boscaiolo, portate con barbe incolte finte mentre, su biciclette a scatto fisso, attraversano i panorami grigi e perennemente uguali della pianura padana. Quelli che vanno dietro al gregge. Quelli che pontificano, e che criticano. Che leggiucchiano tisici e anemici giornali musicali italioti. Che si muovono in gruppo tra un brunch finto newyorkese, e un vernissage di un graffitaro salito di grado fino a divenire cinematografaro. Questo è un disco per voi. Bill Callahan ha avuto una genesi dal lo-fi di cassette strumentali, registrate con accordature di fortuna su chitarre economiche, fino allo sviluppo di un songwriting da fighetto ultra morbido splendidamente registrato. Il problema è che il contenuto è lo stesso dei mitici forati da 2500 lirette, che rompevano l’astinenza di noi tossici di vinile, obbligandoci ad ascoltare songwriters marginali, bravi per carità, ma che della loro marginalità facevano bandiera, con poche pretese. Qui, invece, ci troviamo di fronte alla vecchia logica del loser affascinante e come cantava Bob Seger “beautiful dreamer” per antonomasia. Non è un brutto disco “Dream River”, è scritto e registrato per poter essere la musica da ascoltare prima di dormire, quando la giornata è finita, coi suoi toni vellutati e la voce baritonale che racconta fatti quotidiani senza abbandonare uno schema da Laurel Canyon. Però… stringi stringi e ti rimane poco se non tanta, tantissima posa. L’immaginario di un bar di qualche località amena zeppa di universitarie annoiate da famiglie con una ottima disponibilità di dollari e le tragedie del mondo che continuano. Fondamentalmente inutile.


Antonio "Rigo" Righetti
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