Gianmaria Testa – Men At Work

Dopo il successo riscosso con “Vita Mia”, disco in studio pubblicato nel 2011, Gianmaria Testa torna con “Man At Work”, doppio album dal vivo con dvd, che documenta la lunga serie di concerti degli ultimi due anni. Lo abbiamo intervistato per parlare con lui del suo rapporto con il pubblico ed il palco, senza tralasciare il suo percorso artistico e il suo processo creativo. 

Il recente “Men At Work” non è il tuo primo disco dal vivo, in quanto segue “Solo Dal Vivo” del 2009. Come si è evoluto il tuo approccio al palco in questi anni… 
“Solo Dal Vivo” non era stato programmato, ma semplicemente l’Auditorium Parco della Musica di Roma ha l’abitudine di registrare tutti i concerti, per tenerli in archivio, ed ovviamente ne fa pervenire una copia su disco all’artista. Quando lo ascoltai rimasi impressionato, ed io che ero abbastanza contro i live, mi sono detto che in quel disco era rimasta un po’ dell’emozione del concerto e, dunque, valeva la pena pubblicarlo. Questo live “Men At Work” è voluto, nel senso che con questi musicisti Bianchetti, Garcia e Negrini suoniamo insieme da tanto tempo , e per giunta suono tante canzoni che non sono più rintracciabili nei dischi, ma solo via internet, perché le mie primissime produzioni, dopo un po’ di ristampe non sono più disponibili. Suonando insieme da tanto tempo, ho l’impressione che si sia creato un suono di questo quartetto, un modo di suonare che mi piace molto, e mi faceva piacere lasciarne una traccia. So bene che i dischi non sono più una cosa appetita, ma l’abbiamo realizzato con tutta la cura possibile, a partire dalla copertina, per finire al mixaggio e al mastering. 

Ascoltando più volte il disco, ho notato che il titolo non è stato scelto per caso... 
Prima di essere scelto questo titolo ha avuto diversi imput, il più banale di tutti è che facendo molti chilometri per le varie tournée, il cartello men at work è quello che abbiamo visto più di frequente sulle autostrade. E’ stato il cartello che abbiamo avuto davanti ai nostri occhi per maggior tempo, visto che in genere ad un avviso di lavori in corso corrisponde una coda. Poi effettivamente nel disco ci sono canzoni relative all’album “Vita Mia” dove si parla di lavoro, o meglio di non lavoro, che è una delle condizioni che rendono molto complicata la vita adesso. L’ultima considerazione più metafisica, è che rimango convinto che sia finito il tempo in cui ci si aspettava un qualche salvatore della patria, che arrivasse con idee nuove e che risolvesse tutti i problemi. Uno se n’è appena andato, almeno spero, e spero che non ne vengano altri. E’ arrivato il tempo che gli uomini e anche le donne si mettano al lavoro per modificare questa situazione. Quando dico lavoro non è nell’accezione materiale del termine, ma ognuno facendo bene il suo e così si riuscirà forse ad arrivare ad un cambiamento. Se ci sarà la possibilità di arrivare ad una salvezza credo sarà certamente collettiva, non individuale. 

Hai parlato di autostrade, e spesso non sono italiane perché suoni da sempre molto anche all’estero… 
In particolare questo disco è il risultato di una serie di registrazioni avvenute in Germania, Austria, Lussemburgo, semplicemente perché il fonico che ci segue nella Mitteleuropa è tedesco ed ha uno studio mobile, che ha portato al seguito. Questa è la ragione per cui non ci sono concerti italiani documentati. Abbiamo scelto di fare una lunga tournée e lui ci ha detto che avrebbe portato lui il materiale per registrare. Io faccio fatica a definire pubblico le persone che vengono ad un concerto. Un pubblico è come dire la gente, ma il pubblico è composto da individui ed una volta Paco Ibáñez mi ha detto: “Io canto, e dovresti farlo anche tu, per l’ultima persona in fondo alla sala, se arriva a lui, arriva anche all’altro”. Anch’io tendo a fare così, perché ho un rapporto con il pubblico che non è individuale, perché penso alle persone che sono lì, che sono partite da casa, magari in una sera di pioggia, e hanno deciso di uscire per andare a sentire uno che canta anche in una lingua che non capiscono. A questa cosa non ho una risposta. Non so perché vengano, ma io cerco di fare il massimo affinché si arrivi sempre ad un certo argomento di comunicazione. 

La tua attività dal vivo di recente si è aperta anche alle collaborazioni, e parlo di quelle con Erri De Luca e Giuseppe Battiston… 
Con Erri De Luca abbiamo fatto “Chisotte e gli invincibili” e adesso abbiamo deciso di apportare qualche modifica a partire dal titolo. Sul palco siamo sempre noi tre, io, Erri e Gabriele Mirabassi. Ci sono un po’ di modifiche nel testo e nelle canzoni cantate, ed il titolo “Chisciottimisti”, è un po’ in controtendenza rispetto ai tempi che viviamo. E’ molto bello però, perché ho visto quello che ha scritto Erri, e ne abbiamo già fatto un anteprima tempo fa. Faccio delle cose diverse, ma in quel caso la canzone serve per aumentare l’attenzione, per il piacere di stare a sentire cose belle o interessanti. Nel caso di Erri, lui scrive e dice delle cose per me condivisibili e quindi sono contento che la canzone, serva a veicolare le cose che lui dice forse in modo più efficace. Per quanto riguarda “Italy” è invece un poemetto di Pascoli, uno spettacolo che di fatto è un reading. Battiston legge benissimo questo poemetto che è inframezzato da canzoni mie. Questo progetto nasce da un idea di Giuseppe, che ho colto molto volentieri. Non conoscevo questo testo, ma quando l’ho letto sono rimasto molto colpito, perché parla di immigrazione, un tema quanto mai attuale, e siccome avevo fatto un disco intero su questo tema, di fatto questa canzoni fanno parte integrante dello spettacolo.

Ci parli del tuo processo creativo? Ed in particolare, come nascono le tue canzoni? 
Con il tempo, mi sembra di aver ormai approntato una forma di artigianato nella scrittura, ma il punto di partenza è sempre lo stesso. All’origine c’è un emozione positiva o negativa, ma comunque un moto interno, che difficilmente riuscirei a dire a me stesso in altro modo, se non attraverso una canzone. Altri usano altri strumenti, come la fotografia, o un dipinto. Per me l’alternativa alla parola parlata è la forma canzone. Poi prendo la chitarra e scrivo questa canzone, ma non la scrivo da nessuna parte, semplicemente la canto e poi la lascio lì. Lei ogni giorno bussa, perché vorrebbe essere cantata, ma io tenacemente non lo faccio, e così passa del tempo, a volte anche mesi, fino a quando non bussa più. Così prendo la chitarra e la canto, quando ormai è passata l’urgenza di quell’emozione, e se la canzone mi riporta quel moto dell’anima che l’aveva generata allora la tengo, e comincio un lavoro che è di spoliazione, un lavoro di semplificazione. Altre volte, semplicemente l’ho dimenticata e questo significa che non valeva la pena. Altre volte ancora cerco volontariamente di dimenticarle, perché ho scritto delle baggianate. Questo modo mi permette di prendere le distanze dall’immediatezza dello scrivere, in modo che la canzone mi assomigli e mi riporti alle sensazioni che l’hanno ispirata. Questo garantisce anche il fatto, che quando salgo su un palcoscenico non ho mai l’adrenalina del pubblico, non sono indifferente, ma sul palco ci salgo per raccontare la mia microscopica piccolissima verità, che so essere vera perché mia, se gli altri la condividono sono contento. Non mi spaventa che qualcuno esca prima della fine del concerto. E’ come quando parli con qualcuno che non è d’accordo con te. 

Qual è il tuo rapporto con la poesia? 
Non so scrivere poesie. Credo che la poesia sia nella sua apparente semplicità, perché è concessa a tutti purché uno sappia leggere e scrivere. La poesia ha la capacità di essere autosufficiente, e non ha bisogno del supporto di una melodia, di un ritmo, di un armonia. Una bella poesia mi fa l’impressione di un graffito di mammuth nelle caverne dell’Uomo di Neanderthal, quel tipo di essenzialità che però dice tutto, e non vale nemmeno la pena chiedersi perché quell’uomo abbia disegnato quegli animali, l’ha fatto perché aveva la pulsione a farlo. Quel tipo di bellezza lì attiene solo alla poesia. La poesia ha il merito di non essersi mai prostituita a nessun mercato, anche perché non rende la poesia. La poesia è rimasta pura, la canzone no è la più svenduta delle forme di comunicazione. Per cantare bastano delle belle gambe, e la canzone così ha avuto meno dignità della poesia. La poesia non è accademica, ma piuttosto è la forma più alta di comunicazione. La poesia è salvifica, e credo che fra cento anni, di questi tempi rimarranno molte più poesie che canzoni. Le canzoni durano il tempo di una canzone. 

Durante il live citi tra i vari intermezzi tra una canzone e l’altra Pasolini e De Andrè quando esegui la sua Hotel Suprammonte… 
Sono molto diversi, anche se di tutti e due sono stato coevo. Di Pasolini sono stato coevo in un momento in cui il mio essere giovane, adolescente, mi metteva in contrasto con il suo dire durante le lotte studentesche, che ad avere ragione erano i carabinieri che erano figli di proletari che erano lì e che nessuno li difendeva. Sono cose che ho capito dopo, perché all’epoca tutto questo mi aveva fatto molto incazzare, impedendomi di leggere le sue opere, o meglio di leggerle con attenzione. Solo molto tempo dopo ho capito la sua capacità di preveggenza del futuro, e di analisi del presente. Quando parla di fascismo derivante dalla tv è di grande attualità, quando vede nella televisione l’arbitro delle scelte della gente, lui l’aveva già visto. Mi manca molto questa capacità che aveva. De Andrè non l’ho mai incontrato di persona, ma solo incrociato una volta. Lui, però, è stato quello che mi ha fatto capire, che nel mondo c’erano persone che scrivevano delle canzoni per dire delle cose, e non soltanto per esibire una bella voce o una bella melodia. Da quando ho quattordici anni ogni volta che usciva un disco lo prendevo. Non è mai sceso sotto la dignità, non ha mai abdicato a questa cosa. Ci sono dischi più o meno belli, dischi che possono piacere più o meno. Lui è stato un poeta perché ha avuto con le canzoni lo stesso rapporto che si ha con la poesia. 

Dal disco mi hanno colpito due brani, ovvero “Lele” che hai scritto molto tempo fa, e “Cordiali Saluti”, due canzoni di grande attualità…. 
“Lele” è una canzone che ho scritto nel 1976, ma mai pubblicata fino a quando non ho deciso di inserirla in “Vita Mia” del 2011. Ho deciso di farla uscire in quel contesto perché di nuovo le donne e i bambini nei momenti più duri della storia sono quelli destinati a pagare. Ho scritto questa canzone per una donna, forse calabrese, che si era suicidata, madre di alcuni figli che viveva in Piemonte, dove aveva sposato un contadino. Allora c’erano i matrimoni per procura in cui delle donne del sud sposavano dei contadini del nord, che non trovavano diversamente altre donne per condividere con loro un esistenza difficile. Queste donne attraverso la mediazione di qualcuno si scrivevano con il loro promesso sposo, e poi si sposavano, facevano dei figli. In molti casi le cose sono andate diciamo a buon fine in altre no, ed erano sempre le donne che erano in una condizione di svantaggio. Bisogna tenere presente che all’epoca una calabrese alla fine degli anni sessanta, e un contadino delle Langhe non parlavano nemmeno quasi la stessa lingua. L’uno parlava solo piemontese, l’altra forse solo un po’ di italiano e facevano anche fatica a capirsi, però era una sorta di mutuo soccorso, ma la donna pativa sempre di più. Anche nella tragedia di Lampedusa ci sono donne con bambini, fra i morti. Sono delle madri che provano ad amare i loro figli, che poi diventano una cassa da morto. L’altra canzone “Cordiali Saluti”, l’ho presa dallo spettacolo omonimo di Andrea Baiani, che racconta di un uomo che di mestiere fa il licenziatore, uno bravo nello scrivere le lettere di licenziamento, lettere infingarde, crudeli, cercando di indorare una porzione di veleno. Leggendo quel libro che mi ha molto colpito come idea anch’io ho scritto una lettera di licenziamento, proprio come l’avrebbe scritta quel tale. 

Concludendo, ai due dischi è allegato anche un dvd registrato a Torino, quest'anno...
Il disco è nato per essere solo un doppio, ma poiché c’era questo concerto alle OGR Officine Grandi Riparazioni di Torino delle Ferrovie, ormai chiuse da tempo ed ora trasformate in uno spazio per concerti e SKY aveva chiesto di registrare il concerto per mandarlo in onda. Gli abbiamo dato l’autorizzazione, e visto che avevamo in uscita il live, abbiamo pensato di inserirlo come dvd. Il programma del dvd è simile, ma non proprio uguale a quello del cd, perché io non faccio mai una scaletta, ed ho la fortuna di suonare con questi musicisti, che sono molti solidali in questo senso. Gli comunico qual è il primo pezzo, e poi da lì andiamo avanti. E’ stata, insomma, una buona idea, così c’è materiale anche per gli occhi. 



Gianmaria Testa – Men At Work Live (Fuorivia Produzioni/Incipit Records/Egea) 
In Italia non c’è la cultura del disco dal vivo, e troppo spesso si ci limita alla riproposizione dei brani proprio come sono stati incisi in studio con l’aggiunta del pubblico, spesso in delirio. A fronte di questo dato di fatto, ci sono alcune felici eccezioni come Francesco De Gregori che alla dimensione live ha sempre riservato sempre grande attenzione, o come Gianmaria Testa, che già nel 2009 ci aveva regalato uno splendido live acustico, nel quale veniva catturata tutto il fascino dei suoi concerti. Ciò che mi ha sempre colpito della sua cifra stilistica, è che sul palco le canzoni del cantautore piemontese continuano a crescere rispetto alle versioni in studio, quasi si evolvessero in modo naturale. Era dunque auspicabile che prima o poi desse alle stampe un disco dal vivo che documentasse i tanti concerti fatti insieme alla sua band, composta da - Giancarlo Bianchetti (chitarre), Nicola Negrini (basso, contrabbasso), e Philippe Garcia (batteria), con i quali da tempo ha costruito una consolidata alchimia sonora, e che lo hanno accompagnato nel corso del tour promozionale del suo ultimo disco in studio “Vita Mia” del 2011. Complice, come ci racconta nell’intervista, la disponibilità del suo fonico fiducia, Patrick Destandeau, di allestire uno studio mobile nel corso di un tour di dieci date in dieci giorni tra Germania e Svizzera nel febbraio 2012, le nostre aspettative sono state soddisfatte con la registrazione di “Men At Work”, disco dal vivo che raccoglie ventitré brani che ripercorrono in lungo ed in largo la sua carriera a partire da alcuni estratti da dischi come “Montgolfières”, “Altre Latitudini” o “Extra Muros”, attualmente non più distribuiti e per finire alle composizioni più recenti. Si compone così un quadro molto completo e fedele della sua produzione artistica, una sorta di antologia in cui convergono i brani più poetici come “Le Traiettorie Delle Mongolfiere” o “Le Donne Delle Stazioni”, quelli in cui le istanze sociali si fanno più forti come in “Cordiali Saluti”, ma anche perle dimenticate come quella toccante “Lele” scritta negli anni settanta e incisa solo di recente in “Vita Mia”, o la suggestiva versione di “Hotel Supramonte” di Fabrizio De André. Non mancano poi alcune divagazioni sonore ora nel rock, ora ammiccamenti al tango e alle sonorità più trasversali, ma ciò che conta per l’ascoltatore è cogliere quelle sfumature della voce di Gianmaria Testa, che impreziosiscono e rendono uniche le sue esibizioni. A completare il bel cofanetto, del quale va lodata la grande cura realizzativa, c’è anche un dvd, che documenta il concerto dello scorso 3 luglio 2013 tenuto ai Cantieri OGR di Torino, la cui regia è stata curata da Duccio Cimatti per SKY Arte e nel quale troviamo alte due perle del repertorio di Gianmaria Testa, ovvero “20 Mila Leghe (in fondo al mare)” e “L’Automobile”. “Men At Work” è, dunque, un documento prezioso che fotografa in modo molto fedele tutta l’intensità e l’eleganza dei concerti di Gianmaria Testa, cantautore illuminato, e dotato di un senso della misura e della poesia come pochi in Italia. 


Salvatore Esposito
Nuova Vecchia