Uno dice: ”Ma che ci vuole a cantare una canzone popolare. L’ascolti, la impari e poi la canti come pare a te, come ti piace, come ti viene meglio…”
La questione del “folk-revival”, vale a dire di come riproporre il patrimonio popolare, ha invece appassionato, e anche movimentato, una parte significativa del mondo occidentale fin dalla metà del secolo scorso.
Perché un conto è che uno canti una canzone che gli è stata tramandata dalla famiglia o dal contesto in cui vive e lo faccia così, per stare in compagnia; altra cosa è che lo faccia come professione, come scelta culturale, come espressione della sua creatività, insomma lo faccia da “cantante”.
Allora apriti cielo! Ci si infila in un dibattito che, anche se oggi è un po’ sottotraccia, non ha mai smesso di coinvolgere studiosi, ricercatori, musicisti, cantanti più o meno famosi.
Negli USA, per esempio, decine di cantanti, divenuti poi famosissimi come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Joan Baez, Pete Seeger, Tom Paxton e così via fino a Odetta e Harry Belafonte (per citare i nomi più famosi), hanno manifestato il loro culto per quello che viene unanimemente definito “maestro”, Woody Guthrie e più volte, tutti, gli hanno devoluto il loro tributo.
Ma c’è una certa differenza tra il modo di riconoscersi nella lezione del folk singer dell’Oklahoma di Dylan, che con la sua esperienza ha attraversato tutte le forme della musica americana, dal folk, al blues, al rock e quello di Seeger, rimasto fedele ai modi del canto contadino, alla chitarra acustica ed al banjo che ancora oggi, ultra ottantenne, lo accompagnano nei suoi tour. Tant’è vero che un altro artista multiforme come Springsteen per realizzare il suo recente bellissimo tributo a Pete Seeger ha dovuto abbandonare la sua proverbiale “grinta” e la band elettrica ed affidarsi a modalità canore meno rock e a strumenti acustici.
Per capirne un po’ di più di questa questione, che non è affatto di lana caprina, dobbiamo tornare ad
Alan Lomax, che abbiamo incontrato durante la sua campagna di ricerca in Italia negli anni 1954/55.
Il contributo che questo straordinario uomo di cultura ha dato allo sviluppo dell’interesse per la folk music nel suo paese e nel mondo non si è limitato all’enorme messe di materiali che ha raccolto, ordinato criticamente e, almeno in parte, pubblicato. Né si è rivolto soltanto agli aspetti teorici e scientifici strettamente connessi con la ricerca.
Lomax si è dedicato anche ad analizzare le forme della riproposta della canzone popolare, ad approfondire le ragioni, le intenzioni e le tecniche del revival, fino ad alimentare un’ampia discussione che dagli Stati Uniti si è poi riversata in Gran Bretagna e in Italia.
Nella primavera del 1959, con la sua nota di presentazione al disco FOLKWAYS 3548, “Guy Carawan, vol.II”, dal titolo “I cantanti urbani di folklore e le loro canzoni”, Lomax apriva una discussione epocale su quello che definisce il “folk song revival” senza perifrasi e doppi sensi.
“Una vera folla di giovanotti di città, ricchi di talento e di ambizione, si è buttata sul “folk-song” con precisa determinazione.
Questi “folkniks” o “city-biliies”, come vengono general¬mente chiamati, partecipano a un gran numero di concerti, sono in confidenza con i funzionari delle reti televisive e si danno un gran daffare con gli impresari teatrali (….) Prendono la vera musica popolare e la “traducono” in maniera da renderla accettabile e quindi fruibile dai loro “clienti” (una certa borghesia urbana di sentimenti radicali e di istruzione media).(….) Quando un canto popolare è estratto dal suo contesto stilistico e “cantato bene” subisce perlomeno una trasformazione, se non si vuol dire che si annulla. Molti sono con¬vinti che in questo processo il documento “si mi¬gliori” ma questa è una posizione insostenibile. Dal mio punto di vista una canzone popolare ese¬guita con stile improprio perde qualcosa di molto importante e forse di essenziale”.
Questo saggio scatenò una polemica senza fine, e, naturalmente, i “folkniks”, così maltrattati da Lomax, ebbero molti difensori ed estimatori. Ma vediamo cos’ha provocato questo confronto nel nostro paese.
Roberto Leydi, divenuto nel frattempo autorevole etnomusicolgo e co-fondatore del Nuovo Canzoniere Italiano e dei Dischi del Sole, traduce tutti questi materiali e li pubblica nell’autorevole rivista Marcatre n. 23/24/25 del giugno1966. Come mai in quel momento, sette anni dopo la loro divulgazione negli USA?
Perché in Italia solo allora si stavano creando le condizioni perché un simile argomento potesse avere qualche motivo d’interesse.
I Dischi del Sole sono ormai una realtà consolidata e seguita, si è vissuta l’esperienza Cantacronache e si è sviluppato in modo consistente il gruppo de Il Nuovo Canzoniere Italiano, si sono fatti due grandi spettacoli di folk-revival come “Bella ciao” e “Pietà l’è morta” e si sta preparando la grande novità: “Ci ragiono e canto” con la regia di Dario Fo; c’è stato il primo folk festival internazionale di Torino e si sta preparando il secondo, è nato l’Istituto Ernesto De Martino… insomma sono successe e stanno succedendo mille cose e i tempi sembrano maturi per aprire una discussione franca su cosa vuol dire riproporre il canto popolare, ora che il patrimonio italiano sta assumendo una consistenza davvero significativa. Ma soprattutto è in atto una forte polemica culturale che Leydi anima in prima persona e che coinvolge personaggi di grande popolarità e peso culturale: Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro di Milano e successivamente lo stesso Dario Fo.
Sulla scia della grande risonanza avuta dallo spettacolo Bella Ciao presentato a Spoleto nel 1964 (vicenda di cui avremo modo di parlare in un prossimo articolo) l’interesse per il repertorio popolare andava crescendo e nel 1965 Strehler curò uno spettacolo di canti popolari italiani eseguiti da Milva.
La “Pantera di Goro” , come veniva allora chiamata, si esprimeva con una voce potente e ricca di melismi tipici del canto all’italiana; non è ancora la Milva di “Io Bertold Brecht”, certamente più consapevole del senso interpretativo in relazione ai diversi repertori, e soprattutto ha poco a che vedere con quei modi propri del canto popolare che Leydi definiva “specifico stilistico” al quale si doveva far riferimento ogniqualvolta si attivavano operazioni di folk-revival. Insomma è giunto il momento di dare illustri padrini alla riflessione su che cosa vuol dire riproporre il canto etnico e Leydi non può che far riferimento alle elaborazioni del suo maggiore referente e amico Alan Lomax.
Approfondiremo nel prossimo numero che cosa si intenda per “specifico stilistico” e quali vicende si svilupparono attorno a questo assunto teorico.
Torniamo invece alla polemica tra Leydi e Strehler, che, a quel che mi risulta, erano anche in ottimi rapporti personali.
Leydi attaccò lo spettacolo di Milva dalle pagine dell’Europeo, settimanale di cui era collaboratore, sostenendo che quel tipo di interpretazione depotenziava la forza anticonvenzionale che il canto popolare portava in sé. Gli fu risposto con le stesse argomentazioni che furono utilizzate per contrastare le osservazioni di Lomax:” Se il canto popolare, rivissuto nell’esperienza dei cantanti urbani, è valido anche per una società moderna e industriale non mancherà una comunicazione emotiva reale e concreta, anche se profondamente diversa da quella tradizionale e originale” (John Cohen.”Un risposta ad Alan Lomax: in difesa dei cantanti polari urbani”. Da “Sing out” estate 1959).
In buona sostanza il ragionamento è il seguente: se vuoi che la musica popolare, contadina in particolare, non muoia e parli anche alle nuove generazioni, devi reinterpretarla, rivestirla di suoni e significati nuovi, darle ulteriori “paternità”.
Sono trascorsi da allora oltre 40 anni, ne abbiamo viste e sentite molte, ma la riflessione evocata continua a sollevare curiosità, perplessità, storiche divergenze.
L’incolpevole “vittima” di quell’ardente polemica fu, pensate un po’, Luisa Ronchini, la cantante popolare veneziana per eccellenza.
Nel 1964, prima che decidessimo di formare il Canzoniere Popolare Veneto, Luisa aveva avuto dei contatti con i Dischi del Sole e le era stato proposto di registrare un EP con 5 canti popolari veneziani da inserire nella nuova collana curata da Leydi sui canti delle diverse regioni.
Roberto stesso le fece avere una copia di alcuni brani registrati da Lomax a Pellestrina e alcuni altri li aveva raccolti lei dalla voce della signora Tilde, la padrona della casa dove aveva affittato una camera.
Aveva preparato le canzoni con la collaborazione di Franco Baroni, chitarrista classico, e nell’interpretazione aveva messo tutta la sua foga melodica, mutuata dalla grande passione che lei aveva per il canto all’Italiana.
Andò a Milano a registrare il disco “Nineta cara” verso la fine del mese di ottobre. Ne uscì un prodotto assolutamente perfetto dal punto di vista formale, ma ben lontano dal famoso “specifico stilistico” del canto popolare. E fu pronto proprio nel bel mezzo della polemica tra Leydi e Strehler cui prima ho fatto cenno.
Leydi, responsabile della collana, bloccò la pubblicazione del disco; ci furono furenti reazioni di Luisa e imbarazzi da parte dei suoi interlocutori presso le edizioni.
Alla fine l’oggetto del contendere uscì, in sordina per la verità, attorno alla metà di agosto del 1965, ma un’altra Luisa stava già crescendo, quella che abbiamo amato tutti. Seppe condividere alcune critiche e sviluppare nuove modalità analisi; di conseguenza modificò di molto non tanto e non solo il suo stile interpretativo, quanto il modo con cui da allora ha saputo avvicinarsi al canto popolare ed alla sua ricerca.
Gualtiero Bertelli
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