Bassekou Kouyaté & Ngoni Ba – Jama Ko (Out Here/Goodfellas)

Una tradizione musicale viva genera al suo interno le proprie trasformazioni, attraverso processi nei quali interagiscono estro ed esperienze personali di musicisti, prestiti ed adattamenti, comunicazione locale e globale. Parlando del Mali, si deve riconoscere che Bassekou Kouyaté (nato nel 1966) – come il conterraneo maestro del kora, Toumani Diabate – è uno dei musicisti innovatori della musica neo-tradizionale del suo paese. Dalla musica delle popolazioni del deserto del nord a quella delle genti delle savane del sud, la cultura musicale maliana sta apportando nuova linfa vitale a rocker euro-americani a corto di ispirazione, e seducendo il pubblico occidentale della world music che anela a specchiarsi nell’immagine deformata dell’autenticità degli altri. Prima l’India, poi la Giamaica, ora il Mali. E dopo? Chissà! È noto come le musiche del mondo possano alimentare nuovi esotismi, come il ruolo del produttore musicale sia diventato centrale al tempo della globalizzazione sonora e dell’internazionalizzazione dei suoni dell’Africa, spesso tanto da assecondare o addirittura creare produzioni digeribili da palati del nord del mondo: tuttavia, tutto ciò non toglie merito all’arte di un musicista di enorme qualità artistica qual è Bassekou Kouyate. Egli ha iniziato a suonare lo ngoni (il piccolo liuto sub-sahariano usato anche in contesti iniziatici, tradizionalmente dotato di una cassa di risonanza di legno incavato o di zucca, su cui è tesa una pelle di animale, generalmente capra, e provvisto di tre o quattro corde) sulle orme di papà Moustapha, appartenente alla casta dei djeli, i cantori di lode, ed anche mammà è stata una ricercatissima cantante per feste e cerimonie comunitarie. Inutile qui ripercorrere la biografia e la carriera di Bassekou di cui è ricco il copia/incolla del web: diciamo solo che dalla collaborazione con musicisti di primissimo rango, tra cui Toumani Diabate soprattutto, ma anche Ali Farka Tourè, Taj Mahal e Béla Fleck, all’esordio pluripremiato del 2006 con Segu Blue (prodotto dalla studiosa e giornalista BBC Lucy Duran) e fino all’altrettanto apprezzato I speak Fula del 2009, il maliano originario di Garana, villaggio in riva al Niger, è diventato oggi una figura centrale per la musica dell’Africa occidentale subsahariana suonando soprattutto musica di cultura Bamana, ma con incursioni nella cultura sonora Mandingo e Fula. Artista capace di coniugare abilità tecnica ed innovazione, avendo aumentato il numero delle corde del suo strumento, assunto in concerto una postura non tradizionale che lo porta a suonare lo ngoni in piedi come fosse una chitarra, ma soprattutto costituito un ensemble di quattro liuti di differente misura ed estensione, con i quali ha elaborato un suono incisivo che ricalca l’assetto di chitarra solista, ritmica e basso. Allo ngoni solista di Bassekou e alla voce principale di Amy Sacko, sua moglie, si affiancano nel nuovo organico, messo su per il nuovo disco, Abou Sissoko (ngoni medio), i due giovani figli Madou (ngoni basso) e Moustafa (ngoni ba) e ancora Moctar Kouyate (calabash), Mahamadou Tounkara (yabara, karingnan, tama), più tre voci ospiti di grande spessore (Kasse Mady Diabate, Zoumana Tereta e Khaira Arby). Poi ci sono le collaborazioni non africane: chitarra elettrica (Taj Mahal), batteria e chitarra (Andrew e Brad Barr), organo e batteria (Mocky Salole). Jama ko, terza opera del virtuoso maliano, composto da tredici brani e prodotto dal musicista indie canadese Howard Bilerman, è stato registrato durante la crisi politica in Mali del marzo 2012 (un colpo di stato cui è seguita la guerra nel nord con l’insurrezione delle milizie islamiche integraliste nel nord del paese e il successivo intervento militare francese), in una Bamako vittima del coprifuoco e black-out elettrici. La title-track apre il lavoro: “Jama ko” significa “grande raduno di gente”, descrive la frustrazione per la situazione politica maliana, invitando a reagire e a superare le divisioni religiose e sociali. Musicalmente è un ipnotico impasto di cordofoni, assoli rock, suoni distorti, pulsioni funky e assonanze latinoamericane che si fanno più marcate in “Sinaly” e “Dankou”,vertici assoluti dell’album. Nella prima composizione, in cui interviene al canto Kasse Mady Diabate, si tessono le lodi di Sinaly Diarra, sovrano Bamana che si oppose all’islamizzazione forzata nel XIX secolo; nella seconda, ascoltiamo il canto grumoso e antico di Zoumana Tereta, che è vocalist anche di “Madou”, dell’ipnotica “Kensogni”, gioco di arpeggi sul tappeto ritmico procurato dal tama, e di “Mali Koori”, dove si onorano i coltivatori di cotone. “Ne Me Fatigue Pas” è un’altra canzone che mette al centro al questione politica nazionale: qui entra la voce affilata di Amy, da sempre prima cantante della band, che si arrampica su un tessuto strumentale potente, acceso da una corposa linea di basso e groove rock. Ancora la pace è invocata in “Kele Magni”, melodia rarefatta e magnetica, ritmo che arriva dalle terre settentrionali dei Touareg, voce penetrante di Khaira Arby, affermata diva canora di Timbuktu. Dalla minimale “Wagadou” alla corale “Djadje”, al sound afro-beat di matrice congolese dello smuovi-arti “Segu Jajiri”. Si cambia registro, invece, con “Poye”, già incisa nell’album d’esordio: qui entriamo nei territori dell’hill country blues, rinnovando il “meeting by the river” con la chitarra dell’ospite Taj Mahal. Qua e là il dialogo ha il sapore un po’ stereotipato del viaggio dejà vu alle sorgenti della musica afro-americana, ma per molti questo sarà un pregio e non un difetto. Per un artista che proviene da una schiatta di musicisti che hanno appreso la loro arte per trasmissione ereditaria, è una necessaria dichiarazione quella della conclusiva “Moustafa”, protagonisti i giovani Kouyate, a sottolineare il senso di riconoscenza dei figli nei confronti dei genitori, in un tripudio scintillante di ngoni.



Ciro De Rosa
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