Sulle pagine del periodico britannico Songlines, il direttore Simon Broughton paragona opportunamente questo disco del Gurdjieff Folk Instruments Ensemble a The Bartòk Album, nel quale gli ungheresi Muzsikás, il gruppo più insigne del folk revival magiaro, si concentravano su alcune composizioni del celebre compositore, per cercare di riprodurre il repertorio originale che Bartòk aveva ascoltato e raccolto nelle campagne di Ungheria e Romania. Il sottotitolo di questo CD del Gurdjieff Folk Instruments Ensemble potrebbe essere “riportando tutto a casa”, nel senso che la formazione armena, diretta da Levton Eskenian, si riappropria di pagine del cospicuo repertorio composto da Georges Ivanovič Gurdjieff, sulla base di quanto egli aveva appreso e memorizzato nei suoi viaggi di conoscenza. Com’è noto, il mistico e filosofo nativo di Alexandropol “dettò” le sue musiche al pianista e compositore russo Thomas de Hartmann, suo discepolo. Per questo affascinante esperimento di reinvenzione della tradizione, Eskenian ha assemblato un gruppo di quattordici eccellenti musicisti armeni che imbracciano duduk, blul, saz, tar, ûd, kamancha, kanon, santur, dap, tombak e dhol. Cosicché, melodie dalla configurazione originariamente monodica, che abbracciano un bacino territoriale enorme che dalla Grecia attraversa la Turchia, il Kurdistan e il Caucaso, passa per la Persia e giunge fino in Arabia, vengono “liberate” dalla “forzatura” temperata occidentale e dalla notazione, per essere restituite al mondo che le ha prodotte, attraverso l’uso dei micro-intervalli, di ritmiche non regolari, di una tavolozza timbrica multicolore, permeata da misurata austerità. È un percorso in diciassette tappe, eseguite con differenti organici strumentali, che avvince l’ascoltatore per la nitidezza del suono prodotto dalle corde pizzicate, dal battito delle pelli, dal soffio dei legni, a cominciare dall’iniziale canto sacro armeno, “Chant from a Holy Book”, arcaico nella sua struttura, riarrangiato per tre duduk e ûd. Addirittura quattro sono i duduk in scena per “Assyrian Women Mourners”. Invece, “Kurd Shepherd Melody” vede dialogare il flauto blul (o nay) e il liuto a manico lungo saz. Altro brano di spicco è “Bayaty”, imperniato sui moduli del maqam arabo, nel quale ha ampio spazio l’improvvisazione, che domina anche in “No. 11”, tema proveniente dalla raccolta Canti e Ritmi dell’Asia. Per "Caucasian dance”, ispirata a danze di gruppo diffuse in Armenia e Georgia, le note del CD spiegano chiaramente l’intervento di orchestrazione e la scelta degli strumenti fatta da Eskenian, a partire dall’analisi della partitura di Gurdjieff. Un disco gioiello, visionario e concreto al contempo, intriso di poesia musicale, che conserva quel quid estatico che incantò una personalità composita e profonda come quella dell’autore di “Incontri con uomini straordinari”.
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