Yiddish Glory – Yiddish Glory. The Lost Songs of World War II (Six Degrees, 2018)

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“Partisans of Vilna”, uno splendido disco, pubblicato sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, preceduto qualche anno prima dall’omonimo documentario di Josh Waletzky, raccoglieva canti e musiche yiddish della resistenza ebraica nel ghetto di Vilnius, Lituania. Canzoni che esprimevano dolore e rabbia e nostalgia ma anche di orgoglio militare che spronavano i giovani combattenti, animati da spirito rivoluzionario e cosmopolita, nell’opposizione alla ferocia nazista. Il disco, prodotto del folk revival yiddish d’oltreoceano, era una testimonianza della cultura ebraica degli anni della guerra. Con quel lavoro in mente, mi sono messo all’ascolto di “Yiddish Glory. The Lost Songs of World War II”, che in un certo senso, al di là delle differenze di motivazione e di struttura musicale, è anch’esso uno strabiliante racconto in presa diretta del mondo ebraico dell’Est Europa, in lotta contro il nazi-fascismo. Ascolto e lettura, perché il booklet di oltre quaranta pagine, che accompagna il CD, dà conto dell’origine del progetto e descrive brano per brano le diciotto tracce del lavoro. Difatti, ancora prima che lanciarsi in commenti di carattere musicale, occorre ricostruire la genesi di questi materiali e con ciò andare agli accadimenti storici, durante i quali furono raccolti per poi – ebbene, sì! – scomparire. Per farlo, dobbiamo parlare dell’etnomusicologo Moisei Iakovlevich Beregowsky (1892-1961), una delle massime figure di studioso del folklore ebraico dell’Europa orientale, L’eccellente ricercatore si ritrovò ad agire in un forte clima anti-religioso, nel quale, tuttavia, realizzò migliaia di registrazioni sul campo. Le successive tragiche pieghe della storia sovietica, con le purghe staliniane, portarono all’arresto di Beregowsky che, imprigionato fino al 1955, morì sei anni dopo. 
Foto di  Roman Boldyrev
In seguito, i cambiamenti politici intercorsi nell’Unione Sovietica hanno riacceso la luce sui documenti raccolti e sulla produzione scientifica dello studioso, materiali che sono stati commentati e diffusi dal musicologo americano Mark Slobin nei primi anni Ottanta (cfr. “Old Jewish Folk Music. The Collections and Writings of Moshe Beregowski” e “Jewish Instrumental Folk Music: The Collections and Writings of Moshe Beregowski (Judaic Traditions in Literature, Music, & art)”), diventando fonte da cui attingere per gli artisti del revival musicale klezmer e yiddish. All’interno di queste poderose campagne di rilevazione sulla cultura ebraica, l’equipe di ricercatori del dipartimento di cultura ebraico di Kiev guidati da Beregovsky, nelle ultime fasi del secondo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi, aveva raccolto e documentato centinaia di canti in yiddish, talvolta accompagnati dalle musiche originali o adattati a melodie preesistenti. Parliamo di temi e canzoni prodotti da gente comune, da soldati ebrei dell’Armata Rossa, da abitanti dei territori invasi o da chi, trasferito dalle zone occupate dalla Germania, aveva lavorato per la causa sovietica tra Urali e Asia sovietica. Si riteneva, tuttavia, che i materiali fossero definitivamente perduti, finché nei primi anni Novanta, dopo il collasso dell’URSS, furono rinvenute scatole non classificate all’interno della Biblioteca Nazionale dell’Ucraina. 
Foto di Roman Boldyrev
Protagonista della scoperta la studiosa Anna Shternshis, canadese, nata in Russia e con studi oxoniani, docente di “Yiddish and Diaspora Studies” e direttrice del Centro Anne Tanenbaum per gli Studi Ebraici all’Università di Toronto. Raggiunta dall’altra parte dell’oceano, Shternshis mi racconta: «I funzionari della Biblioteca Nazionale Ucraina di Kiev, dove lavoravo per il mio libro sulla cultura ebraica sovietica, mi avevano parlato di scatole, di materiali e di documenti non catalogati. Una volta resomi conto che le canzoni conservate erano quelle ritenute perse nella storia, ho coinvolto Psoy Korolenko, artista e performer, per aiutarmi a riportare in vita questi testi come musica. In termini di ricerca storica, sapevo che nessuna delle canzoni era stata pubblicata nel contesto della musica dell’Olocausto, ero consapevole, quindi, di essere di fronte a materiale inedito. La mia reazione è stata di sbalordimento. Ero entusiasta di aver scoperto voci degli ebrei ucraini e dei profughi ebrei polacchi, preservate attraverso i loro canti in yiddish. Anche i testi mi hanno sorpresa: molte canzoni sono ironiche, alter estremamente aggressive, la maggior parte anti-fascista, come era prevedibile. Molte canzoni parlano degli ebrei come vittime del fascismo, qualcosa che più tardi sarebbe stata scoraggiato e proibito in Unione Sovietica. Le canzoni mi hanno dato la possibilità di guardare a fondo nei sentimenti di quell’epoca». A questo punto – come ricordato da Shternshis – entra in gioco Psoy Korolenko, cantante autore e poeta, il quale si approccia al materiale con spirito aperto, attingendo a diversi ambiti musicali, senza necessariamente privilegiare una matrice folk. Seguiamo ancora Shternshis: «Ricostruire i documenti è stato divertente: circa il dieci per cento dei canti erano musicati, gli altri no. Korolenko ha studiato i testi per poi proporre melodie che si rifacevano alla popular music sovietica degli anni ‘40 oppure a temi che pur riprendendo lo spirito delle liriche erano stati scritti in altre epoche». Ci sono voluti tre anni di lavoro per costruire il progetto; con Korolenko hanno suonato musicisti dal variegato background a partire dalla vocalist jazz russo-canadese Sophie Milman e da Sergei Erdenko, rom russo, compositore, principale violinista e arrangiatore del disco; già con la band Loyko, Erdenko vanta collaborazioni con Yehudi Menuhin. 
Foto di Vladimir Kevorkov
Ci sono, poi, Artur Gorbenko (violino, piano e cori), Mikhail Savichev: chitarra e cori), Alexander Sevastian (fisarmonica), Shalom Bard (clarinetto), David Buchbinder (tromba), Sasha Lurje (voce) e il dodicenne Isaac Rosenberg, figlio del produttore Dan e membro del Toronto jazz Choir, protagonista di alcuni toccanti brani, tra cui “Mames Gruv” (“La tomba di mia madre”), scritta da un bimbo orfano ucraino. Nel booklet sono riprodotti i fogli d’archivio, scritti a mano o a macchina, e sono prodotti i testi in inglese e russo con le note esplicative sulle canzoni originali e sugli interventi musicali creativi, realizzati dagli artisti coinvolti. “Afn Hoykhn Barg” è la bella apertura: su una musica che combina una melodia folk e la stilizzazione di una marcia tedesca, il testo prende in giro Hitler Lo spirito anti tedesco e anti fascista e nazista prevale in molti brani, si pensi alle metafore meteorologiche di “A Shturemvind” , scritta nel 1942, appoggiata a due canzoni popolari yiddish, descrizione dell’invasione nazista come di una tempesta che causa alluvioni, ma conclusa con l’ottimismo salvifico della comparsa di un arcobaleno. In "Spatsir in vald" è espresso pienamente il risvolto umano e tragico della guerra: è il classico addio di un combattente all’amata, scritto da un marinaio di Odessa venticinquenne, la cui parte strumentale fonde una melodia yiddish e una sovietica degli anni ‘ 40. “Taybls briv” è la lettera di un’operaia, una sarta, al marito al fronte, basata su una canzone russa. Altra testimonianza di incastri tra brani preesistenti è “Misha Tserayst Hitlers Daytchland”, sorta di risposta alla precedente composizione, in cui si ritrovano i motivi strumentali delle celebri “Katyusha” e “Tum Balalaika”. Notevole è “Yoshke fun Odes”, basata sulla melodia ottocentesca de “L’Allodola” del compositore russo Glinka, aria che era nel repertorio di molti tenori yiddish. 
Foto di Roman Boldyrev
Il brano narra le avventure di Yoshke, vendicatore e sorta di macchina da guerra: insomma, è l’esaltazione dei valori guerreschi e dell’eroismo degli ebrei contro il nefasto distruttore nazista. Medesimo spirito si ritrova in “Mayn Pulemyot” (“La mia mitragliatrice”), che offre il punto di vista di un soldato ebreo polacco. Si è già detto delle donne impegnate nelle fabbriche per contribuire allo sforzo bellico, “Chuvasher Tekhter” (“Figlie di Ciuvascia”), invece, pone l’enfasi sulle donne combattenti: è uno dei brani che è stato recuperato con la sua melodia originale e il cui finale è ispirato alla canzone di Broadway “Rio Rita”. Dal repertorio di immagini bibliche arrivano “Shleakhmones Hitlern” (Il regalo di Purim per Hitler) e la genuina celebrazione di Stalin di “Homens mapole” (“La sconfitta di Haman”), in cui Korolenko ha intrecciato un canto liturgico ebraico e una melodia ortodossa. La figura di Stalin come combattente contro il fascismo emerge ancora in “Fir zin”, che Gorbenko ha arrangiato usando una melodia folk sovietica di ambiente urbano, in cui un padre parla dei suoi quattro figli che sono in guerra contro i nazisti. Gli eccedi della guerra sono tragicamente evocati nella splendido lamento “Babi Yar”, proveniente da una testimonianza di una settantatreenne raccolta nel ’47, la cui melodia è tratta da una canzone folk, anch’essa un lamento, raccolta e registrata da Michael Alpert, il musicista newyorkese, già con i Brave New World, e coinvolto nel summenzionato “Partisans of Vilna”. Anche la ballata “Tulchin” racconta l’atroce violenza e la devastazione, che travolsero la comunità ebraica dell’omonimo paese ucraino. 
Foto di Roman Boldyrev
Più fortunata, invece, la sorte di profughi ebrei documentata in “Kazakhstan”, che compare due volte nel disco (la seconda è una reprise), è stata raccolta ad Alma Ata nell’ultimo anno della guerra; qui un ebreo polacco – probabilmente –, in un testo tutto da leggere per la sua enfasi e per i rimandi religiosi e politici, esprime la sua gratitudine alla terra asiatica per aver accolto i sopravvissuti allo sterminio. La musica originale di Erdenko utilizza stilemi yiddish, rumeni e romanes per mettere l’accento anche sul Porrajmos, lo sterminio delle popolazioni rom. A cantare è Sophie Milman, la cui nonna era stata un’ebrea rifugiata proprio tra i monti della repubblica dell’Asia Centrale. “Nitsokhn lid” celebra la vittoria con il suo andamento danzante, mettendo insieme un tema yiddish e una canzone cosacca. Il finale “Tsum nayem yor 1944! (“Buon anno 1944!), testo anonimo su musica tradizionale derivata da un canto per la festa di Purim, pure raccolto ad Alma Ata, è una bella sintesi dell’album, che invoca il tratto ironico loro sole voci. “Yiddish Glory”, nato dalla collaborazione tra Psoy Korolenko, Anna Shternshis e un gruppo di ottimi musicisti, è un progetto di enorme rilevanza, non soltanto per la grande musica che contiene e per il debito nei confronti della ricerca di Beregovski, ma anche perché affida un messaggio contro la segregazione, la xenofobia, la discriminazione e l’odio che, nonostante i tragici eventi novecenteschi, non sembrano essere stati affatto sconfitti. Recentemente, il live act del progetto ha mietuto consensi al Conservatorio di Toronto con un sold-out da 1100 posti. Speriamo di vedere “Yiddish Glory”, suonato dal vivo anche in Europa e magari in Italia nel 2019! 


Ciro De Rosa

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