John De Leo & Fabrizio Puglisi – Sento Doppio (Carosello Records, 2017)

Cantante dotato di talento e capacità virtuosistiche uniche nella musica contemporanea italiana, John De Leo si è dedicato da sempre a sperimentare le infinite potenzialità espressive della voce, il tutto muovendosi trasversalmente tra jazz e canzone d’autore. Il suo nuovo progetto artistico “Sento Doppio”, nasce dalla ormai consolidata collaborazione con Fabrizio Puglisi, pianista tra i più apprezzati della scena jazz italiana. Si tratta di un lavoro in cui la dimensione del duo viene esplorata con raffinata ironia su piani differenti, spaziando dal Coltrane di “Naima” a Monk di “Crepuscule with Nellie” fino a toccare la forma canzone con “Vago svanendo”. Non manca qualche gustosa sorpresa come nel caso di “Other shapes (Searching for)” e “Escargots Cris” nelle quali fa capolino il trombone di Gianluca Petrella o “02:16,5 (Episode II)” ispirata al celebre “4'33” di John Cage. Abbiamo intervistato John De Leo per approfondire con lui questo nuovo album, senza dimenticare i passaggi cruciali del suo percorso artistico.

Parto dal titolo “Sento doppio – Musiche dell’errore e altri fonosimbolismi antiregime”, complesso e colmo di evidenti doppi significati: il doppio in se, nel rapporto con un altro musicista nello specifico Puglisi, e infine con il pubblico.
A me interessa come vengono tradotte le parole che si scrivono, che si dicono, che si cantano, e quando evocano altro, oltre la parola, con i suoni, l’operazione è vincente. Doppio anche in senso psicotropo, c’è chi vede doppio e chi sente doppio. Anche come deformazione professionale, perché per un musicista tutto è suono, quindi musica, anche i rumori perché noi, ricordo che è un progetto a due, siamo amanti dei suoni e anche dei rumori. 

Puglisi non è una novità visto che collabora con te dai tempi di “Vagosvanendo”. Cosa ti ha spinto a realizzare un album proprio con lui?
Una delle caratteristiche che ci accomuna è l’amore per le non note, da cui i fonosimbolismi. Non a caso lui suona un pianoforte “preparato”, ovvero mette degli oggetti più o meno sonori nel piano, cosa di per se non troppo originale ma che lui fa in modo egregio, con idee che risultano coerenti con le mie. Mi preme sia chiaro che questo specifico album non è solo mio, come in ogni parto c’è un altro, un complice, un partner, quindi due sono le teste pensanti, il risultato originale di mediazione tra due che da soli non avrebbero mai potuto realizzare.

Incontrare solo un altro mondo invece che dieci come in passato, ti ha consentito maggiore libertà?
In realtà è più complicato, paradossalmente. Intanto ci sono due universi da coordinare, mentre nei miei progetti, pur con molti ottimi musicisti, alla fine il regista sono io, senza alcuna supponenza. Un lavoro a due è per certi versi molto più faticoso come impegno, diventa meno complesso il lavoro sugli arrangiamentiche qui invece sono piuttosto estemporanei, sono infatti improvvisazioni a tema che vorrebbero diventare composizioni. 

L’errore del titolo è nel gioco stesso dell’improvvisazione no? Errore che magari sfocia in una soluzione inaspettata, come nella natura dove spesso l’errore viene premiato come salto evolutivo...
E’ un bellissimo modo per definire quello che di solito è una porta che si apre, in ambito jazzistico, e porta a seguire una strada non prevista. C’è da dire anche che bisogna stare un po’ attenti alle musiche dell’errore, l’orrore a volte è dietro l’angolo. Non bisogna troppo teorizzarlo. Essendo umani è facile caderci, quindi tanto vale argomentarlo. 

Il brano "2:16" è concettualmente diverso dagli altri, un altro modo di interpretare il doppio?
Quello è stato un esperimento piuttosto estremo, almeno per i tempi, una sorta di gioco tra me e Puglisi, filosofeggiando per diverso tempo su alcuni concetti cageani. 
Quindi in sostanza abbiamo deciso di registrare, in momenti e luoghi diversi, ognuno una traccia di due minuti e sedici senza sapere cosa avrebbe registrato l’altro, per poi mettere insieme il risultato, cercando di rimanere rarefatti, liquidi. Un caos controllato.

Il vostro album è molto diverso da ciò che circola, è di per se un messaggio antiregime, un’indicazione per un’altra via?
Una via in effetti non si vede, ma piuttosto che stare fermi vale la pena muoversi anche sbagliando strada. Ogni tanto mi chiamano a fare dei workshop, e spesso i ragazzi mi pongono questa domanda che spero di sintetizzare: “Come fai a fare ciò che fai, come puoi permetterti di fare una musica meno condiscendente, meno ammiccante”. Ecco, io rispondo che la faccio e basta, ovviamente se ne pagano le conseguenze, in merito alla comprensione del messaggio, alla fruibilità, alla comunicazione, al mercato.  

Dentro l’album c’è un omaggio a Coltrane, a Cage, elementi rock, altri più vicino al folk…
C’è molto, certo, e il fil rouge nascosto, che condivido con Puglisi, è il blues, la radice nera, quella afroamericana, e tutto deriva da lì, anche il rock prima che diventasse musica di regime. Ecco, nei miei ascolti di tutto ciò che gira intorno sento un’assenza totale di blues, che oltre a essere la musica del diavolo è anche quella dell’anima. Cerco di tenermi una finestra aperta, e torno coi pensieri al mio maestro Franco Ranieri, quando mi fece vedere uno scritto di non ricordo quale origine, in cui si asseriva “Ecco, sono nati gli accordi, dove mai andremo a finire, sta morendo la musica”. E la musica non è morta, assolutamente no.

Parlando dell’incisione, la tua espressione massima è quella del live, che è sempre diverso proprio per la natura della tua materia creativa, l’album quindi è un biglietto di presentazione per portare la gente al concerto? 
L’album rappresenta quello che può accadere in un live, anche se in un live le cose possono prendere pieghe diverse. La registrazione in studio è per me un problema, con limiti anche tecnici, a volte disumani, perché canto davanti a un microfono e non davanti all’umanità e bisogna mantenere una certa distanza, le cuffie poi ti chiudono in un mondo tuo avulso dalla sensorialità, faccio davvero molta fatica in studio. Per non parlare dei compressori che per necessità comprimono il suono, tu alzi il volume e quello resta uguale, il tuo acuto viene “normalizzato”.

I Beatles si ritirarono dai live per concentrarsi sulle tecniche di incisione. Qui siamo diametralmente all’opposto…
In questo caso sì, poi ovviamente ci sono dei piccoli accorgimenti necessari perché l’album non potrà mai avere il senso e la verve di un live, quindi è giusto che abbia dei meccanismi e delle scalette anche diverse, cambiano le logiche proprio in funzionedell’incisione in studio. 

Una curiosità, tu hai una dote vocale unica, sei nato nel 1970, e sei balzato agli onori della cronaca nel 1996 con la nascita dei Quintorigo. Come ti sei scoperto e come sei cresciuto prima di quel salto conosciuto?
Ho sempre sentito un’esigenza, una pulsione, anche non molto ragionata, che è quella di cantare, di mettermi su un palco. Quand’ero più giovane lo facevo anche in un modo sconsiderato, sì, perché io non pensavo che avrei fatto altro nella vita, e questa è una cosa assolutamente pericolosa, probabilmente se non avessi avuto la fortuna di riuscire in qualche modo a campare di musica, sarei certo in analisi o, comunque, molto… diverso. Bisogna stare attenti a certe affermazioni o si cade nell’errore di quel motto molto pericoloso che dice “Volere è potere”, perché le cose non funzionano così. 

Cosa permise a quel gruppo, con una proposta così diversa, e difficile, di salire sul palco dell’Ariston?
Eravamo agli inizi di un periodo economico che andava normalizzando, globalizzando, che lasciava però forse ancora degli spiragli, esisteva ancora una nicchia di curiosi abituati ad altri ascolti, oltre tutto ciò che conosciamo senza avere i dischi. Tra l’altro sicuramente il gruppo Quintorigo è stata la formazione, il progetto  che ci ha resi noti, ma io lavoravo ad altre mille situazioni meno visibili e altrettanto valide. Sia chiaro, nei Quintorigo io ho messo tutte le mie energie, ma tutti gli altri percorsi paralleli hanno fatto sì che si arricchisse anche il nostro linguaggio musicale. 

Letteratura, pittura, teatro, hai interagito con tutte le arti…
Sono piuttosto fortunato da questo punto di vista, non posso dire di conoscere altrettanto bene altri linguaggi che non siano quello musicale, ma sono state tutte esperienze gratificanti, e comunque non penso mi basterà la vita per imparare tutto quello che vorrei, quello che sarebbe giusto che imparassi ancora. A ogni modo quelle escursioni esterne hanno arricchito molto poi il mio linguaggio musicale. Ho un amico e maestro che si chiama Franco Ranieri che dice sempre: “diffido di chi legge un solo libro” e io sono d’accordo con lui.

Gli incontri con altre espressioni artistiche contribuiscono all’espansione dell’io…
Infatti molti si fermano solo alla vocalità, e nel caso di quest’ultimo album è ulteriormente rimarcato questo aspetto, ma da sempre mi interessano anche le parole, e quella vocalità comunque sottolinea parole, e in qualche modo cerca di dare sensi altri, attraverso il suono, proprio alle parole. Sono veramente interessato alla parola, e anche quando non canto parole si sottintendono storie e narrazioni.

Ma preferisci comunque utilizzare la voce come strumento piuttosto che portatore di frasi.
In questa fase sì, ho voluto addentrarmi nella ricerca dove le parole sono sottese da suoni, anche perché sono convinto che spesso in una buona musica le parole sono superflue, fino al punto che un suono riesce a pronunciare più parole di quante se ne possono esprimere. La musica arriva superando i confini linguistici.

In questo album la canzone con più parole è quella che recuperi dal passato, quella “Vago svanendo” che è anche manifesto politico, visto che questo svanire e vagare è la condizione attuale dell’artista che non ha più “parte”...
Condivido ciò che dici, anche perché tra le parole che svaniscono o che altri vorrebbero che svanissero c’è la parola “ricerca” per esempio, una parola che costa a prescindere dai benefici futuri che può dare in termine di scoperta, ma che nel rapporto spesa guadagno è assolutamente sconveniente e antieconomica. Sparendo questa parola, in un settore a cui mi dedico da una vita, ne svanisce subito insieme a questa un’altra, che è la “poesia”. E nel momento in cui svanisce la poesia veramente sarò svanito anch’io, e finiti con me tutti quelli che ancora si aggrappano e anelano e vivono. La poesia non si umilia.

Tu, facendo ricerca, quella che un tempo era avanguardia, oggi fai soprattutto un lavoro di retroguardia, e paradossalmente di difesa. Intorno vedi segnali di speranza?
Accidenti, io non voglio essere pessimista, è una questione che mi pongo spesso. In questo momento, per motivi contingenti, non ho tanto la possibilità di vedere, andare in giro, ma i progetti di una certa complessità me li sono sempre andati a cercare, so che esistono dei luoghi, come ad esempio Area Sismica, per restare nella mia regione, un piccolo circolo Arci dove però passano tutte le novità del mondo, tutti quei musicisti che si dedicano alla ricerca e lo fanno seriamente, cercando di modificare, di destrutturare il linguaggio. Ma devi proprio andare a cercarli questi luoghi coraggiosi. Nell’immaginario manca la proposta di quelle espressioni che tutti dovrebbero avere a disposizione, perché, anche riallacciandosi al discorso di prima, esiste uno spazio di proposta solo nel momento in cui esiste un immaginario, un qualcosa di diverso. Se quel discorso viene a mancare si riduce lo spazio disponibile, e la perdita è irrimediabile, ciò che smette di esistere poi non c’è più. Meglio che esista e faccia discutere, anche senza piacere, ma resta comunque un visibile elemento di rottura da ciò che è consueto, un granello nell’ingranaggio. Mancano proprio queste scene non solo musicali che non siano solo consolatorie e piegate alla volontà unica del mercato. 

Oggi, con la crisi della musica fisica, la sua smaterializzazione, gli mp3 singoli che fanno perdere di vista l’opera completa, pensare a un concept album (che anche tu hai realizzato) o comporre brani che superano gli obbligatori tre minuti fino a sfiorarne dieci, continuare a fare album,sono tutti atti di coraggio? Sono una necessità?
Altra bella domanda, a me piacciono i concept album, mi piace sentire il lavoro che c’è dietro un’opera artistica, comprenderne il pensiero creativo. Ma è sempre sconveniente, e il rischio è che il mercato mi possa togliere questa possibilità di incidere in libertà. Svanirei anch’io. Per esempio curo una rassegna nella mia città, Lugocontemporanea, dove aiuto a far sopravvivere queste espressioni artistiche ormai atipiche. Negli anni ci siamo costruiti una storia che ci ha consentito di invitare, anche con i budget disponibili sempre più risicati, artisti famosi, che hanno fatto la storia, che vengono perché negli anni passati ne era venuto un altro, e tutto questo ci gratifica molto perché questa manifestazione diventa un’isola felice appunto. 
Insomma ci provo in ogni modo, e altri stanno facendo un lavoro egregio, i primi che mi vengono in mente sono anche quelli che amo avere volentieri intorno, lo stesso Puglisi, l’ottimo Piero Bittolo Bon (sax jazz d’avanguardia), Beppe Scardino (sassofonista jazz anche lui, spesso nella band di Bobo Rondelli), leve nuovissime come Valeria Sturba (violinista e molto altro senza limiti di genere). Tutti musicisti sani che sanno suonare davvero. Poi bisogna seguire le innovazioni, io non sono un nostalgico, non mi sento ancora vecchio. Bisogna dunque capire come muovermi in questo tempo, perché non si fa la rivoluzione in solitudine. Muoversi con intelligenza. Il mio sogno sarebbe fare una sorta di piccola opera non dico rock ma che comprenda molti degli stili che ho manipolato negli anni, con tutte le funzionalità che si portano dietro, quindi improvvisazione jazzistica, il rigore della scrittura sinfonica, l’aspetto concettuale, i linguaggi contaminati della musica contemporanea, e il pop, naturalmente nella sua accezione nobile, popolare. Per il momento, sto pensando di fare dei videoclip, artistici, anche divertenti, connessi l’un l’altro, utilizzando le nuove tecnologie. Come primo esperimento, in un connubio che può sembrare improbabile, da un brano di “Sento doppio” ho tratto un video con Caparezza, artista di grande intelligenza e rara umanità, una persona per bene. Seguiranno altri videoclip. 



John De Leo & Fabrizio Puglisi – Sento Doppio (Carosello Records, 2017)
John De Leo è movimento continuo, continua ricerca, perlustrazione attenta e disinibita oltre il limes delle possibilità estreme concesse dalla sua straordinaria dote vocale. E’ jazz, certamente, ma non solo. Questo nuovo album, che riduce il quasi orchestrale Grande Abarasse all’osso, con la curiosità parallela del solo pianista Fabrizio Puglisi sodale nell’approccio e sviluppo della materia, è un inno all’improvvisazione senza schemi che va oltre ogni catalogazione, attingendo senza censure da tutti i generi che hanno sollecitato John nel corpo e nella mente, dallo swing al folk sparsi qua e là, dalla contemporanea al rock, dalla classica al blues seminato un po’ ovunque. Ottimi gli interventi di Gianluca Petrella che mostra evidenti consonanze sentimentali. John con la voce fa quello che vuole, dal rumorismo esasperato alle dissonanze agli stridori, dai bassi del bordone cosmico agli acuti soprani, un cosmo di possibilità che lascia, noi umani, senza parole. A questa immensa galassia aggiunge le offerte della tecnologia, con intelligente e moderato dosaggio, a estendere ancor più la gamma delle impossibilità. Puglisi è altrettanto dirompente, tra dolcezze e inusuali fonie del suo piano “preparato”, sensibile e dispettoso, armonico e rumorista. Segue e stimola la voce, si fa accompagnamento e guida. Il lavoro a due è un ascoltarsi stimolante e attento, che porta in mille direzioni assecondando il sentimento dell’attimo, e questo album è solo una delle possibili varianti cui possono giungere i due creando ogni volta un mondo sonoro diverso e irripetibile, un manuale d’approccio, un catalogo d’intenti. Alcune citazioni presenti, con omaggi a Bernstein, Coleman, Cage, Coltrane, Monk, sono solo ancoraggi iniziali, ormeggi da cui svincolarsi per una rotta a sorpresa, senza legami alla tradizione, senza essere mai irrispettosi. Tutto serve a tracciare una mappa in continuo divenire, mobile, fluttuante, dove si naviga a vista e con gusto, senza tema di naufragi o scogli.


Alberto Marchetti

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