Nijmegen Music Meeting, Nijmegen (Olanda), 3-5 giugno 2017

Il Music meeting dice 33 Gli intensi tre giorni (3-5 giugno) della 33a edizione del Music Meeting hanno offerto numerosi fili rossi. Il primo passa per il Sudafrica con due proposte molto diverse fra loro: da un lato la ‘carta bianca’ data al chitarrista Derek Gripper, dall’altro I tre concerti con l’energia incontenibile dei BCUC. Spaziando da Bach al Mali, in quattro diverse occasioni Gripper ha mostrato disponibilità a dialogare con altri musicisti presenti al festival, in particolare con la kora di Sekou Dioubate e con la chitarra preparata di Paolo Angeli. Più rigido e meno riuscito è stato l’incontro con i musicisti di provenienza mediorientale, dove ha lasciato spazio all’ensemble di musicisti siriani rifugiati nei Paesi Bassi che ha partecipato al festival nella splendida cornice del giardino botanico. Sia il lavoro di Gripper, sia di Angeli mostrano sete di espandere le potenzialità della chitarra: di fatto l’approccio del secondo si rivela più fertile, sia per l’uso di pedali e bordoni, sia per l’ampiezza di veduta e capacità di improvvisare, mentre Gripper rivela un approccio “classico” in grado di giocare con accordature, timbri e repertori, ma meno flessibile in sede di dialogo e improvvisazione. 
Rispetto alla loro cifra ‘intimista’, i Bantu Continua Uhuru Consciousness (BCUC) sono un fiume e un sermone in piena che, partendo dai conflitti sociali che attraversano Soweto, si rovescia sugli ascoltatori europei senza mancare di rammentare le relazioni coloniali che hanno attraversato e continuano ad attraversare il pianeta. A tenere unito il gruppo sono soprattutto le linee di basso elettrico di Mosebetsi, su cui si inseriscono le voci di Jovi e Hloni. Ma a dominare il palco sono le ampie grancasse (quelle da banda), profonde e incalzanti nelle mani di Luja e Skhumbuzo in dialogo con le congas di Thabo. In due concerti su tre li ha raggiunti il sassofonista Shabaka Hutchings che ha dimostrato immediata sintonia e capacità di trovare sia spazi ‘in sezione’, sia di lirismo improvvisativo. Intervistato a bordo palco, ha voluto estendere l’idea dello scrittore Ngugi a “muovere il centro” (uscire dall’eurocentrismo), includendo anche il modo di pensare il jazz e rivendicando una specifica lettura africana e della diaspora africana. Un secondo filo rosso riguarda le vecchie glorie dell’Africa lusofona: decisamente in forma quando si tratta della rumba di Sao Tomé e Principe con gli Africa Negra, trascinati dall’imprevedibile cantante João Seria e dalle linee della chitarra di António Menezes. 
È divertente e ballabile anche la fisarmonica del veterano Bitori, vicino di casa a Santiago del cantante Chando Graciosa che, per l’occasione, ha riunito un gruppo di strumentisti abituati ai tour con Paris e Evora e perfettamente rodati fra loro: Danilo Tavares al basso elettrico, Toy Paris alla batteria, Miroca Paris alle percussioni. Anche la Colombia, per una volta, vanta due, anzi tre, gruppi e non potrebbero essere più diversi: il trio Los Pirañas vantano una cifra artistica irriverente, pronta ai cambi di direzione; Sonia Bazanta Vides, meglio conosciuta come Totó la Momposina, insieme alla figlia, Euridice Oyaga de Hollis, da voce e corpo alle tradizioni di matrice africana e indigena della costa colombiana, protagoniste anche del recente album “Oye Manita”. Con Totó suonano tre percussionisti d’eccezione: Marco Vinicio Oyaga Basanta e Wilmer Guzman Arevalo ai tambor, Rafael Castro Vegara (bombos), efficaci anche come gruppo Chuanas, insieme agli altri strumentisti che accompagnano abitualmente Totò, Wilmer Guzman Arevalo (tambor e chitarra) e le due gaitas, Jorge Luis Aguilar e Edwin Hernandez Ardila. Totò e il suo gruppo si conoscono a menadito e sanno come trascinare nella danza e nel canto il pubblico, specie quando si tratta di classici come la cumbia di José Barros “El pescador”: 
“Y esta cumbia que se llama / "el alegre pescador" / La compuse una mañana /Una mañana de sol”. È un canto ancestrale, sottolinea Totò: “El pescador... Habla con la luna”. Un quarto filo rosso ci racconta la perizia strumentale di gruppi newyorkesi che intenzionalmente pescano I propri repertori da diverse latitudini. È il caso della brillante dizione ‘world’ di Magda Giannikou con il sestetto Banda Magda, e Marcelo Wolosk e Steven Brezet alle percussioni, così come delle commistioni balcanico-latine proposte dalla New York Gypsy All Stars. Molto efficace la competizione a distanza fra i tre gruppi africani che guardano anche al dance floor: la Kondi Band col lamellofono elettrificato di Sorie Kondi (Sierra Leone), le intramontabili canzoni etiopi di Girma Bèyènè accompagnato dai francesi Akalé Wubé, ma soprattutto l’Orchestre Poly-Rythmo de Cotonou condotta dalla voce di Vincent Dossa Ahehehinnou. Ottima preparazione per la notte afro-latina, da sempre uno dei principali motivi di richiamo al festival. La parte del leone se l’è presa l’African Salsa Orchestra che ha per protagonista, dal Benin, Michel Pinheiro cantante e trombonista che in sezione fiati trova le linee acute di tromba di Florent Briqué e Florent Cardon. 
Ma ognuna delle giornate ha avuto concerti pomeridiani e notturni d’eccezione: il progetto Junun in cui tre diverse tradizioni musicali del Rajastan si incontrano in chiave dance sotto la guida di Shye Ben Tzur (in veste di Goran Bregovic asiatico, compresa Fender, abbigliamento e taglio di capelli); l’ottetto birmano Pantra Sein Mla Myaing, combinazione di metallofoni, percussioni e danza capace di trasportare immediatamente molto lontano; e ancora il progetto elettronico libanese Love & Revenge dedicato alle grandi voci della musica araba e arrangiato da Rayess Bek i video di La Mirza e il l’oud elettrico di Mehdi Haddab. La cornice elettronica da qualche anno caratterizza la prima giornata del festival, così come nella seconda trovano maggiore spazio i temi della canzone e della musica improvvisata. Quest’anno due esempi di eccellenza sono venuti dal gruppo Mama Rosa - che vede Brian Blade in veste di chitarrista e cantante e autore di tutte le toccanti composizioni – e dal quartetto Sound Effect del bassista Ben Williams a proprio agio sia in un linguaggio squisitamente jazz, sia nell’interpretazione di successi non lontani nel tempo come quelli dei Nirvana. 


Alessio Surian

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