Maria Pia De Vito featuring Chico Buarque – Core [Coracão] (Jando Music/Via Veneto Jazz, 2017)

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Coracão ‘e Napule: le connessioni poetiche di Maria Pia De Vito tra Brasile e Napoli
In “Core[Coracão]”, la vocalist partenopea, ai vertici del panorama jazz internazionale, offre cittadinanza sonora napoletana a tredici canzoni carioca,  spaziando tra Chico Buarque, De Moraes, Jobim, Guinga e Gismonti. Sperimentatrice delle infinite possibilità sonore della voce, Maria Pia De Vito è artista versatile, sensibile e creativa, capace di passare dal jazz europeo più innovativo al songbook di Joni Mitchell, da Pergolesi alla Musica Popular Brasileira (MPB), per l’appunto. “Core[Coracão]” è un lavoro profondo e appassionato, nato da un studio lungo, da un raffinato lavoro di traduzione dal portoghese al napoletano, una cesellatura fonica, che conserva la poesia e la musicalità dei testi originali, resi magistralmente nella lingua napoletana. Una produzione che culmina nell’’incontro con lo stesso  Chico “Ciccillo” Buarque,  ospite del disco nei brani "Todo sentimento" e “O Meu Guri".  La De Vito si accompagna al pianista gallese Huw Warren, che con lei ha inciso due album, "Dialektos" e "'O Pata Pata", al clarinettista Gabriele Mirabassi, altro vecchio sodale, nonché ambasciatore musicale del Brasile in Italia, al chitarrista honduregno-palestinese-brasiliano Roberto Taufic, autore di molti arrangiamenti del disco e musicista dalla notevole sensibilità,  all’ottimo e non convenzionale percussionista Roberto Rossi. 
Ospite l'ensemble vocale Burnogualà, fondato dalla stessa cantante, con cui l’artista napoletana sta lavorando al progetto "Moresche ed altre invenzioni”. Conversare con Maria Pia De Vito è un piacere, per il suo carisma, per il suo piacere nel raccontare quest’esperienza. Dalla sua casa romana l’artista ci parla del suo amore profondo per il mondo brasiliano, non nascondendo l’entusiasmo e la soddisfazione per aver condotto in porto questo progetto che l’ha impegnata per diversi anni e che la vede collaborare con la storico autore di Rio de Janeiro.

Il tuo interesse per il Brasile non nasce con questo disco. C’è stata l’esperienza bahiana, l’incontro con Guinga, e tanto altro ancora… 
La musica brasiliana mi ha colpito e mi ha piaciuta da sempre, anche se non era nella mia pratica immediata. Ma la pratica e l’ascolto di composizioni di Tom Jobim o la bossa è qualcosa che noi jazzisti studiamo, fanno parte della nostra formazione. Poi, negli anni ho incontrato amici particolarmente appassionati di musica brasiliana con cui ho cominciato a sentire veramente di tutto e a scoprire brani anche meno noti. Chico Buarque l’ho conosciuto dall’infanzia: ricordo di aver ascoltato “Coracão” in televisione da piccola. Non ricordo tanto, ma mi impressionò la storia e la sua capacità di cambiare i vocaboli ad ogni strofa, di invertirli. Nel tempo, lui l’ho ascoltato a tratti ma sempre. Nel momento in cui per gioia privata, mi divertivo con amici a cantare brani brasiliani, è arrivato nel 2006 l’invito dell’associazione Napoli-Bahia a cercare prossimità e somiglianze tra la musica napoletana e quella bahiana. Mi invitarono a suonare all’Università Federale di Bahia per dieci giorni, in cui portai con me Nelson Veira, chitarrista bahiano che vive a Parigi: un improvvisatore pazzesco. Provammo con dei musicisti locali, raccogliendo materiali e mettendo insieme sia brani di Dorival Caymmi e Caetano Veloso sia miei brani in napoletano e la reazione del pubblico fu bellissima. Pertanto, convinta di questa cosa, ho portato in giro per concerti e festival con il nome di Transito Atlantico. 
Nel 2010 è arrivato l’invito di Guinga, e lì è successo davvero qualcosa. L’invito mi ha lusingato e fatta felice, perché ero impazzita per la sua musica dopo che Gabriele Mirabassi me l’aveva fatta conoscere. Mi arriva questa telefonata d’embleé, in cui Giunga mi chiede di fare l’ospite a un suo concerto a Roma, a Villa Celimontana. A casa mia abbiamo provato dei suoi brani: sui vocalizzati tutto bene, ma ho scoperto che grazie agli ascolti di infanzia la sua musica si ispira all’opera italiana, alla canzone napoletana, a Villa Lobos, a Porter: nella scrittura sta’ roba c’è. Ho provato ad improvvisare in napoletano sulla musica, gli ha fatto sentire il risultato ed è rimasto affascinato. Mi ha chiesto di scrivere qualche altro testo per il nostro concerto. Mi sono chiusa in casa e sono uscite sei traduzioni in quattro giorni: sai, quando la musicalità funziona… . C’era “Você Você” , su testo di Chico Buaque, che ho visto che era bella. Nel frattempo ho tradotto “Olha Maria” per il duo con Huw Warren, con cui ho prodotto anche “Beatriz” di Buarque e Edu Lobu, cantata in portoghese, e ancora “Assum Branc” che, come “Olha Maria”, ho messo su “O Pata Pata”, un disco dove c’erano già brani brasiliani cantati in napoletano.

Si può parlare di un’elaborata operazione transculturale, realizzata anche attraverso una fitta corrispondenza con lo stesso Chico Buarque,  che hai fatto addirittura cantare in napoletano.
Ho scritto a Chico per fargli sentire “Você Você” e “Olha Maria” e avere il permesso ufficiale di dichiarare la versione in SIAE, associate al suo nome. Su “Olha Maria” ha avuto una reazione commovente, mi ha fatto dei complimenti, di cui mi vergogno quasi a dirlo. Però su “Você Você” mi ha detto: «Qui c’è una parola che non significa esattamente quello». È cominciato questo dialogo epistolare con lui che parla in italiano, che si è infittito negli anni. Gli scrivevo con molta parsimonia, perché sono una persona discreta, e con molta calma, anche perché continuavo a lavorare altri progetti. In realtà, terminata la traduzione di “Você Você”, mi ha chiesto di scrivergli ancora per imparare un po’ di ‘napulitana’ (così scriveva), firmandosi ‘Franciscu’. 
Allora, gli ho spiegato che in napoletano Francesco si dice proprio come si scrive in portoghese, e gli ho detto anche che mio nonno era soprannominato Cicccillo: lui in maniera molto tenera da sei anni si firma Ciccillo. Nel frattempo, Guinga mi ha chiamato a suonare con lui in Brasile e questo mi ha molto rinforzata. Ho registrato “Porta da madama”, dove Guinga arrangia brani per quattro cantanti: Monica Salmaso, Maria João, Esperanza Spalding ed io.

Come hai costruito le traduzioni in napoletano? Come conservare non solo il senso, ma la “phonè” originale?
Innanzitutto, portoghese e napoletano sono lingue romanze. Poi c’è il fatto che tutti e due i luoghi – anche se uno è un continente l’altra una città – hanno visto enormi commistioni culturali: il napoletano con le influenze greche, latine, spagnole, francesi, arabe, il portoghese, che oltre alla lingua europea, ha assorbito parole africane di varia natura. L’Africa arrivata in Brasile è rinata in un altro modo rispetto al Nord America, con declinazioni ritmiche differenti. La presenza nelle due lingue di vocali aperte, mezze vocali, chiusure delle finali, parole tronche consente una funzionalità pazzesca della lingua sia su cose ritmiche che su cose melodiche. Il napoletano ha una potenza straordinaria, che non smette di stupirmi. Il mio impegno maggiore è stato quello di restituire il più possibile, nelle mie traduzioni, non solo il significato ma anche la sonorità originale dei testi. La somiglianza tra le due lingue mi ha reso più facile il lavoro di traduzione. Ho cercato non solo tradurre ma di avere rispetto, il più possibile, delle sonorità di base del brano. La traduzione non è una mia poesia ispirata a… , ma è il tentativo di essere più vicina alla letteralità. Laddove non è stato possibile, mi sono consentita delle licenze poetiche, anche esse discusse con Chico. Dove ci sono espressioni idiomatiche intraducibili o dei riferimenti particolari, per esempio: “La medaglina del Senhor do Bomfin” per me è diventata “La medaglietta della Madonna dell’Arco”. Altrove, ho usato delle immagini o delle metafore che passassero la stessa cosa. 
Il solo brano in cui mi sono concessa un azzardo linguistico è “Basta um dia”, diventato “M’abbasta nu’ journo”. Il titolo in portoghese è essenziale, in napoletano è pieno di roba, è barocco. Ho giocato su queste parole e sulle rime. In questo caso il suono è diverso, ma è stata un’operazione benedetta dall’autore, che è ipersensibile alle traduzioni delle sue canzoni. Sapendolo, ci ho messo tutta la cura possibile, chiedendo sempre un feedback, non dando mai per scontato niente. Come ti ho detto, il lavoro è progredito insieme ad un rapporto epistolare con Chico, divenuto nel tempo amicizia profonda, basata su un amore feroce per le parole ed il loro suono. Abbiamo discusso insieme significati e sfumature. Tra l’altro, una delle cose più ripaganti è stato parlare con un autore così grande, che fa scuola: significa continuare a studiare e a imparare (I testi italiani e portoghesi sono scaricabili da www.jandomusic.com, ndr).

Da sperimentatrice vocale ed improvvisatrice, come ti sei orientata nel porgere la voce?
Questo è un disco di canzoni e storie. Non voglio essere una riproduttrice, ma fornire cornici diverse alle canzoni. Vista l’asciuttezza del portoghese, ricordiamoci che Jobim diceva: «Ride quando piange e piange quando ride» e poiché, invece, nella vocalità del napoletano ci può essere molto vibrato,  ci può essere un canto molto pieno, nel disco canto a mezza voce non cercando dinamiche possenti. C’è poca improvvisazione: è il disco in cui improvviso di meno, perché era importante far passare la storia, la poesia, le melodie meravigliose dei brani - tutto merito degli autori - rileggendolo con musicisti formidabili per flessibilità.

E parliamo dei quattro principali coprotagonisti di questo progetto. Huw Warren (piano), Gabriele Mirabassi (clarinetto), Roberto Taufic (chitarra) e Roberto Rossi alle percussioni.
Con Huw Warren, dal primo momento in cui noi ci siamo conosciuti, ci siamo comunicati e abbiamo riscontrato un amore comune per l’improvvisazione, per il dialogo fitto, per la per la melodia, per la musica di Ermeto Pascoal e per la MPB.
Con lui so di trovare una persona già molto preparata, che ama in profondità questa musica.  Gabriele Mirabassi è mezzo naturalizzato brasiliano, ha fatto tour in Brasile, ha vinto premi in Brasile con il disco inciso con Guinga, è stato chiamato a insegnare a Curitiba. Lui è veramente uno studioso in tutto quello che fa. Gabriele mi ha presentato Roberto Taufic, chitarrista di origini palestinesi, nato in Honduras e cresciuto a Natal, nel nord-est del Brasile. È un grande improvvisatore, virtuoso della chitarra, un notevolissimo compositore, dotato di grande sensibilità. Negli arrangiamenti favorisce la melodia, non l’affoga, come ha detto anche Ermeto nel parlare dell’arrangiamento di “Agua e Vinho“, commento che abbiamo reso pubblico nei comunicati stampa e nelle note del disco. A volte gli arrangiamenti diventano prevalenti, Taufic è riuscito a carezzare le strutture, scrivendo arrangiamenti di belli e sensibili. Per un concerto in trio, mi ha fatto conoscere di persona Roberto Rossi, batterista e percussionista, una specie di Nanà Vasconcelos italiano, che conosce a fondo la musica brasiliana e ha un set formato da una mezza batteria con percussioni.  Mi serviva qualcuno che sapesse rispettare ma che sapesse aprire la forma, in modo da evitare di fare la finta brasiliana. Lui è riuscito a fornire un colore percussivo ma aperto alle forme. La cosa eccezione dell’avere a che fare con persone che hanno lunga esperienza come jazzisti è che sono flessibili, che favoriscono il dialogo e l’interplay.

Una parte l’ha avuta anche per l'ensemble Burnogualà…
Un ensemble vocale che dirigo, una comunità di ricercatori sulla voce sulle possibilità interpretative e improvvisative, con cui lavoriamo al progetto “Moresche ed altre invenzioni”, ricerca sulle moresche del compositore rinascimentale Orlando di Lasso. Un lavoro con cambi continui di tempo e sorprendenti contrappunti e improvvisazione con canto naturale, popolare ed etnico. 

Al di là della poetica di autori immensi, che insegnamenti dalle tue frequentazioni brasiliane?
Ho appena cominciato a frequentare il Brasile: sono appena dieci anni! Intanto, in Brasile la musica fa parte della vita quotidiana. Il brano più complesso che ti puoi immaginare: prendi a “Imagina” di Jobim o a “Choro bandido” di Edu Lobu con il testo di Chico, li senti cantare dal ragazzino per strada. Il modo di vivere la musica mi ha colpito molto profondamente. Quando sono andata a Bahia la prima volta, ho visto questa capacità dei percussionisti che sono considerati grandissimi, i quali con lo steso battito, lo stesso ondeggiamento (il ‘balanço’, lo chiamano) sul tempo, ti fanno girare il tempo come una ruota perfetta, come una cosa swing. Il tempo che fluttua, la ripetizione ingenera un’armonia nel movimento sulla quale l’interpreta solista ha la sua libertà. È un modo particolare di avere a che fare con i tempi sincopati, è un’altra declinazione della musica africana. Sono molti gli strati della musica brasiliana che mi hanno colpito: oltre a quello ritmico, c’è la melodia, questa capacità di scrittura sconvolgente, di gente come Guinga con melodie tostissime, che, però, le persone cantano. Un ‘altra cosa ancora è la scarsa distanza tra la cultura alta e bassa, che non è così violenta come in altri luoghi: questa è una grandissima lezione. Poi ci sono i miti, i compositori incredibili, la capacità di estendere la melodia e di fare sentimento. Come ti dicevo prima: questa è musica che suona allegra e sopra ci senti: «Você abusou”, tirou partido de mim… Tu hai abusato di me, mi hai fatto male» (MariaPia accenna “Você abusou”, ndr), in una specie di canto collettivo, che consola, come dire: “Tutti insieme siamo stati tristi, ma fa bene dircelo”. È una cosa molto bella e tenera.

Si rinnova quest’anno anche il tuo impegno al Festival di Ravello 2017, edizione numero sessantacinque, come direttrice della sezione jazz. 
Sì, dirigo una sezione jazz del festival, che vede idealmente una sezione dedicata alle voci, che è qualcosa di mancante in Italia. 
Lo scorso c’è stata una piccola rassegna in cui era rappresentata la declinazione europea del canto jazz; invece quest’anno ci sono due cantanti, che prendono l’avvio dalla tradizione afro-americana: una è Dianne Reeves (5 luglio), che ha collaborato con Sergio Mendes e Harry Belafonte, è stata vincitrice di cinque Grammy, tra i quali uno per la colonna sonora del film di George Clooney, “Good Night and Good Luck” e il più recente, nel 2015, per  l’album “Beautiful Life”: è una delle grandi americane della su generazione, l’altra Roberta Gambarini (8 agosto), la nostra più famosa italiana negli Stat Uniti, che canta al Lincoln Center, che ha cantato con i più grandi maestri storici. Lei farà un progetto speciale per il Festival di Ravello con un gruppo che si chiama Salerno Jazz Collective. In realtà, sono nove musicisti dell’area salernitana, che hanno tutti una carriera internazionale, sotto la direzione di Sandro Deidda: è un progetto speciale in residenza di tre giorni. Poi ci sono gli altri tre eventi ispirati all’idea di comunità da parte dei musicisti, al jazz come «democrazia perfetta», come dice Enrico Rava. Il jazz come ricerca e avventura, con Wayne Shorter Quartetto, Enrico Rava in quintetto con Tomasz Stanko (23 luglio). Questi due grandi trombettisti, quasi coetanei, suonano con tre musicisti giovani; sono artisti che hanno fatto emergere un sacco di giovani, avendo funzione di mentori, nel passare il jazz dal grande grande musicista al giovane, che impara sul campo. Infine, il progetto speciale, che è l’unione dei due progetti di Luca Aquino “Petra” e Al Amal” (che significa “La Speranza”), con otto elementi della Jordanian National Orchestra’s Ensemble (26 agosto). Ci sono musicisti armeni, siriani e giordani: della serie in musica barriere culturali non ce ne sono... Fa parte della campagna Unesco #Unite4Heritage che lancia un messaggio di speranza a difesa dei luoghi d’arte distrutti dalle guerre. 



Maria Pia De Vito featuring Chico Buarque – Core [Coracão] (Jando Music/Via Veneto Jazz, 2017)
«Muito obrigado pelo disco! Qualche brivido, una furtiva lacrima, la bella sorpresa di questa Teresinha impazzita… Que bela ideia verter meu guri para o napoletano. Posso imaginálo a correr por aqueles becos. Ficou estupenda a sua versão. E Eu te amo? Estou certo de que Tom Jobim amaria ver e ouvir nossa valsíssima (como ele dizia) em napolitano, quiçá à beira do Vesúvio. Che bello, Maria Pia, come suonano bene questi sfruculie. Ed è fantastico questo saperci ainto e afora. E sono io a ringraziarti per la stupenda Olha Maria. E anche per Você Você... Un regalone, Maria Pia! Il tuo Você Você è bello da piangere. Grazie, mille grazie. Mi piace molto la traduzione, e che bella questa parola, malombra… Continuo achando que as minhas letras nasceram para serem cantadas em napoletano. Quando mi chiedono che cosa ho fatto negli ultimi mesi, spesso mi sento dire: sono andato a Parigi per cantare in napoletano con Maria Pia. Minha mui querida Maria Pia, Core è un belissimo titolo. Ed è una delle due parole napoletane che conoscevo da sempre: anema e core. uno, ddoje, treje, mille vase».  
Dopo le parole mistilingue di ringraziamento di Chico Buarque a MariaPia De Vito nella presentazione del disco: si può dire di più per svelare l’anima di questo straordinario progetto? De Vito non si crogiola nei propri successi, da musicista incline allo studio e alla ricerca senza sosta, si lascia andare al piacere di cantare e alla scoperta. Al  jazzofilo elitario che potrebbe lamentare l’assenza delle sperimentazioni più ardue di cui la vocalist napoletana è capace, diciamo che non sta mettendo a fuoco il percorso raffinato dell’artista, che in un disco di canzoni esplora la potenza straordinaria della lingua napoletana, conservando, la poesia, la melodia e la storia degli originali, salvaguardando l’asciuttezza del portoghese con un canto a mezza voce che predilige le coloriture piuttosto che le dinamiche potenti.  MariaPia non propone solo traduzioni dell’impegnativo canzoniere di Chico Buarque e di altri compositori carioca, ma approccia il materiale con grande consapevolezza, firmando un‘operazione dal profilo transculturale, che mette in relazione due “popoli impertinenti” (Caetano Veloso dixit). Tutto si principia con il capolavoro buarqueano “‘A costruzione”  (“Construção”), incentrato sul motivo di una  tammurriata, prima per sola voce, poi assecondata da piano, chitarra, clarinetto e percussioni, che alternano scrittura pensata e improvvisazioni contraddistinte da grande levità. La conclusione di un amore è raccontata da “Facimmo ampresso” (“Trocando em miudos”). Il primo duetto con Ciccillo Buarque arriva  con “‘O Piccerillo” (“O meu guri”), dove i tasti del gallese sono la base sicura del canto, insieme ai ricami del clarinetto, alla chitarra di Taufic e alla sobrietà percussiva di Rossi. Voce piena e pianoforte riempiono il lirismo di “M’abbasta ’nu juorno” (“Basta um dia”). Il quartetto si ricompone in “Teresinha”, che diviene “Teresesella”. A seguire, ritroviamo la voce di Chico Buarque in “Todo sentimento”,  cantata in coppia in lingua portoghese. “Partido alto” è reinventata come “Dio ce penzarrà”  e sviluppata in trio (piano, chitarra e percussioni). All’intimismo e al pathos di “Notturna” e “Je t’amo” (“Eu te amo”), quest’ultima suonata con ‘na voce e ‘na chitarra’, segue l’ascesa ritmica di “’O ritorno d’o Jammone”, vale a dire  “A Volta do Malandro”, simbiosi napoletano-carioca per quartetto e coro vocale, mentre “ Ll’acqua e ‘o vino” (“Agua e vinho”, di Egberto Gismonti) si fonde con il classico d’arte partenopeo “Voce ‘e notte”. Dopo l’incanto per voce pura di “E dimme” (“Você Você”) , si fanno strada i suggelli strumentali di Mirabassi che accompagnano il canto limpido di MariaPia nella conclusiva “Curre Maria” (“Olha Maria”). Que maravilha!  



Ciro De Rosa

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