Speciale Roots Rock, Blues & Songwriters: Andrea Schroeder, Rodrigo Leão & Scott Matthew, Jono Manson, Will T. Massey, John McEuen, Luke Wilsow-King, Seth Lakeman, Chris Cohen, Old Fire, Country Lips, Rachel Sage

Andrea Schroeder – Void (Glitterhouse/Indigo, 2016) 
A distanza di due anni da quel gioiello che era “Where The Wild Oceans End”, la cantante tedesca Andrea Schroeder torna con “Void”, album prodotto da UlfIvarsson e Victor Van Vugt, nel quale ha raccolto undici brani composti in collaborazione con il chitarrista Jesper Lehmkuhl e registrati tra Berlino e Stoccolma con la collaborazione di Maurizio Vitale (batteria), Dave Allen (basso), Catherine Graindorge (violino) e Mike Strauss (hammond). Sin dalle prime note ad emergere è un sound elettrico più oscuro e cupo rispetto al passato, perfetto nell’incorniciare la potenza e la raffinatezza della sua voce che si muove tra ritmi serrati e danze tenebrose a dare forza e sostanza alle sue liriche dal tratto gotico. Ogni brano sembra stagliarsi dall’abisso dalla disperazione come nel caso della title-track che apre il disco o della ballata densa di lirismo “Black Sky” su testo del poeta underground Rob Plath. Le atmosfere si fanno ancor più stranianti nell’intersezione con le ritmiche industrial di “Burdern” per condurci nella catarsi del fuoco di “My Skin Is Like A Fire” e “Kingdom” fino a giungere alla toccante ballata “Little Girl” il cui testo racconta la storia attualissima di una rifugiata in fuga dall’orrore della guerra. Le creature notturne che pervadono “Creatures” e la splendida “Was Poe Afraid” su testo di Charles Plymelle ci guidano verso il finale in cui a spiccare sono la poetica “Don’t Wake Me” e la dolcissima “Endless Sea” che apre uno spiraglio di luce con la linea melodica guidata dal violino della Graindorge. Se mai ce ne fosse stato bisogno “Void” ci conferma tutto il talento della Schroeder nel saper coniugare con una originale cifra stilistica poesia e rock. 


Rodrigo Leão & Scott Matthew – Life Is Long (Glitterhouse, 2016)
Il sodalizio tra il compositore portoghese e fondatore dei Madredeus, Rodrigo Leão e il cantautore australiano Scott Matthew ha radici lontane nel tempo, risalendo alla partecipazione di quest’ultimo alla splendida “Terrible Down” del 2011 firmata dal lusitano. Le loro strade sono tornate ad incrociarsi in più occasioni dal vivo, e l’approdo ad un disco a quattro mani è stato il coronamento naturale non solo della loro collaborazione ma anche di una consolidata amicizia. A cinque anni di distanza eccoci, dunque, tra le mani “Life Is Long”, disco che raccoglie tredici brani di pregevole fattura nei quali i due artisti hanno messo a confronto i rispettivi background artistici traendone una vibrante linfa ispirativa. A dimostrarlo sono brani come la pianistica “The Child”, le elegantissime ballate orchestrali “The Fallen”, “Nothings Wrong” e “That’s Life”, la poesia di “In The End” e le divagazioni elettriche di “Enemies”, ma il vero vertice del disco arriva con la sontuosa “Unnatural Disaster” in cui spicca il testo denso di lirismo. Insomma “Life Is Long” sugella il perfetto punto di equilibrio tra la voce intensa e toccante di Matthew e le sublimi trame musicali di Leão. Difficile poter chiedere di più.


Jono Manson – The Slight Variations (ConArtisti/Appaloosa, 2016)
Chitarrista, cantautore e produttore con alle spalle quasi quarant’anni di onorata carriera e venti album, Jono Manson non ha bisogno di presentazioni, soprattutto per gli italiani, avendo coltivato con il nostro paese un rapporto privilegiato, tanto per averci vissuto per lungo tempo, quanto per le divere collaborazioni con musicisti nostrani come Paolo Bonfanti, Gang, Mandolin’ Brothers, Jimmy Ragazzon nonché con Massimo Bubola, Massimiliano Larocca e Andrea Parodi per il progetto Barnetti Bros. Ritornato da qualche anno negli States e precisamente a Chupadero sulle montagne del New Mexico, il cantautore americano ha recentemente dato alle stampe “The Slight Variations”, nuovo album di inediti nel quale ha raccolto dodici brani di cui sei composti con la moglie Carine Welles e due con il vecchio amico Chris Barron degli Spin Doctors, ed incisi con la collaborazione di Jason Crosby (piano, violino ed organo) e Kevin Traynor (chitarra elettrica). Concepito come una sorta di autobiografia in musica in quattro atti (Overture, First Movement, Second Movement, Epilogue), il disco traccia un bilancio della sua carriera e della sua vita mescolando ballate folk-rock e divagazioni country con l’aggiunta di qualche incursione nel rock. Ad aprire il disco sono le soffici treme folkie di “Trees” a cui seguono il trascinante soul rock di “Rought and Tumble”, la splendida ballata “I’m Ready” e le evocazioni di psichedelia beatlesiana di “Wildflower”, ma il vero gioiello del disco arriva con “Footprints on the moon” con il suo ritornello radiofriendly che lascia il segno sin dal primo ascolto. La solare title-track ci schiude poi le porte per la seconda parte del disco dove a spiccare sono “What would I Not Do?” e il rock-blues venato di soul di “Brother’s Keeper” che ci avvia verso il finale dove brilla il folk-rock di “When the time is right”. La soffice melodia country di “Little bird song” suggella un disco di puro songwriting artigianale appassionato ed appassionante, del quale forse non si accorgerà il grande pubblico, ma che non potrà non incantare quanti vi dedicheranno attenzione.


Will T. Massey – 30 years in the rearview - The Collection: 1987-2016” (Route 61, 2017)
Considerato la più grande promessa mancata della scena rock americana degli anni Novanta, Will T. Massey debuttò nel 1991 con il disco omonimo raggiungendo in poco tempo un clamoroso successo, e questo tanto per la qualità di canzoni come “I Ain't Here” e “It's Midnight All Day Long”, quanto per la partecipazione di uno straordinario cast di strumentisti composto dal produttore Roy Bittan, Mike Campbell, Jim Keltner e Waddy Watchel. Ballader di razza in grado di coniugare il rock urbano con il country e il folk del natio Texas, Will T. Massey vede il destino voltargli troppo presto le spalle, e dal successo cadde in breve tempo in una spirale di droga e problemi personali che lo hanno tenuto lontano dalle scene per oltre dieci anni, finché invogliato dai suoi fans nel 2006 è tornato sulle scene dando alle stampe “Acoustic Sessions” e “Alone”, pubblicati in proprio e distribuiti attraverso il suo sito internet. E’ cominciata, così, una lenta ripresa passata attraverso la pubblicazione di “Slow Study” che raccoglieva brani incisi nel 1989 prima del debutto e album di inediti come “Wayward Lady” del 2008 e il più recente “The Weathering” dello scorso anno. Preziosa occasione per scoprire o riscoprire la produzione artistica del cantautore texano è la bella raccolta “30 Years in the rearview - The Collection: 1987-2016”, pubblicata dall’etichetta italiana Route 61 di Ermanno Labianca, e che raccoglie una selezione di tredici brani più tre bonus tracks. Aperta dalla nuova versione per soli voce e pianoforte della superba “A summertime graveyard” dall’album di esordio, l’antologia ci regala una serie di piccole grandi gemme come il rockabilly di “Slow Study”, il country acustico di “Mr. Johnson’s Store” e l’intensa “Long distance love”. Si prosegue con la divagazione in territori pop con “Blue Shadow”, il talkin’ blues “Letters in the wind” e la romantica “Alone With You” ma è con le splendide “Peace Train” e “Wayward Lady U.S.A.” che si toccano i momenti di più alti del disco che si completa con le gustose “The Weathering”, “In The Wind”, “Life Moves On” e “You Take The Town”, anch’essa tratta dal primo disco del texano, quasi a voler chiudere il cerchio. Giusto compendio alla tracklist sono le tre bonus tracks “Old fashioned love”, “The Poolroom” e “The Dark side of a dream” che riportano indietro le lancette del tempo, facendoci scoprire la febbrile creatività del giovane Will T. Massey. 


John McEuen – Made In Brooklyn (Chesky, 2016)
Leader e fondatore della mitica Nitty Gritty Dirt Band, John McEuen nell’arco della sua trentennale carriera ha esplorato in lungo ed in largo i suoni della tradizione americana, non senza sperimentare connessioni ed intersezioni con generi e radici differenti. Parallelamente all’attività con la band, il musicista americano ha prodotto anche una dozzina di album, a cui si è aggiunto di recente “Made In Brooklyn”, lavoro tra i più ambiziosi della sua carriera, che ha preso forma nel corso di una due giorni di musica in uno studio di New York. Accompagnato da un cast di strumentisti ed ospiti d’eccezione come David Bromberg, Jay Ungar, Martha Redbone, David Amram, John Cowan, Steve Martin, John Carter Cash ed altri, John McEuen ha rivisitato alcuni classici del folk, del rock e del country, con l’aggiunta di alcune composizioni, dando vita ad un vero e proprio omaggio all’Americana Sound. Durante l’ascolto, infatti, si spazia dalle belle versioni di “I Still Miss Someone” di Johnny Cash e “Mr. Bojangles” di Jerry Jeff Walker (quest’ultima ben nota nella versione del 1971 della Nitty Gritty Dirt Band con cui raggiunse il nono posto nella classifica pop statunitense) alle superbe “My Dirty Life And Times” e “Excitable Boy” dal songbook di Warren Zevon, passando per le ottime “She Darked The Sun” di Gen Clark e “My Favourite Dream” di Boudleaux Bryant, fino a toccare le autografe “Brooklyn Crossing”, “Acoustic Traveler” e la travolgente “The Mountain Whipporwill” in cui si apprezzata a pieno tutto il talento di McEuen come strumentista. Sebbene non aggiunga nulla di nuovo a quanto è stato già detto in ambito roots, “Made In Brooklyn” è un disco che appassiona tanto per la sua qualità intrinseca quanto per la passione che da esso emerge nota dopo nota.


Luke Winslow-King – I'm Glad Trouble Don't Last Always (Bloodshot/I.R.D. 2016)
Nato a Cadillac nello stato del Michigan ma ormai da diversi anni di base a New Orleans, Luke Winslow-King è un chitarrista blues di grande talento con alle spalle un articolato percorso artistico che lo ha condotto ad esplorare i diversi i diversi sentieri delle dodici battute. Se infatti con “The Coming Tide” del 2013 aveva esplorato le acque limacciose del Delta del Mississippi con influenze che spaziavano dal dixie ai suoni della Louisiana, con “Everlasting Arms” dell’anno successivo lo avevamo colto intento a riscoprire il blues dei primi del Novecento con la complicità di Esther Rose alla voce. Ad ampliare il raggio della sua personale ricerca sonora è il nuovo album “I’m Gald Trouble Don’t Last Always nel quale ha raccolto nove brani che dal punto di vista sonoro esplorano tanto i suoni desertici del Texas quanto le intersezioni con il country, mentre da quello lirico si caratterizza per temi che ruotano intorno alla fine della relazione con Esther Rose. Concepito nel corso del tour italiano del 2015 e successivamente completato a New Orleans il disco vede la partecipazione dell’italiano Roberto Luti alla slide, Benji Bohannon alla batteria, Brennan Anders al basso e Mike Lynch alle tastiere. Durante l’ascolto si spazia dalle atmosfere cooderiane della cinematografica “On My Way” all’omaggio a RL Burnside della trascinante titletrack fino a giungere alla splendida “Change Your Mind” ed al gustoso country di “Heartsick Blues”. Si prosegue con il blues sofferto di “Esther Please” e il r&b della ballata Watch Me Go ce aprono la strada al travolgente rock di “Act Like You Love Me”, ma il vero vertice del disco arriva sul finale con “No More Crying Today” in cui giganteggia la slide di Roberto Luti che racchiude in modo superbo tutto il senso di questo lavoro. 


Seth Lakeman – Ballads of the broken few (Cooking Vinyl, 2016)
Nell’arco di oltre un quindicennio di attività, il cantautore inglese Seth Lakeman ha messo in fila una nutrita discografia, raccogliendo anche qualche bella gratificazione come nel caso dell’ottimo “Poor Man’s Heaven” del 2008 che scalò le classifiche UK fino all’ottavo posto. Dopo aver tentato di cavalcare l’onda del successo avvicinandosi al pop, da alcuni anni il songwriter di Devon si è immerso in un viaggio alla riscoperta del folk inglese, scozzese ed irlandese. Il suo nuovo album “Ballads Of The Broken Few” nasce dalla collaborazione con il trio vocale Wildwood Kin e mette in fila undici brani, prodotti da Ethan Johns e caratterizzati da una perfetta alchimia sonora tra strumenti acustici ed elettrici nei quali si intrecciano le storie scure di operai, zingari, sognatori e viaggiatori. Quasi fosse uno storyteller vagabondo, Lakeman ci conduce tra le rivisitazioni di brani tradizionali come “The Willow Tree” e “Stranger”. racconti struggenti come “Pulling Hard Aganist The Stream”, eccellenti riletture come nel caso di “Anna Lee” di Laurelyn Dossett” fino a lambire il gospel con “Wherever I’m” e “Silence Reigns”, ma il vero vertice del disco è “Meet Me In The Twilight” nelle cui aperture world si legge la prossima direzione che potrebbe prendere il cantautore inglese. Insomma “Ballad of the broken few” è un piccolo gioiello tanto dal punto di vista interpretativo quanto da quello compositivo.


Chris Cohen – As If Apart (Captured Tracks, 2016)
“As If Apart” è il secondo disco dell’eclettico polistrumentista Chris Coen, già noto per i suoi trascorsi con Deerhoof, e che segue a quattro anni di distanza l’esordio come solista “Overgrown Path”. Sebbene rispetto al precedente gli ingredienti stilistici siano rimasti invariati, questo nuovo lavoro si svela in tutto il suo fascino tra melodie delicate e solari, ariose chitarre West Coast ed echi di psichedelia folk, il tutto impreziosito da testi intensi e mai banali. L’ascolto è, dunque, un piacevole e rilassante viaggio nel suono degli anni Settante che si dipana tra gli echi di Robert Wyatt della title track e le atmosfere rilassate di “Drink from a silver cup”, dalle atmosfere folkie di “Needle and thread” al pop venato di jazz di “Memory”, fino a toccare la psichedelia di “Sun Has Gone Away” e il country-blues di “In A Fable” in debito di ispirazione con Todd Rundgreen. Insomma Chris Cohen dimostra di padroneggiare bene i dischi di CSNY, Jefferson Airplane e Love, aggiungendovi una buona dose di originalità nella cesellatura delle melodie. 


Old Fire – Songs From The Haunted South (Kscope, 2016)
Noto per essere stato parte della fugace avventura con la supernova The Earlies e del progetto The Late Cord con Micah P. Hinson nonché per la sua attività con The Revival Hour, il musicista, programmatore e compositore texano John Mark Lapham torna con il progetto Old Fire dando alle stampe “Songs From The Hunted South”, disco frutto di dieci anni di lavoro in studio con la collaborazione di oltre venti strumentisti tra cui spiccano: Steve Wilson, DM Stith (tastiere), Warren Defever (chitarra) e Thor Harris (batteria), e la partecipazione di Tom Rapp, leader dei leggendari Pearls Before Swine. Si tratta di un album dal sound originale che si pone a metà strada tra roots music e ambient, nel quale si mescolano evocativi brani strumentali e pregevoli riletture dal repertorio di Low, Shearwater, Jason Molina e Psychic TV con una superba “The Orchids”. Durante l’ascolto si scopre la diversa natura musicale e melodica dei vari brani che nel loro insieme compongono un affresco denso di lirismo nel quale si mescolano spaccati di vita, ricordi ingialliti dal tempo, deserti della mente e divagazioni oniriche. Insomma un disco di grande poesia nel quale immergersi e perdersi completamente. 


Country Lips – ‘Till the daylight comes (Autoprodotto, 2017)
Ascoltando “’Till the daylight comes” dei Country Lips, ottetto honkytonk di base a Seattle, la prima impressione che si ha è quella di essere di fronte ad una delle tante band indipendenti che popolano l’universo musicale americano, passando di sera in sera da un pub ad un bar a macinare concerti e a scaldare lo zoccolo duro di appassionati avventori in cerca di svago. Insomma nulla di nuovo sul fronte occidentale verrebbe da dire, ma andando più a fondo si scopre una formazione consapevole di non fare la rivoluzione con la loro musica, ma in grado di trasmettere delle genuine good vibration attraverso una commistione perfetta tra honkytonk ed echi tex-mex, il tutto condito da accordion e pedal steel. Strizzando l’occhio a Johnny Cash e a George Jones ma allo stesso tempo ricalcando le orme di The Gourds e The Deslondes, i Country Lips hanno messo in fila tredici brani godibilissimi che si lasciano apprezzare in tutta la loro artigianale ed appassionata semplicità tra cui ci piace citare l’iniziale “Laundromat”, la trascinante “Grizzly Bear Billboard” e l’ironica “Bar Time”. Insomma, un disco piacevole che non mancherà di tradire le aspettative degli appassionati del genere. 


Rachael Sage – Choreographic (MPress/Caroline Distribution, 2016)
Artista poliedrica ed eclettica in grado di spaziare dalla musica alla danza, dalla poesia all’arte, Rachael Sage si è ritagliata negli anni un posto di rilievo nella scena indipendente americana, e questo non solo per i suoi album, ma anche per le sue doti di performer che l’hanno condotta ad esibirsi anche in Europa, facendo tappa recentemente a Firenze al Teatro De Sale. Il suo nuovo album “Choreographic” raccoglie quattordici brani originali incisi nel 2015 e con i quali la cantautrice americana rende omaggio alla danza: “Per me è stato come tornare indietro, fino alle mie radici. E’ stato come meditare sulla mia lunga relazione con la danza. L’atto di unire le note ai passi del ballo è stato, per me, la scintilla iniziale per scrivere musica. Siamo in un momento in cui ci rendiamo conto di quanto sia preziosa la libertà creativa e un grande dono è quello di poter condividere tutto questo con gli altri, al di là di ogni frontiera”. L’ascolto svela un lavoro maturo che mette pienamente a fuoco le potenzialità della cantautrice newyorkese in grado di spaziare, quasi a passo di danza, dalle trame eleganti della sontuosa “Heaven (Is a Grocery Clerk)” al pop di “Try Try Try” per toccare la struggente “I don’t believe it” e le dolcissime “Loreena” e “Home” che chiude un disco bello ed intenso come raramente capita di ascoltare. 


Salvatore Esposito

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