Per pudore o convenzione sociale l’amore sfortunato - quello infelice che accartoccia le viscere e fa sudare nelle notti insonni – è un fatto privatissimo. Solo i grandi artisti possono trasformarlo in un rito collettivo, un esorcismo di massa che magnifica il dolore e lo rende sublime. Uno di questi è Canio Loguercio, che già ci aveva deliziato col suo “Amaro Ammore”, scritto con Rocco de Rosa. Ora Canio torna sul tema e lo amplifica, immaginando nuove perversioni del cuore in “Canti, Ballate e Ipocondrie D’Ammore” (SquiLibri Editore, 2017); lo fa con Alessandro D’Alessandro, virtuoso dell’organetto, produttore e arrangiatore geniale, compagno inseparabile delle avventure del cantautore, d’origine e sentimento lucano e d’adozione e pensiero napoletano. Un album così meritava d’essere presentato con una festa, come quella straordinaria del 19 gennaio al Teatro Vascello. Una festa quasi perfetta e diciamo quasi perché un appunto all’organizzazione del Teatro va fatta, vista la difficoltà con cui ha affrontato il sold out. Fa male sapere che a Roma non esistano luoghi capaci di accogliere la Musica; a parte l’Auditorium – e anche qui cose da dire ce ne sarebbero – e un paio di club privati che fanno del loro meglio tra il chiasso degli avventori, la situazione è desolante. Tutto questo però non ha guastato la festa, anzi, l’ha resa più viva, vagamente caotica e nevrotica, felicemente rumorosa, tra sedie traballanti e gradini occupati da bambini e vecchietti.
Tante persone che sono uscite entusiaste a mezzanotte per le vie di Monteverde vecchio, altrimenti così silenzioso e borghese. Sono state due ore e un quarto di concerto appassionato e perfettamente concepito; una scaletta impeccabile, un palco pieno di musicisti di altissimo livello che mentre Canio raccontava di quando l’uomo sbarcò sulla luna si alternavano ed entravano e uscivano dal palco con una sincronia ammirevole. C’erano Gabriele Gagliarini alle percussioni e Giulio Caneponi alla batteria; c’era Giuseppe “Spedino” Moffa alla chitarra: la zampogna l’ha usata per suonare una memorabile “Cumpa’”. Non poteva certo mancare il piano dell’elegantissimo Rocco De Rosa, coautore di molte delle canzoni ascoltate. C’erano anche le chitarre di Cristiano Califano e il contrabbasso di Pino Pecorelli. Anche Stefano Saletti ha suonato le chitarre, ma in “E mo’” ci ha deliziato con il suo cavaquinho, uno dei suoi tanti strumenti a corda. Una vera chicca è stata poi l’arpa di Giuliana De Donno. Non poteva mancare Nando Citarella, la sua tammorra e la sua voce potente, nella “Giaculatoria dell’amore indifferente”; e a proposito di grandi voci, ecco entrare da una porta della platea Maria Pia De Vito, come la Madonna della “Ballata dell’ipocondria” (mantra ricorrente del concerto, cantata prima da Loguercio, poi interpretata nell’inquietante e bellissimo video di Antonello Matarazzo e infine rivisitata da tutti nel gran finale); lentamente ha camminato verso il palco sussurrando Voce ‘e notte.

Elisabetta Malantrucco
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