Sergio Arturo Calonego - Dadigadì (Autoprodotto, 2015)

Gli appassionati di chitarra apprezzeranno “Dadigadì”, l’ultimo album in solo di Sergio Arturo Calonego, nel quale si rincorrono due mani su una tastiera e una cassa armonica che definiscono uno spazio molto espanso. Uno spazio in cui il ritmo, la ricerca sullo sviluppo ritmico, sembra poter allacciare la scrittura a una forma libera e piena di significato. Come ha sottolineato lo stesso Calonego a proposito di “Marinere” - l’album del 2014 che ha preceduto quello di cui parliamo in queste righe, e che ha di fatto confermato la nuova direzione della sua scrittura, ricevendo anche riconoscimenti importanti nell’ambito sia della musica indipendente che mainstream - la visione, l’idea, la spinta è quella narrativa. Cioè è la scoperta di sapere elaborare una o più serie di storie, o meglio narrazioni, dalle quali si irradiano gli elementi più significativi di un linguaggio che certamente ha dei confini nei codici a cui fa riferimento (l’orizzonte della chitarra acustica: sei corde, una cassa armonica, due mani), ma che stralcia anche qualche convenzione. In questo quadro la successione delle tracce di “Dadigadì” assume un significato più profondo, che può essere ricondotto a un linguaggio estremo nell’impianto, nella matrice, ma estremamente elastico e pieno di possibilità nella forma e nei riflessi che assume dentro lo svolgimento delle singole parti di cui si compone. A ben vedere la sensazione che disorienta al primo ascolto è quella che si prova quando si è colpiti da un fascio di espressioni a loro modo coerenti (“Dadigadì”, il brano di apertura dell’album, ci dice questo senza possibilità di fraintendere). Dico a loro modo perché la coerenza della struttura, e prima ancora dell’idea (torno a pensare alla visione e sopratutto al processo di traduzione attraverso il quale diviene una canzone e poi un album) non è la coerenza appariscente ed equilibrata che può essere subito condivisa e addirittura compresa (“Dissonata”). Non ci fermiamo su questa sospensione, che è anche un’opposizione o una dicotomia ormai inutile, perché di fronte a questo artista (e a molti altri di cui abbiamo spesso la fortuna di scrivere in queste pagine) ciò su cui è necessario riflettere è l’elaborazione di una lingua riflessiva e allo stesso modo descrittiva (“Dancera”). La riflessione e la descrizione sono probabilmente i due poli del cantautorato che più ci piace nella tradizione espressiva del nostro paese. E qui, per i motivi che si sono già detti, si espandono dentro uno scenario più ampio (“Delta”). Innanzitutto perché sono espressi attraverso uno strumento. E poi perché le forme dei brani in scaletta ci rimandano - forse in modo più convincente di come ci ha abituato l’immagine del cantautore che riflette sul mondo che lo circonda - alla relazione stretta ed esclusiva che un musicista istaura con uno strumento. Ecco, l’immagine che si impone a questo punto è quella del suonatore che sfrega la sua chitarra, dentro uno spazio che per molti può essere un’illusione, ma che per chi si lasca impregnare dalla visione e dai riflessi dello strumento si configura come infinito e sempre rinnovabile (“Duende”). Calonego ha richiamato più o meno questo spazio a proposito del suo album “Marinere”, descrivendolo come il risultato, in parte non previsto, di un faccia a faccia con la chitarra, di una riflessione più avanzata sulle idee che covava da tempo. Di un approccio che ha assunto una forma e un significato nuovi nel momento in cui è stato condiviso, cioè nel momento in cui da quello spazio si è manifestata una delle uscite. Il risultato più compiuto di questo percorso di elaborazioni lega insieme gli otto brani di “Dadigadì”, in un crescendo di movimenti, di armonia, di ritmo, di possibilità interpretative che spingono l’album molto in alto. Gli andamenti melodici dei brani sono originali e affascinanti, sopratutto perché, quasi sempre, Calonego riesce a incastrarli con equilibrio nella narrazione ritmica, che si configura come l’elemento primario del suo chitarrismo. Quando emergono in modo più netto, configurano una scena lineare e morbida, originale ancorché coerente con la struttura generale e l’dea che ne è alla base: è il caso di “Dea” e “Darandel”, il brano di chiusura dell’album. 


Daniele Cestellini

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