Leptons – Between Myth and Absence (Dodicilune/I.R.D., 2015)

“Between Myth and Absence” rappresenta l’esordio discografico dei Leptons. Né “un gruppo di particelle subatomiche elementari”, né tanto meno “le monete di poco valore d’Età Ellenistica” soluzioni suggerite dalla più comune e discussa enciclopedia del web, ma semplicemente la nuova creatura musicale di Lorenzo Monni. Al fianco del chitarrista, compositore - e per l’occasione anche vocalist - sardo (trapiantato in Veneto), due pregevoli musicisti come Alessandro Grasso al basso e Paolo Gravante alla batteria. La copertina onirica - creata da Gabriele Brombin - è un’innegabile spoiler delle sonorità dell’album. Senza scomodare le facciate degli album di mostri sacri del passato, come Yes o Emerson Lake & Palmer, causando così inevitabili e gravosi confronti, si può guardare ad esempio a “Black Clouds & Silver Linings” (2009) dei più attuali Dream Theater. Anche la struttura dell’album rivela ascendenze riconducibili agli anni ’70: i “Miti” si avvicendano morbidamente con sei intermezzi strumentali programmaticamente intitolati “Absence”; un’alternanza riscontrabile anche a livello compositivo fra brani compiuti e brevi abbozzi musicali. Resta così (volutamente?) la curiosità ad esempio di quale capolavoro avrebbe potuto generare uno sviluppo della virtuosistica e molle “Absence II”. Non solo i campioni del progressive, ma anche la musica occidentale di tradizione colta, la new wave e il post punk sono le fonti d’ispirazione di Monni, unico autore dei quindici brani del disco prodotto dalla Wysiwyg (forma contratta per What You See Is What You Get) dell’etichetta salentina Dodicilune. Grande cura è riservata anche ai testi in lingua inglese, in particolare in “Back to Oblivion”, “Beware” e “Leptons in Love”, tracce che danno voce ai vinti della società, secondo la definizione del loro creatore. Resta però l’amaro in bocca per l’assenza dei testi nel booklet che ne avrebbe favorito ulteriormente la valorizzazione. L’apertura con “Back to Oblivion” caratterizzata da coretti e unisoni vocali alla Beatles (alla loro “Hey Jude” farà riferimento poi apertamente il testo di “Beware”), innestati però su un tappeto ritmico sempre scivoloso e mai chiaramente definibile, dice già molto sulle qualità del disco, che trova in “The King Inside of Me” e in “Leptons in Love” due perle assolute. La prima potrebbe essere tranquillamente una traccia scartata durante la registrazione di “The Lamb Lies Down on Broadway” con una magnifica prestazione vocale di Monni al limite del plagio di Gabriel. La seconda, invece, è una lettera d’amore assolutamente non convenzionale, non la consueta ballata romantica ma una duplice, e all’apparenza antitetica, veste acustica prima e sinfonica poi. Un disco in sintesi che dimostra come certe formule del passato (“Miti” musicali?) possano ancora produrre pregevoli frutti; un disco assolutamente di classe senza la forzata e ricercata pretesa di essere non convenzionali, con il rischio poi di ritrovarsi “assenti”. 


Guido De Rosa

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