Taraf de Gadjo – Tzigane, Klezmer & Gypsy Jazz Music (Autoprodotto, 2015)

Nati nell’estate del 2006 come quartetto, ed in seguito trasformatosi in trio con protagonisti Domenico Mancini (Violino), Giuseppe “Spedino” Moffa (Chitarra e Fisarmonica) e Guerino Taresco (Contrabbasso), i Taraf de Gadjo sin dai primi passi si sono segnalati per la loro capacità di saper mescolare la musica dei Rom dell’Est Europeo con la tradizione klezmer e lo gipsy swing, dando vita a travolgenti performance live in contesti musicali diversificati dai matrimoni ai grandi festival, passando per i locali di mezza Italia. A caratterizzare i loro sound è non solo l’energia con la quale approcciano l’esecuzione dei vari brani, ma anche la particolare cura degli arrangiamenti che vedono il trio disimpegnarsi con grande agilità attraverso le complesse strutture ritmiche e melodiche della tradizione musica tzigana. A coronamento di un lungo percorso di crescita sul palco, il trio ha dato di recente alle stampe il suo disco di debutto "Tzigane, Klezmer & Gypsy Jazz Music", e per l’occasione abbiamo intervistato il violinista Domenico Mancini per ripercorrere la storia del gruppo e soffermarci sulla genesi e le ispirazioni del loro primo lavoro. 

Partiamo da lontano, come nascono i Taraf de Gadjo?
Durante gli studi musicali in conservatorio sono stato sempre attratto dal repertorio classico di ispirazione popolare, e parallelamente allo studio del violino ho cominciato ad esplorare le danze ungheresi di Brahms, quelle rumene di Bartók, i pezzi spagnoleggianti e la “Zingaresca” di Pablo de Sarasate, le Tzigane di Ravel, fino a spostare la mia attenzione quasi esclusivamente verso la musica dell’Est europeo. E’ stato così inevitabile entrare in contatto con la tradizione musicale tzigana, con gli eccezionali virtuosi ed appassionati musicisti nomadi che riescono a incendiare gli animi con strumenti come violini, clarinetti, cymbalum, fisarmoniche, come nel caso dei musicisti ebresi klezmorim e dei rom lautari, che vicendevolmente si sono scambiati musiche ed influenze. Un’ immagine cinematografica molto efficace è descritta nel film “Train de vie” di Radu Mihăileanu, in cui musicisti ebrei e rom si esibiscono in una sorta di competizione stilistica molto colorata. A questo punto dovevo trovare solo dei compagni di viaggio con cui iniziare a rileggere questa inebriante musica; da qui i Taraf, termine che sta ad indicare una formazione di musica tzigana, de gadjo/gaggè al plurale, termine rom che sta ad indicare il non rom, il "bianco". E così il nostro viaggio ha preso il via prima in quartetto con Elena Floris (violino), Alessandro Nosenzo (chitarra) e Guerino Taresco (contrabbasso) e successivamente in trio insime a Giuseppe Moffa (chitarra e fisarmonica) e Guerino Taresco (contrabbasso).

Dal punto di vista musicale quali sono i riferimenti e le principali influenze del gruppo?
La particolarità di questo trio risiede proprio nel suo approccio eterodosso alla musica gipsy. Mentre il tratto caratteristico, che poi è un punto di forza del nostro suonare, consiste nella diversità di approccio allo strumento. Il mio di provenienza classica, quello di Giuseppe popolare e blueseggiante,  passando per lo stile più jazzistico del contrabbassista.

Come si è evoluto in questi anni il vostro sound?
Proprio questa diversità di approccio agli strumenti ha apportato al nostro far musica una certa originalità, riconosciuta e apprezzata da molti, dove il jazz, la musica classica, il blues, la musica popolare si sono incontrati, per evolversi e sincretizzarsi nel tempo per un’ esecuzione del repertorio est europeo che non vuole affatto copiare il loro modo inimitabile di suonare cercando di farne una brutta copia, ma interpretarlo e farlo vivere a nostro modo, così come noi lo sentiamo.

Come si è indirizzata la vostra ricerca nell’ambito della tradizione romanì e klezmer?
Strumento principe della tradizione lautaresca e klezmer è il violino; essendo violinista non ho avuto problemi nel trovare registrazioni di questo straordinario mondo musicale. Più difficile è stato reperire gli spartiti, cercare di fare nostri i loro stilemi, virtuosismi, abbellimenti, le loro danze, il loro modo pieno di pathos di "far cantare" gli strumenti. Per fare tutto ciò non ho potuto sfruttare la rete, ma come un nomade in cerca d'autore mi sono mosso proprio verso i villaggi, nei Carpazi, nella Puszta ungherese cercando di trascrivere, apprendere e imparare da questi straordinari e un po’ misteriosi personaggi che sono i musicisti rom, e non parlo di quelli che, ahimè, suonano "O sole mio" nelle metropolitane. Musicisti che non ti dicono come suonare, ma devi essere tu che con tanta umiltà, pazienza, dedizione, e perché no devozione, a cercare di cogliere quello che loro vogliono offrirti. Loro hanno, infatti, un doppio approccio alla musica, quella suonata tra loro, in famiglia, che si differenzia da quella eseguita per il pubblico nei ristoranti, per strada. 

Dopo un lungo rodaggio dal vivo del gruppo, finalmente quest’anno ha visto la luce "Tzigane, Klezmer & Gypsy Jazz Music", il vostro disco di debutto...
Essendo molto critico nel lavoro, mi sono sempre rifiutato di chiudermi in uno studio di registrazione, non avendo mai avuto un buon rapporto con questi ultimi. Tuttavia, dopo tante richieste da parte del pubblico, che ci ha sollecitato e spronato nel corso degli otto anni di vita del gruppo e centinaia di concerti, mi sono convinto e deciso a compiere il grande passo, e posso dire di aver fatto bene poiché il risultato mi sembra ottimo, ma non spetta a me dirlo. Si tratta di un disco nel quale vengono fuori tutte le nostre anime, tutta la nostra esperienza maturata in questi anni, e anche di più visto che abbiamo avuto il piacere di ospitare nel disco alcuni amici musicisti di grande valore come Antonello Di Matteo al clarinetto, Massimiliano Mezzadonna alla fisarmonica e l'eccentrico Marco Bassi al pianoforte.

Come avete scelto i brani da reinterpretare?
Il repertorio è decisamente vasto considerando che nei nostri concerti eseguiamo musiche della tradizione tzigana, klezmer e gypsy jazz, quindi abbiamo dovuto operare una scelta mediando tra i pezzi più sentiti da noi e quelli più apprezzati dal pubblico durante i concerti. Non potevano mancare la “Czardas” di Vittorio Monti, “Ciocarlia” che è l’inno popolare della Romania, almeno un paio di pezzi manouches (gypsy jazz) di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli, una citazioni di Hava Nagila e altri temi tradizionali klezmer. Possiamo dire che il "prodotto finale" è il nostro biglietto da visita.

Qual è stato il vostro approccio agli arrangiamenti? 
Abbiamo la fortuna di avere nel trio Giuseppe "Spedino" Moffa che oltre ad essere un valente polistrumentista è anche uno straordinario compositore e arrangiatore. Colgo l’occasione per segnalarvi l’imminente uscita del suo secondo disco come cantautore. Per quanto mi riguarda ho scelto i temi e le melodie musicali che più si adattano e avvicinano alla mia sensibilità violinistica e personale ho dato una prima impostazione all’arrangiamento delle strutture melodiche, armoniche e ritmiche, ma gran parte del lavoro è stato fatto da Giuseppe e Guerino.

Quali sono le difficoltà di un trio nel rileggere musiche solitamente suonate da ensemble più ampi?
Ci sono state e in qualche modo continuano ad esserci diverse difficoltà nell’eseguire in formazione ridotta i tre generi da noi interpretati. Questa musica non è fatta solo di meravigliose melodie, ma una componente essenziale è data dal ritmo, dai controcanti del secondo violino o del clarinetto, a cui tante volte è affidato anche il tema principale, soprattutto nella tradizione musicale klezmer, dalle fioriture sul tema, dall’accompagnamento sincopato della viola, dalle impennate virtuosistiche del cymbalum che tanto in termini di sonorità, colore e ritmo apporta alle orchestre tzigane rumene e ungheresi. Chi vuole approcciare questa musica non può non fare i conti con questi aspetti. Da parte nostra ci siamo visti costretti ad un organico ristretto per diversi motivi, ma sicuramente uno di natura economica. In questi tempi tragici e nefasti per la musica e per la cultura in generale in Italia avere anche una persona in più nel gruppo significa dividere ancora meno del meno dei risicati compensi italiani. Un altro motivo è di natura prettamente logistica, infatti trovare un cimbalista in Abruzzo o in Molise non è affatto semplice! Insomma motivazioni ne potremmo trovare diverse ma come dice Giuseppe il fatto di essere un trio così unito nel suono e nelle specificità e competenze musicali fa sì che bastiamo a noi stessi. Pur avendo un organico limitato, riusciamo a riprodurre le dinamiche serrate, i colori, le intenzioni, l’intensità emotiva e tutte quelle peculiarità di questa affascinante musica.    

Nel disco sono presenti anche diversi brani klezmer. Qual è il vostro approccio a questa tradizione?
Devo dire che il nostro incontro con la musica klezmer è stato decisamente felice e più facile rispetto alle difficoltà ritmiche ed interpretative che presenta musica tzigana. In qualche modo questa musica è più fluida e diretta, visto che è il frutto di stratificazioni culturali differenti, raccogliendo elementi della tradizione magiara, bulgara, turca, greca, e russa, dovute al fatto che i musicisti che la eseguivano erano per scelta o costrizione portati a spostarsi continuamente. Le loro danze come il Bulgar, il Freylekh, lo Sher, il Terkish ben si adattano alle nostre dita e al nostro sentire!

Tra i brani più riusciti merita una citazione “Daphné” di Django Reinhardt. Quanto vi ha influenzato il suo stile e le sue composizioni?
Aggiungere dei brani gypsy jazz al nostro repertorio è stato un desiderio mio personale, fortunatamente assecondato da Giuseppe e Guerino, che come me sono innamorati del modo si suonare lo swing manouche col violino di Stéphane Grappelli, che insieme al leggendario Django Reinhardt fondò l’Hot Club de France. Per me è stata una figura di riferimento non solo il suo inconfondibile stile, ma anche per il suo approccio tout court al violino. Inoltre ci incuriosiva esplorare anche un altro lato importante della tradizione rom, ovvero l’improvvisazione che ha rappresento il punto di incontro tra valzer musette, jazz americano e tradizione tzigana da cui è nata la musica manouche.

Ci puoi parlare del vostro approccio al palco? Quali sono le particolarità dei vostri concerti?
In teatro come al pub, ai matrimoni come alle sagre, ai festival, per strada, abbiamo sempre ricevuto grandi consensi da parte del pubblico, e questo sia per il genere che suoniamo, sia per l’energia con la quale riusciamo a coinvolgere il pubblico, approcciando l’esecuzione di ogni brano con naturalezza, informalità e una bella dose di sana simpatia. Magari si può ascoltare Vasco Rossi, amare il free jazz, Bach, o andare in discoteca, oppure essere totalmente indifferente alla musica, ma una melodia dal sapore antico, piena di pathos, fascino, mistero, ironia, gioia mescolata a malinconia non può non toccare, scuotere, ed ammaliare il pubblico. 

Come si indirizzerà in futuro la vostra ricerca sonora? Quali sono i prossimi passi dei Taraf de Gadjo?
In questa formazione continueremo nella ricerca e nella scoperta di nuovi pezzi da aggiungere al repertori, per il resto confidiamo, anche se con pochissimo ottimismo, che le sorti della nostra amata terra possano risollevarsi. Per chi fa della musica la propria professione non basta studiare e cercare di ben suonare, si tratta di riuscire a vivere con essa. Purtroppo in Italia la musica si elemosina, e noi non possiamo fare altro che suonare perché è la cosa che ci riesce meglio, la nostra croce e delizia. 


Taraf de Gadjo – Tzigane, Klezmer & Gypsy Jazz Music (Autoprodotto, 2015)
Ad otto anni di distanza dall’inizio della loro avventura artistica, e con alle spalle una intensissima attività live, i Taraf de Gadjo finalmente giungono al loro debutto discografico con "Tzigane, Klezmer & Gypsy Jazz Music", nel quale hanno raccolto dieci brani registrati e mixati presso gli studi “Protosound Polyproject” di Chieti Scalo. Il disco riflette molto bene come questi anni siano serviti a maturare pian piano il loro approccio alla tradizione musicale dell’Est europeo, colorandola con influenze che spaziano dalla musica klezmer al gipsy jazz, con l’aggiunta di una bella dose di originalità negli arrangiamenti. Nonostante l’organico ridotto di un trio, i Taraf de Gadjo nell’approcciare la costruzione melodica e ritmica dei vari brani, hanno mirato a trasformare questa sorta di debolezza in un vero e proprio punto di forza, evocando in modo eccellente le complesse strutture del corpus tradizionale dell’Est Europeo attraverso il perfetto interplay tra i vari strumenti. Il loro originale approccio interpretativo gli ha consentito così di uscire agilmente dalle secche dalle riletture calligrafiche, permettendo alle singole individualità di mettere a frutto i rispettivi background artistici per dar vita ad una ricerca sonora costante e mai banale. In questo senso non casuale è stata anche la scelta del nome del gruppo che in lingua romanì indica una formazione orchestrale tzigana (taraf) composta da musicisti non rom (gadjo). Ad aprire il disco sono le trascinanti sonorità della tradizione klezmer con “Leymakh”, nella quale brilla l’intreccio tra il violino di Domenico Mancini, la fisarmonica di Massimiliano Mezzadonna, la chitarra di Giuseppe Moffa ed il clarinetto di Antonello Di Matteo. Si prosegue prima con la splendida versione della “Czardas” di Vittorio Monti, e poi con quel gioiello che è l’intenso ed evocativo tradizionale yiddish “Kazimierz” proveniente dalla Polonia. L’invito al ballo del crescendo “A Nakht in Gan Eydn”, nella quale spicca la pregevole tessitura ritmica del contrabbasso di Guerino Taresco, apre la strada ai due vertici del disco ovvero l’elegantissima rilettura di “Troublant Boléro” e la scintillante “Daphne” entrambe dal repertorio di Django Reinhardt e Stéphan Grappelli, nelle quali spicca tutta la compattezza del trio nell’approcciare due classici del repertorio gipsy swing. Se il pianoforte di Marco Bassi giganteggia in “Russian Tango” nel successivo “Medley Klezmer” si svela a pieno tutto il talento e l’energia del trio nello spaziare da spaccati riflessivi a momenti in cui a farla da padrone è l’entusiasmo e l’allegria. Il tradizionale rumeno “Ciocārlia” sugella disco pregevole che rappresenterà certamente un punto importante di partenza per il cammino discografico dei Taraf de Gadjo.


Salvatore Esposito
Nuova Vecchia