Aurelio – Lándini (Real World, 2014)

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Torna a casa l’honduregno Aurelio Martinez (chitarre acustiche, percussioni e limpida voce), con un album che dichiara fin dal titolo l’omaggio alla propria comunità garifuna (oggi presente in Honduras, Nicaragua, Guatemala e Belize). Difatti, ”lándini”, adattamento linguistico locale dell’inglese “landing”, è un’allusione allo sbarco sulle coste dell’America Centrale dei garifuna. Parliamo di discendenti di africani, strappati alle loro terre dalle navi negriere e trasportati nei Caraibi, che avevano raggiunto l’isola di St. Vincent dopo un naufragio nel diciassettesimo secolo – così narra la storia orale garifuna – mischiandosi alle popolazioni amerindie e integrandosi nella società coloniale francese, per poi essere espulsi dall’isola, vittime della macchina economico-militare britannica. Con la prematura scomparsa del suo fraterno amico Andy Palacio, Aurelio ha preso il testimone di voce dei garifuna, un popolo che non vuole scomparire, divenendo deputato della sua comunità al parlamento honduregno. Soprattutto, è divenuto alfiere di una musica che assume aggraziati tratti acustici, umori melanconici che possono ricordare l’universo capoverdiano, caldi ritmi caraibici e latini con virate verso rock leggero e verso il sound urbano dell’Africa occidentale. In più, c’è il valore aggiunto di un’avvincente storia di diaspora, appetibile a quell’Occidente incline a una lettura del mondo in una condizione post-coloniale. 
Così dopo la collaborazione con Youssou N’Dour e la storica Orchestra Baobab nel precedente “Laru Beya”, album che simbolicamente rinsaldava l’atavico legame con l’Africa, e che gli ha portato notorietà nel circuito world orfano di Palacio, per il terzo disco, dall’attivissima etichetta discografica belizeana Stonetree (il produttore del disco è comunque Ivan Duran è il fondatore e direttore della label del Caribe) Aurelio è approdato alla corte britannica della Real World. Imperniato sulla tradizione paranda e punta, con temi tradizionali appresi o scritti direttamente da sua madre Teofila Maria Martinez Suazo (che riceve i giusti credits nel disco), “Landini” è una delizia dall’inizio alla fine, con pochissime battute a vuoto: una conferma del valore dell’aedo di Plaplaya, qui accompagnato da un affiatato combo elettro-acustico. Ci si lascia prendere subito dalle movenze latine di “Sañanaru” e di “Nando”; si muove su tempi lenti e tocchi di languide chitarre, “Milaguru”, tragica storia del naufragio di un traghetto in Guatemala. Il ritmo incalza tanto nel tradizionale call & response“Nafagua” quanto nell’ironica “Nari Gulu”, entrambe arricchite da appetitosi solo di chitarra. 
L’atmosfera ritorna a farsi riflessiva nella title-track, ambientata nel più tipico luogo d’incontro della comunità di Plaplaya, il fiume del villaggio, dove attraccano le barche: è una canzone commento sulle difficoltà di guadagnarsi da vivere, con una bella combinazione di chitarre, elettrica ed acustica. Non manca il bersaglio neppure “Lirun Weyu”, firmata da Shelton Petillo, giovane autore garifuna del Belize, mentre “Durugubei Mani”è il segno della consapevolezza politica di Aurelio. Forti suggestioni anche in “Irawini”, che esprime l’intensità del legame tra il musicista e sua madre Maria, autrice del brano: lei ascolta da lontano il suono della chitarra del figlio, mentre attende con trepidazione il suo ritorno a casa. Sprigiona chitarre africane il trittico finale, di cui “Funa Tugudirugu” mette in guardia le ragazze, invitandole ad evitare gravidanze in giovane età, “Nitu” discetta di rapporti familiari. Infine, di pene d’amore parla“Chichanbara”, in cui la radice di zenzero, efficace medicamento tradizionale, poco può per lenire le sofferenze derivanti dal rifiuto di una donna. Grazie al troubadour honduregno e agli altri artisti del Caribe, che si sono già affacciati o seguiranno la sua scia, quello dei Garifuna è un tesoro musicale che non andrà dissipato. 


Ciro De Rosa
Nuova Vecchia