Mieko Miyazaki & Suizan Lagrost – Kyoku (Felmay, 2013)

“Kyoku” è un disco di musiche popolari giapponesi eseguite da Mieko Miyazaki e Suizan Lagrost. La prima è una musicista giapponese che vive in Francia – dove si è trasferita nel 2005, quando era già una concertista professionista apprezzata in tutto il mondo – che ha il merito di diffondere in “Occidente” la conoscenza del koto (uno strumento a corda appartenente alla famiglia della cetra) e, con esso, uno scenario musicale sostanzialmente diverso da quello che viene in genere indagato attraverso le produzioni world contemporanee. Lagrost è un musicista francese (suonatore di shakuhachi, un flauto dritto di canna di bambù), molto conosciuto e apprezzato in Giappone, al quale la Tozan School, la più importante scuola di musica giapponese, ha conferito il titolo di “maestro”. Chi vorrà “leggere” questo disco avvertirà fin da subito la complessità del progetto, non solo sul piano musicale, ma anche culturale, oltre che su quello delle sensazioni che suscita e dello spettro di evocazioni. In questo senso, ascoltando il disco ed entrando in contatto con gli elementi che lo compongono, si individuano una serie di dati positivi, che sono riflessi nelle musiche e, in modo probabilmente più diretto, negli strumenti con i quali sono eseguite. Iniziamo da questi, per poi parlare del resto. Come ci dice Aldo Tollini (professore associato alla Ca’ Foscari di Venezia) nelle note di presentazione del disco, il suono dello shakuhachi “sembra provenire da luoghi misteriosi, creando così una fascinazione malinconica e trasmettendo una forza pura” che evoca “un elemento della natura”, come “il vento che soffia tra gli alberi di una foresta”, oppure “il suono di un torrente impetuoso”. Secondo Tollini, lo shakuhachi, caratterizzato da un suono deciso ed etereo allo stesso tempo, si inserisce nei brani di “Kyoku” a completare il quadro armonico e ritmico delineato dal koto, lo strumento protagonista del disco. Cordofono di origine cinese introdotto in Giappone nell’ottavo secolo (generalmente costruito in legno di Paulownia, sul cui corpo, costituito da una grande cassa armonica che poggia su quattro piedistalli, sono fissate tredici corde tirate con la stessa tensione e che si accordano con ponticelli mobili), il koto è uno strumento che non può non ricordare il sitar o la lap slide guitar indiana divenuta famosa negli ultimi anni grazie a Debashish Bhattacharya (e al compianto chitarrista americano Bob Brozman). Sebbene il suono del koto sia più legnoso e meno onirico dei due cordofoni indiani, evoca la stessa idea di completezza, dovuta probabilmente alle soluzioni polifoniche cui si presta. Sono ben rappresentativi di queste caratteristiche “Ichikotsu – 1st movement” e “Kurokami”, entrambi brani particolarmente complessi sul piano tecnico. Il primo è una parte di una suite riproposta in tre movimenti, scritta nel 1966 da Yamamoto Hazan, uno dei più importanti compositori giapponesi del periodo post-bellico. Il secondo brano fa parte, invece, del repertorio tradizionale che era eseguito durante le commedie teatrali. A questa completezza esecutiva dello strumento si aggiunge, in soluzioni sempre inaspettate, la voce possente della Miyazaki. Il brano “Yae Goromo” ne è un esempio: è stato scritto da Naka Chirashi, compositore dell’inizio del diciottesimo secolo, ed è uno dei più complessi nell’ambito della “chamber music” di quel periodo. In termini generali, come si è sopra accennato, “Kyoku” è un progetto interessante anche sul piano culturale. Da un lato perché nasce come prodotto composito e, quindi, si inserisce a pieno titolo nelle (migliori) produzioni musicali contemporanee ispirate alle espressioni tradizionali. Dall’altro perché il suo “posizionamento” in questo scenario crea uno squarcio. Una divergenza (un’incoerenza), cioè, che non può non essere positiva in un mercato “leggero-centrico” e caratterizzato da una strana velocizzazione degli ascolti, così come da un’inedita “diffusione” dei singoli brani a svantaggio delle opere complete (che dovrebbero racchiuderli ed entro le quali dovrebbero valere come significanti), cioè dei dischi. I migliori elementi che rendono “world” (senza retoriche commerciali) la musica che compone il disco ci sono tutti: decontestualizzazione, selezione dei repertori tradizionali, convergenza di conoscenze musicali differenziate, riproposta virtuosistica (anche se non ridondante) dei repertori più rappresentativi della cultura musicale di riferimento. Ciò che manca (e non è un male) è un certo grado di modernizzazione (sebbene possa essere ravvisabile nelle esecuzioni), poiché gli strumenti utilizzati sono esclusivamente tradizionali. Insomma “Kyoku” è un esemplare raro nella discografia neo-tradizionale contemporanea.


Daniele Cestellini
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