Ritorno A Bamako. Hugo Race Racconta Troubles, Nuovo Disco Maliano Dei Dirtmusic

Per Chris Eckman e Hugo Race è un ritorno nel paese subsahariano, che ha come antefatto la collaborazione con la band tamasheq Tamikrest: i tuareg della tenda accanto al Festival au Désert, dove i Dirtmusic (allora un trio con Chris Brokaw, che ha rinunciato a questo nuovo viaggio africano per il precipitare della situazione politica in Mali) erano stati invitati a suonare nel 2008. Da una jam session nel deserto tra rocker indie e alfieri rock tuareg nascerà l’album “Bko” del 2010 (Bko è la sigla dell’aeroporto di Bamako), mentre Eckman produrrà “Toumastin” dei Tamikrest, pubblicato l’anno successivo. Ora con “Troubles” la prospettiva si allarga alle altre culture maliane. «L’incontro di Dirtmusic con i Tamikrest al Festivalt au Désert cinque anni fa ha cambiato davvero gli schemi di entrambe le band» — racconta Hugo Race, musicista australiano, nomade inquieto di geografie musicali, dai Bad Seeds di Nick Cave ai True Spirit, ma anche viaggiatore instancabile: da Londra a Berlino, da Catania fino a Timbuctu, giusto per seguirne un po’ le tracce dagli anni ’80 in poi — «Dopo aver portato in giro per l’Europa con noi l’album “Bko “, i Tamikrest hanno proseguito affermandosi internazionalmente, mentre noi con il nuovo album “Trouble” abbiamo collaborato con musicisti che provengono da differenti tradizioni: songhai, bambara e bwa. Ben Zabo è stato assistente tecnico del suono in “Bko”, e quel legame è contato nel fa sì che, infine, Chris Eckman abbia messo sotto contratto Ben Zabo con la Glitterbeat (sotto-etichetta della Glitterhouse che produce artisti africani, ndr). Oltre ai Tamikrest, che altri ascolti africani nella playlist di Hugo? «Negli anni ho visto dal vivo o ascoltato Bassakou Koyate, Super 11, Le Orchestre Cotonou, Tartit, Yoro Sidibe, Tinariwen, Bombino, Terakraft, Afel Bocoum, Ali Farka Toure, Lobi Traore, Rokia Traore, e tanti altri, una vasta scena musicale a sé stante...» 
“Troubles” è stato concepito in due settimane di intense session nella capitale; nonostante i rischi per il conflitto che stava dilaniando il Mali Eckman e Race, diversamente da Brokaw, hanno ragionato che quella sarebbe potuta essere l’ultima occasione di sviluppare il progetto. «Non abbiamo portato canzoni in sala di registrazione, solo idee, chitarra ed elettronica e sostanzialmente abbiamo registrato per due settimane in full immersion nello studio Moffou di Salif Keita», mi spiega Race. È il club studio di registrazione che la star world maliana ha costruito in riva al fiume Niger; tutto è avvenuto nel corso della fase di tremenda crisi politica in cui versava il Mali nel settembre del 2012. Continua Race: «È stato caotico, ma quella era la situazione politica, come un periodo di vuoto tra l’invasione islamista e l’intervento francese. Quindi la maggior parte dei testi parla di guerra, pace, crisi, si avverte un senso di urgenza nel suono». È una lunga scia quella dei rocker occidentali colpiti dal mal d’Africa. Da qualche anno è il Mali il punto d’attrazione per la sua vivissima e variegata scena musicale, a tal punto che sembra essere diventato un luogo à la page per rockettari alla ricerca di suoni altri. «Siamo andati lì in primo luogo per scavare la musica, ma da allora sono cambiate molte cose. C’è molto fermento in tutto il mondo, anche musicalmente, perché tutti ascoltano tutto attraverso internet, che è un modo per avvicinare la gente, per buttar giù le barriere. Esattamente ciò che abbiamo cercato di fare con “Troubles”, e abbiamo scoperto che i nostri collaboratori volevano fare lo stesso. Ciò, per così dire, significa dare un messaggio al mondo. Il Mali è andato ha avuto i titoli di testa nel 2012 per l’invasione islamista del nord, ma prima il paese era in un certo senso fuori dalle mappe. Credo che l’essenza del fascino esercitato dal Mali sui musicisti stia nel fatto che la musica ha un ruolo chiave nella comunità, è parte del quotidiano: è musica antica, tuttavia moderna e i musicisti stessi sono meravigliosi»
Quantunque si sia abituati, il viaggio produce sempre uno shock culturale. «In un certo senso è un po' come tornare indietro nel tempo. Bamako è una miscela di medievale e di postmoderno e questo, fisicamente, ha un costo perché la natura e tutto il resto è forte, tra il deserto e la giungla. Lì c'è povertà assoluta, ma anche una freschezza e un'energia che sono diverse da qualsiasi altro posto che conosco. Ad ogni modo, vedo la città come in costante fermento musicale, sebbene la realtà del conflitto in Mali non stia aiutando per niente la scena musicale. Forse non c’è mai stato momento peggiore per i musicisti , presi nel fuoco incrociato politico. Si spera, con l’attenzione del mondo, che la situazione possa ritornare alla “normalità” e nuove voci possano essere sentite in lungo e in largo. Per me e Chris fare il disco ha significato tante sorprese e incontri». Un album pieno di artisti già noti o che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi anni, come Ben Zabo, Samba Toure, Aminata Traore, Virginie Dembele, Zoumana Tereta, un ruolo centrale ha avuto la sezione rimica di Ben Zabo, musicisti di cultura Bwa provenienti dalla regione di Bwatun, a cavallo tra Mali e Burkina Faso. Descritti ironicamente da Ben Zabo come i “tedeschi” del Mali, industriosi, ambiziosi, bevitori di birra e grandi lavoratori: «Portano un approccio altamente energetico, che rimanda all’upbeat dell’Africa occidentale. Sono una nuova generazione di musicisti che stanno reinventando la loro musica per l’oggi, ma conoscono la loro musica e la loro storia. Li ho visti suonare dal vivo diverse volte a Bamako e il loro live set è potente, ipnotico e implacabile – possono suonare per ore, magari cambiando il batterista o i chitarristi durante il set, quindi c'è un senso di anarchia ispirata da abbinare alla velocità e all’intensità della musica. Quando abbiamo lavorato insieme Chris e io abbiamo dato tempi e accordi che potevano essere per loro un territorio sconosciuto, ma non hanno sbagliato una battuta, c’era come un collegamento quasi telepatico tra di noi in studio. È stata davvero una grande esperienza lavorare con loro!»
Race sottolinea l’affetto per un disco che non assomiglia a niente altro ascoltato prima, con composizioni e liriche che sono nati da una stretta collaborazione con i musicisti maliani durante le due settimane, canzoni che affrontano tematiche diverse, ma che risentono della tensione sociale e politica, un ampio spettro linguistico per le canzoni: inglese, songhai, tamasheq e bambara. «Mentre stavamo realizzando l’album, le forze politiche hanno fomentato disunione e conflitto tra i popoli che avevano vissuto insieme in pace per un tempo molto lungo, quindi abbiamo voluto presentare una visione di inclusione. Il Mali è una società estremamente multilingue: ci sono molti, molti dialetti, motivo per cui spesso le persone comunicano in francese. Il Festival au Désert, per esempio, è stato ed è per tutti i gruppi culturali un luogo ideale per riunirsi e condividere musica – ed è per questo che le forze politiche hanno cercato di evitare questo tipo di evento accada. Le canzoni di “Troubles” hanno tutti una genesi particolare che non è facile da descrivere. Quando ogni canzone “arrivava”, per così dire, è stato come un grande mistero per tutti noi! Il modo in cui i testi sono venuti fuori e le canzoni sono state arrangiate è stata una rapida evoluzione dal nulla, abbiamo seguito il nostro istinto». Una confezione contenente un booklet di 28 pagine per un disco in undici episodi a base rock e a tinte psichedeliche, dilatate, con passaggi ipnotici, punte acide e funk, voci, strumenti e ritmi delle diverse culture maliane; in più un’impronta elettronica che può ricordare un approccio come quello degli Embryo, di certe produzioni di Bill Laswell, o per venire a tempi più recenti, richiami ai Massive Attack. piuttosto che la ricerca delle radici del blues o di altre ancestrali richiami di rockers anglo-americani. Lo si avverte subito sin dall’apertura di “Chicken scratch” per basso (Jonathan Dembélé), batteria (Jean Diarra), percussioni (Kassim Keita), voce di Ben Zabo, chitarre di Eckman e Race (quest’ultimo anche all’organo). Portamento magnetico, ritmica funky, percussioni, balafo, riff di chitarre fluttuanti, voci e il violino di Catherine Graindorge in “Fitzcarraldo”. 
Chiarisce Hugo: «Scaturisce da una discussione all'inizio del 2012, dopo che avevamo dovuto annullare un viaggio in Mali a causa del colpo di stato e di tutta l'incertezza della situazione politica. Fitzcarraldo di Werner Herzog è un film che descrive un uomo ossessionato da un compito che sembra impossibile – che a quel tempo era ci apparse come l’idea di registrare in Bamako. Abbiamo registrato le nostre voci negli ultimi giorni in studio, scrivendo i testi molto rapidamente, ascoltando le riproduzioni di queste lunghe jam strumentali. E mi sembrava, in un certo senso, che l’impossibile si era, difatti, dimostrato possibile. Allo stesso modo, volevo scrivere qualcosa sulla guerra che trattasse l’argomento su un altro livello, di fare qualcosa che desse speranza e che fosse ispirante, che trascendesse piuttosto che riecheggiare la tragedia dei tempi». Sulla stessa scia è “The big bend” cantata da Ibrahima Diouf, mentre “Wa ya you”, canzone di Samba Touré, si snoda tra rumorismi, risonanze dell’arcaico violino soku, percussioni incalzanti, chitarre ondeggianti e la voce del cantante di Timbuctu, allievo prediletto di Ali Farka Touré. “Up to us” possiede le fattezze di una intima ballata notturna. La title-track “Troubles” si muove irresistibilmente tra spinta in levare, basso penetrante e anima blues. «È una bestia strana, una canzone originariamente dell’artista anglo-giamaicano Keith Hudson. L’abbiamo adattata e trasformata, i testi aggiunti da Chris portano la canzone in tutto un altro spazio. È stata registrata in un solo take: nessuno di noi l’aveva mai suonata prima! Così come tutto l'album, operando in realtà solo su intuizione». Luminosa come la speranza cantata è “La Paix”, uno dei primi brani incisi, tra i più riusciti del lavoro per amalgama tra i musicisti, partecipe l'incredibile ugola di Aminata Wassidjé Traoré. 
«Chris è tornato da un viaggio in Mali non molto tempo fa con un gruppo di nuovi dischi e il primo album di Aminata era uno di quelli. Entrambi abbiamo apprezzato molto la sua voce e la sua potenza e il suono della sua musica. Con una sorta di coincidenza sincronica avevamo un amico in comune a Bamako così l’abbiamo invitata in studio, e registrato una canzone appositamente per lei. Ha registrato “La Paix” in un take, senza aver mai ascoltato in precedenza la parte musicale! Un secondo brano con Aminata, ancora meraviglioso, apparirà sul secondo album. Una cantante molto speciale e speriamo di lavorare ancora con lei nel prossimo futuro». Ancora spunti solistici incisivi in “Take it on the chin”, laddove “Wa Nuza”, dominata dal canto di Virginie Dembélé, è corposa ed avvolgente per l’ampio uso di elettronica. In “Sleeping beauty”, brano per balafon, basso, batteria, chitarre, tastiera e voci, ricorda Race, «Il testo è stato concepito come una chiamata al risveglio, un brano che aveva bisogno di una traccia guida per comunicare l’urgenza – ma non ha davvero preso fuoco fino a quando Ben Zabo non ha preso la chitarra e ha attaccato un groove à la James Brown. Quando lo ha fatto, la canzone è decollata!» Invece, ancora il violino ad una corda soku introduce “God is a Mystery”, per la voce potente, nobile di Zoumana Tereta e una base elettronica e percussiva pulsante e minimale di forte suggestione: «Be’, è stato un momento incredibile, avevo i capelli ritti in testa! Ma non sapevo cosa stesse cantando, solo più tardi, quando abbiamo avuto una traduzione delle parole che mi hanno colpito per la lirica esistenziale, abbiamo capito come poteva essere arrangiata». “Troubles” è il primo di quella che potrebbe essere addirittura una trilogia. Ascoltiamo ancora Race: «Abbiamo registrato una trentina di pezzi distinti durante le sessioni, e c'è abbastanza materiale per un secondo album con un diverso tipo di dinamica rispetto a “Troubles”, forse più mistico e astratto, anche se ci saranno pure brani aggressivi. Per ora siamo entusiasti di questo disco, e il prossimo anno ci sarà il secondo disco tratto dalle stesse sessioni, che sarà intitolato “Fetish”. Il terzo album è una bella idea, ma non so davvero come sfocerà, non ancora. Il processo continua ...»


Ciro De Rosa
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